Ho trascorso buona parte della fanciullezza e della gioventù in campagna. Uno degli eventi più emozionanti era il giorno della trebbiatura del grano, a fine giugno: una gioia intensa che mi è rimasta stampata addosso. Talora, però, la gioia in un attimo si offusca, si dissolve e allora, se si sprigiona la fantasia narrativa, accade che… be’, ve lo racconto, perché «na storia béla fa piasì cüntela», anche se proprio vera non è, proprio finta nemmeno, verosimile sì. Nel diffuso frastuono, spesso rabbioso e ostile, di questo nostro tempo, abbiamo un gran bisogno di storie… come dire… concilianti, magari con qualche venatura di malinconia o con qualche scoppio tragico, ma che lasciano aperta la fessura della speranza e della rinascita. Tra cronaca e romanzo, hanno un posto ideale le «StOriE CoSì», racconti verosimili con i connotati della verità autentica e possibile. BUONA LETTURA. IL PROSSIMO APPUNTAMENTO CON UN’ALTRA «STORIA BELA»: LUNEDì 11 NOVEMBRE, TRA UN MESE. Ciau!
Il disegno di copertina, realizzato appositamente per questo racconto, è opera di Filippo Pietro Rossi, 8 anni
Il cellulare squillò per la terza volta da quando lo aveva riacceso, dopo il funerale. Lasciò che suonasse sul sedile, scese dall’auto e diede un colpo alla portiera. Il cancello arrugginito era chiuso con una catena e un lucchetto altrettanto arrugginiti. Gli venne da sorridere. Un cancello serrato per custodire un rudere. Perché quello era rimasto della cascina dei Rondoni. Del porticato s’intravedevano a malapena i monconi dei pilastri, il tetto della casa era crollato, le persiane scrostate penzolavano, le crepe attraversavano i muri come ragnatele. Anche la recinzione era inghiottita dai rovi.
Notò un punto in cui poteva aprirsi un varco. Con un balzo superò il fossato ingombro di ortiche, usò un ramo per scostare il fogliame ed entrò nel cortile.
Lo scenario era desolante e, tuttavia, provò un intimo conforto nel vedere che tutto era rimasto al proprio posto, dove l’aveva lasciato l’ultima volta.
Nel giardino, per quanto invaso dalla gramigna e spoglio delle rose, delle dalie e delle peonie che ricordava fiorite, c’era ancora la zappa, appena dietro il cancelletto. Oltre l’aia di cemento, il pozzo. Poco distante, i resti delle gabbie dei conigli e la recinzione sgangherata cui si appoggiava, se pur incolta, la vite di uva luglienga. Avanzò di qualche passo e si accorse che il ciliegio era stracarico di frutti, ma appena rosati. Davanti all’uscio, vasi rotti senza gerani, e un paio di bastoni lunghi che erano serviti per tenere su la corda quando la nonna Clelia stendeva il bucato.
Un rivolo di sudore gli solleticò la schiena. Si sfilò la giacca e l’appese a un chiodo arrugginito sul pilastro di cemento del pozzo, allentò la cravatta e si sedette sul bordo della vasca di pietra. Il fondale era asciutto. Da settimane non pioveva. «Temperature da record» andavano dicendo giornali e tivù. «L’agricoltura è in ginocchio». I preti dei paesi invocavano i Santi perché piovesse.
Ci voleva una pioggia lunga e lenta, che penetrasse nel terreno adagio, facendo affluire quell’odore un po’ rancido che sale su insieme a una nebbiolina quasi evanescente.
Purché non fosse un temporale asciutto, di quelli che squarciano il cielo di tuoni e lampi e rilasciano soltanto radi e inutili goccioloni. Già, purché non succedesse ciò che era accaduto quella estate.
«Un’estate grama» aveva biascicato sua nonna Clelia con gli occhi sbarrati davanti al disastro.
Quando le fiamme si spensero, rimasero monconi neri di muri, e travi, e puntoni di ferro. Un camino, pure annerito, restò in bilico su un brandello di tetto, finché un vento forte lo rotolò giù.
Le rondini non tornarono più a fare i nidi a primavera. E anziché la «cascina dei rondoni» da quel momento la gente prese a chiamarla la «cascina della malora».
La nonna si trasferì in una casetta di due stanze in città, con un pezzetto di giardino davanti, che lì avrebbe potuto starsene tranquilla, a coltivare i suoi fiori e a non rovinarsi la schiena con le faccende pesanti. Ma lei si ammalò di crepacuore e lasciò che il giardinetto cittadino si riempisse di gramigna. Finché la testa se ne partì del tutto per i fatti suoi, lasciandola in balia di fantasie bizzarre, come quella di accendere ogni sera delle candele e rimanere trasognata davanti al fuoco.
La portarono in una casa di riposo, dove il cuore continuò a fare il suo lavoro ancora per un po’ di anni, perché era di pasta tenace, gurëgn, avrebbe detto lei. Finché la nonna Clelia si spense come l’incendio della cascina. E non restò altro che il nero del lutto.
L’avevano avvertito i suoi famigliari, mentre era all’estero. Si era imbarcato sul primo volo per arrivare in tempo al funerale.
«Dovremo andare dal notaio… – gli avevano detto all’uscita dal cimitero -. Sai, per via del testamento… la nonna Clelia, già prima che…» avevano fatto un gesto svirgolato all’altezza della testa, «be’, voleva che andasse a te la “cascina della malora”, perché tu ci eri affezionato…».
«La “cascina dei rondoni”» corresse lui in un bisbiglio.
«Sì, insomma, quella roba lì. Certo, la casa è quel che è» aggiunsero un po’ imbarazzati, «i campi li aveva già venduti e…». E il ricavato se l’erano già spartiti equamente. La cascina della malora, invece…
* * *
I campi di quella terra nera e avara su cui sua nonna Clelia si spaccava la schiena.
«Non è certo bella terra rossa come quella oltre il fiume. Là, guarda Pigi – gli spiegava la nonna Clelia tendendo il braccio -, là, se ci semini le pietre, la roba ti viene su senza neanche guardarla. Questa, invece, è terra che ti fa sputare sangue» diceva sfregandola dentro la mano callosa. «Ma io ormai la conosco bene, sono tanti anni che … da quando ho conosciuto il nonno Attilio…».
La nonna Clelia aveva amato il nonno Attilio e basta; e quando un tumore se l’era portato via, «un tumore grosso come la sua testa, piantato qui, proprio in mezzo al petto», la nonna aveva continuato da sola a fare andare la terra.
Pierluigi non vedeva l’ora che finisse la scuola per passare le vacanze dalla nonna Clelia.
«Pigi il campagnino» lo canzonavano i fratelli e i cugini, quando lo vedevano con quel taglio di capelli all’umberta e la sfumatura sul collo, pronto a partire.
Quando al mattino lui si svegliava, la nonna Clelia era già scesa dabbasso da ben più di un’ora, perché le mucche muggivano forte reclamando il primo pasto della giornata.
Pigi scendeva le scale, attraversava la cucina e spalancava la porta della stalla lasciandosi impregnare dall’odore di sterco, fieno e latte appena munto.
«Hai dormito bene, Pigi?».
«Sì, nonna».
«Hai fatto un bel sogno?».
«Che ero un principe e andavo a fare un giro in carrozza…».
«Ora ti porto io in carrozza, mio bel principino».
E, nonostante fosse magra come un giunco, lo spingeva con le braccia robuste fin sopra il carro su cui aveva steso un sacco di juta. Davanti al carro legava la mucca Mureta, poi la tirava adagio con la corda e si dirigeva verso il prato.
Pigi spalancava finalmente gli occhi incantato dal cielo che, in fondo, oltre i pioppi rimpiccioliti dalla lontananza, si colorava di rosa e di arancio e poi di giallo che andava a impastarsi di celeste.
L’umidità della notte persisteva nel primo mattino. Pigi si guardava gli avambracci puntinati a pelle d’oca e sentiva il sedere un po’ umido, che sobbalzava sul sacco di juta. L’atmosfera era piena di un odore aspro che pungeva nel naso. E, appena Pigi scendeva dal carro, staccava un filo d’erba e se lo infilava in bocca masticandolo.
«Nonna Clelia, mi fai il mucchio?».
La nonna afferrava la falce, tagliava il primo quadrato d’erba e la faceva su con il tridente e con il rastrello largo.
«Mi raccomando, non farti male».
Lui prendeva la rincorsa e si tuffava su quel mucchio infrangendolo, una, dieci, venti volte, fino a restare sfinito sull’erba bagnaticcia, che gli pizzicava il collo e le orecchie.
«Pigi» lo richiamava, cantilenando, ogni tanto la nonna Clelia, senza smettere di falciare e rastrellare. Un richiamo così, tanto per dire, senza sospendere il corso dei pensieri.
«Nonna, guarda ci sono le amarene!».
E si riempiva le tasche dei calzoncini.
«Nonna, le rane nel fosso!».
E le stava a guardare che sbucavano dall’erba e facevano salti lunghi tra i ranuncoli.
«Il nonno Attilio sì che era bravo a prendere le rane con la canna! Poi le metteva nella cappellina e me le portava a casa. Io preparavo di quei risotti che neanche il cuoco del re! Eh già, il nonno Attilio, lui sì che…». Tirava su col naso.
«Nonna, i papaveri!».
«Sì, sì, sono belli, ma ti macchiano le mani…e, poi, durano niente, non come le margherite che…». Pigi li raccoglieva e sui palmi delle mani gli restavano macchie bluastre e appiccicose.
«Nonna, i soffioni». Le si avvicinava di soppiatto e soffiava forte contro il suo viso facendo esplodere la palla lieve in tanti candidi pelucchi lanosi. Lei rideva forte. «Ah, se ti prendo…».
Poi tornavano verso casa, la Mureta davanti e, sul carro, una montagna alta di erba traballante.
«Adesso facciamo una bella colazione. Hai fame?».
Pigi sentiva la pancia che gorgogliava come un temporale lontano.
Il profumo del latte nel pentolino di alluminio si mescolava a quello del caffè lungo che sembrava quasi trasparente. Pigi prendeva dalla credenza due tazzoni e li posava sul tavolo, accanto alla ciotola dello zucchero e al piatto con la torta che profumava di scorza di limone.
«Sta’ attento a non bruciarti, eh!».
Lui incollava le labbra alla tazza fumante e non le staccava più fino a quando non restava neppure una goccia di caffelatte, e sopra la bocca gli rimanevano baffi umidi su cui lui passava la punta della lingua.
Intanto, la nonna metteva al fuoco una pignatta bassa e larga, e la cucina si riempiva del profumo di alloro e rosmarino, e gli occhi punzecchiavano quando affettava la cipolla. Su un’altra fiamma passava il pollo per eliminare i residui del piumaggio, provocando un leggero scricchiolio che a Pigi piaceva tanto quanto quell’odore di bruciaticcio.
«Sai che cosa preparo per pranzo? Il pollo alla cacciatora con la salsa di pomodoro».
Pigi, nonostante il gusto di latte ancora in bocca, già pregustava la pietanza.
La nonna chiudeva il tegame con il coperchio e abbassava la fiamma a un lumicino.
Uscivano e andavano nell’orto. A Pigi piacevano soprattutto i piselli. Una volta l’aveva combinata grossa. Si era infilato tra i filari e aveva svuotato tutti i baccelli facendo una scorpacciata di piselli dolci e teneri. Quando la nonna era andata a raccoglierli, che quella signora della città glieli pagava pure bene, aveva scoperto la marachella.
I pomodori, invece, erano buonissimi per merenda. Rossi, succosi, tagliati a metà con il sale sopra. E, poi, una manciata di ciliegie oppure di amarene cotte, asprigne, ma con il sughetto denso di zucchero e vino.
Di barbera la nonna se ne faceva arrivare qualche damigiana in autunno, da un parente della collina, che delle cantine sociali non si fidava per niente. Lo imbottigliava e lo sistemava nel sottoscala buio. Quando doveva andare a prendere una bottiglia, metteva mano alla vecchia lampada ad acetilene, così nel sottoscala si respirava un odore maschio di vino e di petrolio.
La giornata più emozionante era quella della trebbiatura, a fine giugno.
I ritmi della consuetudine saltavano. Pigi si svegliava quando sentiva il rumore della mietitrebbia nei campi di grano dietro la cascina. Scendeva e nel cortile c’era un viavai di donne e uomini. In un angolo all’ombra, sopra un tavolo coperto da tela cerata, erano disposte su un asse di legno le fette di salame, una ciotola di bagnèt verde con le acciughe, bottiglioni di vino scuro, pagnotte ancora tiepide. Niente caffelatte.
Nel pomeriggio, la trebbiatrice veniva sistemata nel cortile a ridosso del portico. Un grosso tubo collegato alla macchina saliva su su e si infilava in uno degli «occhi» del solaio nel sottotetto.
Intanto, in un’ampia bocca sul fianco della macchina le donne gettavano bracciate di spighe, la trebbiatrice ruminava forte, sbuffando polvere da tutte le parti, e da un lato uscivano le balle di paglia legate con filo di ferro, mentre nel tubo i chicchi finivano dritti dritti sul solaio.
Pigi era elettrizzato da quello spettacolo e dal gran fracasso provocato dalla macchina e dalle voci di uomini e donne che dovevano gridare forte per capirsi. Il profumo della paglia si mescolava con l’odore di sudore e l’alitare che sapeva di vino, di aglio, di acciughe.
Le galline si rifugiavano in un angolo del porticato, i cani e i gatti si intrufolavano tra i fiori del giardino e non sbucavano fuori fino a sera.
Nessun pisolino pomeridiano, anche se il sole picchiava sull’aia di cemento e l’umidità aleggiava distorcendo l’immagine dei campi e degli alberi.
«Pigi, tieni la cappellina in testa, mi raccomando, altrimenti ti prende un colpo di sole e ti esce il sangue dal naso!».
Non c’era tempo di fermarsi, bisognava assolutamente finire in fretta, perché, prima che calasse il buio, la nonna doveva ancora spazzare la stalla e dare il fieno alle mucche.
Con un tridente caricava lo sterco mescolato alla paglia imputridita sulla carretta e andava avanti e indietro a scaricare sul letamaio che, in cima, fumava un poco. Pigi si sedeva in un angolo della stalla, su una balla di paglia, e osservava le rondini che entravano e uscivano dalla finestra per andare ai nidi costruiti metodicamente sotto al soffitto. Poi rideva quando le mucche pisciavano forte o quando scuotevano le testone facendo tintinnare le catene.
Quel giorno, c’era stata la trebbiatura. Le solite urla, le facce rosse impolverate e sudate, i canti delle donne, le occhiate lunghe degli uomini quando le ragazze si abbassavano per bere l’acqua al pozzo. E il sole acceso nel cielo terso. Ma, a metà pomeriggio, nella distesa azzurra erano comparse le prime striature bianche, – «guarda, nonna Clelia, sembra la panna gonfia quando viene su il latte che bolle» – poi masse più grandi sporche di grigio.
«Bisogna fare in fretta, perché qui, prima di notte, il diavolo ci manda tuoni e fulmini!».
«Basta che il grano sia al riparo, Clelia, e poi non hai più niente da temere».
E, tuttavia, Pigi si era accorto della smorfia preoccupata di sua nonna.
Quando tutti se n’erano andati, avevano mangiato uova fritte nel burro e zucchini in carpione, facendo scarpetta fino a lasciare il piatto pulito pulito.
«Solo due dita di vino, Pigi, solo due dita, che se lo sapesse tua madre…».
Erano andati a dormire sprofondati nel materasso di piume del lettone, lasciando le persiane aperte per cercare di sentire il canto dei grilli.
«Niente stelle, stasera, nonna Clelia…».
«E neppure la luna, Pigi… mi sa che tra poco arriva un temporale… ma tu non avere paura, ci sono qua io…».
Non fu un tuono a svegliarlo, ma una litania stridula. «Maria Vergine, oh Maria Vergine!».
Pigi si sedette sul letto di scatto, gli occhi spalancati, il cuore in gola e vide nella penombra squassata dai lampi la figura chiara di sua nonna in camicia da notte.
«Vestiti, vestiti, oh Maria Vergine!».
Lui scivolò dal letto, infilò i sandali senza allacciarli e scese in fretta così com’era, in mutande.
La nonna Clelia, che lo precedeva ciabattando, sfilò la stanga di legno con cui serrava, ogni notte, la porta. Quando uscirono in cortile, le fiamme avevano già lambito la parte più esterna del porticato. La paglia crepitava, le galline, i cani, i gatti si incrociavano come impazziti sull’aia cercando un rifugio. Dalla stalla arrivavano i muggiti delle mucche e un tintinnare forte di catene. Le fiamme diventavano sempre più alte e il fumo nero si perdeva in alto nel buio.
La nonna pompava l’acqua del pozzo, «che notte grama, oh Maria Vergine, che notte grama!», riempiva il secchio e si precipitava contro le fiamme.
Pigi era spaventato dal muggito sempre più forte e più tragico delle mucche e da quel rumore ferroso di catene e, tuttavia, era ammaliato dalla luminosità delle fiamme e dallo scricchiolio della paglia infuocata.
Un fulmine accese il cielo e il tuono scosse Pigi che afferrò la bicicletta e si diresse verso la bottega dove c’era l’unico telefono del paese. Picchiò alla porta con i pugni. «Aiuto, aiuto, il fuoco!». Avrebbe voluto avere la voce grossa come quella dell’orco o del lupo cattivo.
La bottegaia, finalmente, spinse fuori dall’uscio la testa spettinata e, appena visto il cielo arrossato, si precipitò al telefono nero appeso al muro gridando nella cornetta: «Al fuoco, al fuoco!».
Pigi tornò alla cascina e lasciò cadere la bicicletta sul ciglio del fosso. Vedeva spuntare sagome scure dal buio, tutte munite di secchi, ma solo quando si avvicinavano alle fiamme riusciva a distinguere gli uomini dalle donne.
«E’ una malora» borbottava la nonna Clelia senza mai smettere di pompare dal pozzo. E tutti riempivano i secchi e lanciavano l’acqua contro le fiamme. Solo ogni tanto Pigi sentiva qualche goccia pesante che gli colpiva la testa.
«Cristo, è un temporale asciutto questo. Basta un fulmine che…». Lanciavano freneticamente l’acqua contro le fiamme e giù un bestemmione dietro l’altro.
I muggiti si erano quietati, forse qualcuno, mettendosi delle coperte bagnate in testa, era riuscito a portar fuori le mucche dalla stalla. Pigi non le vedeva; che le avessero legate agli alberi più lontani?
Poi, i fari del camion dei pompieri illuminarono la sagoma bianca della nonna Clelia, il suo viso rosso, gli occhi sbarrati in quella notte grama.
* * *
Seduto sulla pietra del pozzo, incantato dai ruderi di un tempo andato che l’aveva fatto sentire felice e amato, fu distratto da nuovi squilli attutiti e lontani del cellulare abbandonato sul sedile. Alzò le spalle e lasciò che il suono esaurisse la sua insistenza.
Strappò un papavero da terra e sorrise guardandosi le macchie bluastre sui palmi delle mani. Si alzò, e cominciò a pompare adagio, poi con maggior vigore finché dal becco di ottone del pozzo iniziò a sgorgare un filo d’acqua. Si sfilò le scarpe e prese a camminare scalzo sull’aia di cemento polverosa e calda. Tra non molto, di sicuro, le amarene sarebbero state mature, buone da cogliere e da cuocere nella bagna rossa e densa di vino e zucchero.
….davvero coinvolgente in una riscoperta quasi archeologica di ricordi e sensazioni….Gia
Non stupisce più la tua facilità di scrittura scorrevole e comprensiva . Grazie Silvana per i tuoi racconti. Scusa per ieri la mia non presenza a Pobietto te l’avevo preannunciata . Grazie buona giornata e settimana . A presto
Queste perle di narrativa proposte poi di lunedì , di lunedì di un autunno un po’ strano , a cui ormai siamo abituati ( quasi) mi riempiono di gioia . Sarò in attesa di qualche altra tua preziosa paginetta . Grazie Silvana !!!!!
Emozionante e intensa lettura che risveglia tanti ricordi di chi ha avuto ancora la fortuna di vivere da piccina queste esperienze e queste sensazioni. Per me sono state nella cosiddetta “bassa” veronese. Ancora oggi posso risentire gli odori di quelle giornate, di quella casa, di quella nebbia ‘speciale’ che rendeva tutto più magico e più bello. Grazie Silvana
Grazie Silvana per questo bellissimo racconto, mi ha fatto ritornare bambina, quando anch’io trascorrevo le vacanze estive dai miei nonni: Pidrin (Pietro)eVica (Lodovica). Quanti bei ricordi. Oggi i nostri nipoti non hanno la fortuna e la gioia di vivere quei sani e bei momenti di allegria. Ricordi che ognuno di noi porta sempre nel cuore e a me personalmente,quando ho un po’ le “paturnie” come dico io, i pensieri di quei giorni, mi ricaricano e mi passa tutto. Alla prossima.
Ciao, ho terminato ora di leggere il tuo racconto. Come sempre è magnifico e mi riporta indietro nel tempo, alla mia infanzia e adolescenza nell’ astigiano, a Calliano. Stessi colori, stessi profumi e sapori. Quanta nostalgia durante la lettura! Quante fatiche! Ma anche quanta bellezza! Sei straordinaria Silvana! Chi ha vissuto quegli anni in campagna non può che percepirne i brividi e nello stesso tempo il calore. Grazie di ❤️
Vengo dalla campagna e questo racconto mi ha riportato in dietro nel tempo, subito dopo la guerra. Tutto mi è familiare. Grazie di averlo scritto.
Gentile Silvana leggendo il tuo racconto mi sono ritrovata pienamente nella mia infanzia e mi sono commossa.
Ti ringrazio infinitamente e attendo con gioia e curiosità il tuo prossimo racconto.
Carissimi saluti.
Cara Silvana non posso che ripetermi; un’altra storia fresca e genuina scritta in modo fantastico. Alla prossima.
P.S. è stato interessante visitare la Giangia di Pobietto, un bel pomeriggio. A presto.
Come tutti gli altri, anche questo racconto mi ha coinvolta. Non ho vissuto l’esperienza del ragazzo di città ma ho ricordato i miei nonni di Vignale che faticavano nella vigna. Mi piaceva andare nell’orto a osservare le verdure che nonna coltivava con perizia e che mi dava da portare a casa come pure gli agnolotti che faceva per le feste importanti. Avevano un profumo! Erano bei tempi che ricordo con tanto piacere