“E’ vero, credetemi è accaduto…” cantava Domenico Modugno. Ora, credete anche a me: quel che vi narro, nella storia di oggi, è accaduto. Se non è andata proprio così, ci va vicino. E, poiché, comunque, «na storia béla fa piasì cüntela», io la racconto. Nel diffuso frastuono rabbioso e ostile, abbiamo un gran bisogno di storie che non fanno arrabbiare, che contengono un senso di giustizia e lasciano aperta la fessura della speranza. Tra cronaca e romanzo, hanno un posto ideale le «StOriE CoSì», racconti verosimili con i connotati della verità autentica e possibile. Buona lettura e appuntamento a lunedì prossimo con un’altra «béla storia». Ciau!
La faccenda è che puoi sapere in largo anticipo se è maschio o femmina, così che il corredino lo fai del colore giusto; puoi misurare quanto il feto è lungo e quanto pesa; osservarlo sul monitor mentre fa le capriole o gioca con il cordone ombelicale, così da stabilire se sarà estroverso o introverso, volitivo o timido. Lo chiami già per nome. Ma il massimo della soddisfazione, dopo aver incrociato le date e i dati, consultato le tabelle e gli algoritmi, è quando, finalmente, fai un bel cerchio rosso col pennarello sul calendario.
Nascerà quel giorno lì.
Però…
Però, basta un singhiozzo o uno sternuto della creatura e la matematica diventa un’opinione, con buona pace di Archimede, i calcoli saltano e le previsioni impazziscono.
Pioveva da giorni, come spesso d’autunno, quando il cielo è un materasso di nuvole che camminano di qua e di là grigie, goffe, inquiete. Forse, a pensarci bene, pioveva un po’ di più rispetto ad altri autunni… D’altronde, è cambiato il clima, sono mutate le stagioni, prima un caldo eccezionale, poi precipitazioni epocali. Tutto sempre più straordinario, superlativo, fuori misura. Chissà fino a dove andrà a spingersi l’iperbole del linguaggio: super, maxi, extra…
Marta, ubbidiente alle raccomandazioni, se ne stava sul divano, ascoltando Mozart.
«La musica incrementa i processi cognitivi e creativi dell’emisfero destro» aveva spiegato a Leo. «E aiuta a rafforzare il legame tra la mamma e il bambino quando ancora è nella pancia». Il marito l’assecondava con Mozart, e pure con le voglie di mele cotogne, cetriolo africano, banana blu. Sia mai che la creatura nasca con qualche chiazza rossa sulla pelle tenera…
Neppure Leo, quel giorno di allerta arancione virato al rosso, aveva messo il naso fuori.
“La casa è solida”, ripeteva a sé stesso, “costruita quando si scavavano fondamenta profonde e non si faceva economia con i materiali. Destinata a durare per sempre: questa era la filosofia. Mica l’usa-e-getta, il mordi-e-fuggi…”.
«Stiamocene qui al riparo», disse ad alta voce porgendo una tazza di tisana alla malva, «anche perché non è ancora ora». Mancavano, infatti, quindici giorni, anzi, sedici, per la precisione. Il calcolo era stato ricavato da un algoritmo avanzatissimo, fonte di scienza esatta.
Non come il vecchio pendolino cialtrone che veniva fatto oscillare sulla pancia della futura mamma e, se dondolava avanti e indietro, sarebbe nato un maschio, se faceva movimenti circolari sarebbe stata femmina.
«Maria nascerà al tempo debito» sentenziò Marta deglutendo la bevanda.
«Luisa rispetterà la scadenza esatta» incalzò Leo.
Nella villetta a due piani dipinta di verde chiaro, la rimessa su un lato, il giardino intorno, le rose e la magnolia sul davanti, l’albicocco e la pergola dei kiwi sul retro, Marta e Leo dovevano solo stare calmi e aspettare che spiovesse. Magari, per rompere la sensazione pungente di umidità, avrebbero messo due ciocchi nel camino, che fa pure atmosfera.
Il parto è un evento normale, andavano ripetendosi a vicenda. Stiamo tranquilli, la situazione è sotto controllo. Siamo otto miliardi di individui sulla Terra, i bambini nascono da sempre, trentatré bambini al minuto nel mondo, uno più uno meno…
E altrettanto normale è la pioggia d’autunno. “Vorrei, pioggia d’autunno, essere foglia/ che s’imbeve di te sin nelle fibre/ che l’uniscono al ramo,/ e il ramo al tronco”. Versi di Ada Negri.
Tutto regolare.
Nor-ma-le.
Più-o-meno.
Le ondate di acqua pastosa e opaca, una volta sbriciolati gli argini, avanzarono inesorabili ed energiche come la cavalcata delle Valchirie. Non si accontentarono di invadere la campagna, le strade, le piazze e i cortili; scivolarono nelle cantine e penetrarono nelle case senza chiedere permesso. Moleste e maldestre si insinuarono tra tavoli e sedie, sgusciarono dentro scaffali e cassetti, imputridendo irrimediabilmente libri, fotografie, documenti, e pure il servizio bello di porcellana e i bicchieri di cristallo di Boemia, infradiciarono medicinali e scarpe e pantofole, abiti lenzuola e coperte. Annientarono per sempre ricordi preziosi e beni irriproducibili.
Impreparati e sgomenti, Marta e Leo si rifugiarono al piano di sopra, con una scorta alla rinfusa di biscotti, muesli, barrette energetiche e bottiglie d’acqua per affrontare la sopravvivenza.
Di colpo Mozart interruppe la «Piccola serenata notturna».
«La luce è saltata» imprecò Leo, dopo aver azionato nervosamente un paio di interruttori.
Marta ebbe un brivido, si distese sul letto e tirò su un plaid coprendosi la pancia voluminosa. Ci posò sopra le mani, per tranquillizzare la creatura inquieta.
Si assicurarono di avere i telefoni cellulari a portata di mano; per fortuna erano carichi, ne avrebbero centellinato l’uso.
Dalla finestra filtrava una luce sbiadita e lattiginosa. Leo si affacciò e si irrigidì: la casa di fronte ondeggiava come una bandiera. In basso, sull’asfalto ormai invisibile, l’acqua rabbiosa galoppava come una mandria di bestiame infuriato.
Si allontanò di un passo senza dire nulla, per non turbare Marta. Che, con un filo di voce, mormorò: «Dobbiamo chiedere aiuto».
«A chi?» domandò Leo che non riusciva a scollarsi d’addosso il filmato reale della casa ondeggiante. Gli pareva addirittura di sentirla mugghiare.
«Mah, non lo so» replicò Marta spaventata e irritata, «al dottore, all’ospedale, al padreterno!».
Leo annuì e, come un automa, digitò a scatti un numero sullo smartphone.
Dopo otto squilli, una voce rispose «pronto».
«Abbiamo bisogno qualcuno con urgenza, mia moglie…».
«Pronto, ripeta per favore, la linea va e viene».
«Abbiamo bisogno… mia moglie è incinta e …».
«Di che cosa avete bisogno?» insistette la voce.
«Di che cosa… bisogno… mah, non so… Sì,» farfugliò confuso, «del padreterno, ecco!».
«Senta, sbruffone» replicò secca la voce, salendo di tono, «questo è il servizio di emergenza, c’è un’alluvione in atto, gente in pericolo… E’ da criminali scherzare in questa situazione».
«Marta sta per partorire, e Luisa non può nascere qui, in mezzo all’acqua, con la casa che ondeggia, e la mandria di bisonti lì sotto…» proruppe Leo fuori di sé.
«Stia calmo, stia calmo».
«Calmo un c… Serve un miracolo altrimenti…».
«Stia calmo, ho detto» lo interruppe bruscamente la voce. «Mi dica nome, cognome, indirizzo».
«L’indirizzo?» mormorò Leo disorientato, «c’è acqua ovunque».
La linea telefonica cadde.
Mosse qualche passo e si sedette sul letto accanto a Marta. Nel residuo barlume di chiaro che ancora filtrava prima di essere inghiottito dalle tenebre, notò le lacrime che luccicavano sulle guance di sua moglie. Leo le tamponò delicatamente con un lembo del lenzuolo.
«Ho paura che Maria stia per nascere. Adesso» singhiozzò lei.
«Mancano sedici giorni. L’algoritmo…» cercò di rincuorarla Leo, sforzandosi di scacciare una fastidiosa inquietudine. «Luisa nascerà come previsto, vedrai», ma non era più così tanto sicuro.
Marta sternutì e Maria ovvero Luisa, dentro la pancia, imitò la madre.
Dopo una notte smisurata, piena di silenzio cupo inciso di stridii sinistri, di angoscia e rassegnazione, un chiarore stinto e tuttavia confortante si riaffacciò alla finestra.
«Ha smesso di piovere» informò Leo.
«Non arriva nessuno?» domandò debolmente Marta, stringendo le mani sul ventre.
«Non ancora» rispose Leo, cercando di non far trapelare lo sconforto. I cavalloni si erano quietati, ma l’acqua si era distesa ovunque come una sbobba uniforme e grigiastra. L’odore pungente e aspro trasudava dai muri, penetrava dagli infissi. Sotto si sentiva lo squittio dei topi.
“Siamo intrappolati” riassunse tra sé sospirando.
Gli smartphone funzionavano ancora. Avevano avvertito i famigliari e amici stretti, pregandoli di non chiamare per non consumare il residuo di carica. Leo mandò qualche whatsapp per informare che la situazione era immutata.
Intrappolati. Nel ventunesimo secolo, con un solo drone si riesce a massacrare decine, centinaia di persone, ma non si è in grado di salvarne due. Anzi, quasi tre.
L’ingegner Leonardo Panero cominciò a dubitare della scienza o, meglio, della capacità umana di applicare con senno le raggiunte conquiste scientifiche. “Arriviamo a scoprire che c’è l’acqua su Marte e, nel frattempo, anneghiamo sulla Terra!” mugugnò afflitto. “Vuoi vedere che ha ragione zia Rosina che…”. Ma per la carità, zia Rosina, con il suo pendolino cialtrone, e i mazzi di carte, e le bucce di mela, e i fondi del caffè… Pussa via!
Cercò un appiglio razionale. «Marta, mangia almeno un biscotto, o un quadretto di cioccolato».
Lei scosse il capo, «il cioccolato potrebbe far male a Maria…».
«Ma no, un quadratino solo non può nuocere a Luisa».
Le voci li scossero a metà mattinata.
Leo spalancò la finestra, si era rimesso a piovere.
Là sotto, dalla pachidermica massa putrida punteggiata di gocce larghe e metodiche, affiorava lento e inesorabile un caterpillar giallo e, subito dietro, un gommone dei vigili del fuoco.
Con movimenti acrobatici, Marta fu sollevata oltre la finestra, depositata prima nella benna dell’escavatore, poi fatta scendere fino a pelo d’acqua e trasferita sul gommone.
Subito dopo, Leo ripetè gli stessi volteggi con relativa agilità. Le ore passate in palestra non erano state inutili.
Nel bel mezzo della traversata imbottigliata in un silenzio surreale, Marta gemette e si piegò in avanti.
«Temo che Maria voglia nascere».
«Adesso?» esclamò Leo. «No, no, no, Luisa non può nascere adesso, bisogna arrivare in ospedale».
Uno dei vigili del fuoco sollecitò via radio: «Serve con urgenza un’ambulanza, noi cerchiamo di raggiungere…».
Risposta: «Ambulanza impossibile. Per precauzione, è stato chiuso il ponte sul fiume».
Il capo-squadra: «Abbiamo una donna gravida a bordo».
«Ha le doglie?».
«Ancora no, ma in queste condizioni non escludo…» urlò il pompiere esasperato.
«Ok, ok, capito. Potremmo mandare l’elicottero, ma dove…»
«C’è un piccolo spiazzo davanti allo stabilimento…, lì si può atterrare» insistette il capo-squadra. “O, almeno, provarci” sperò. Aveva salvato persone nel fuoco e nell’acqua, sul cornicione di un palazzo di dieci piani e sull’orlo di un viadotto, in un pozzo alla soglia dell’inferno e su un isolotto flagellato dall’alta marea, ma non aveva mai assistito a un parto. Anche quando era toccato a sua moglie, in entrambe le occasioni lui era in servizio e, quando era smontato dal turno, era già diventato padre.
Il rendez vous avvenne davanti al cancello della fabbrica vuota, su uno slargo grande come l’aia di una cascina che, a schiena d’asino, affiorava miracolosamente dalla massa d’acqua.
Marta fu caricata sull’elicottero del 118 e sistemata sulla barella; con una smorfia di sorriso stropicciato, salutò Leo che, a malincuore, proseguì a bordo del gommone con i pompieri, per raggiungere un attracco imprecisato alla terra ferma.
La libellula gialla si levò in volo. Leo la guardò allontanarsi e una goggiolona di pioggia gli centrò l’occhio destro. Lo strofinò con un singhiozzo e imprecò.
Un vigile del fuoco gli appoggiò una mano sulle spalle. «E’ il primo?» domandò premuroso.
«La prima» precisò Leo.
«Io ne ho tre: un maschio e due gemelle. Andrà tutto bene, stai tranquillo». Nelle condizioni più disperate, il cameratismo del «tu» è confortante.
* * *
«Sono la dottoressa Enrica Brioschi» esordì la donna che non indossava un camice, ma la divisa di color rosso-arancione: pantaloni e casacca, aperta su una maglietta nera. Urlava per sovrastare il rumore.
Estese brevemente la presentazione: «L’infermiera Francesca Chiambretti», anche lei con indumenti analoghi. E mentre armeggiava con lo stetoscopio, il medico completò con un cenno del capo: «Di là in cabina, il pilota e il copilota. Giorgio e Giuseppe».
«E’ in buone mani» sussurrò gentile l’infermiera appoggiandole una mano sul ventre.
Marta annuì e chiuse gli occhi un attimo.
Un attimo, non essendo una misura matematica del tempo, ma una definizione indicativa di brevità, è soggettivo e non cronometrabile. L’attimo di Marta durò quattro-cinque secondi, forse. Poi sgranò gli occhi e cacciò un urlo che esplose come una fucilata. Lei stessa se ne sorprese e, per qualche istante, provò la sensazione di trovarsi sospesa in una dimensione irreale. “Non è che ho un’allucinazione?”.
No.
«Ci siamo» mormorò Enrica incrociando gli occhi di Francesca.
Nella cabina di pilotaggio la tensione era altissima per le pessime condizioni atmosferiche. L’elicottero sobbalzava, sferzato dalla pioggia e ostaggio di correnti d’aria.
Il rumore era assordante, la dottoressa e l’infermiera, quando i cenni muti non erano sufficienti a spiegarsi, erano costrette a gridare. E, non di meno, urlava Marta, per il dolore, per la paura e per il frastuono. E, in più, urlava di rabbia: contro il destino avverso che-deve-proprio-capitare-a-me-,merda; e contro la casa in campagna che è bella&tranquilla&suggestiva-evviva la natura, neh, ma se ti capita qualcosa sei fuori dal mondo; e contro la fede cieca negli algoritmi; e contro tutti gli altri cribbio che non le venivano in mente; e, tutto ciò premesso, “mettiti il cuore in pace, Leo, che Maria o Luisa che sia, se sopravviveremo al diluvio universale, resterà figlia unica; e non ficcarti in testa di avere il figlio maschio. Questa è la prima e ultima. Stop, passo&chiudo”.
«Marta, si sforzi di respirare in modo corretto» suggeriva il medico.
“Al corso ho imparato a respirare in modo corretto, ma ero distesa su un lettino, non sulle ali di un’aquila” avrebbe voluto ribattere, ma tacque, con i denti inchiodati. Contrazione, respiro. Contrazione, respiro. Contrazione imprecazione respiro. Contrazione imprecazione, respiro parolaccia. Come si fa a sperare in un mondo di pace se, già da neonato, vieni al mondo sballottato da una samba di invettive e maledizioni?
Il viaggio fu più lungo di ogni previsione.
Il parto fu più veloce di ogni ipotesi.
La conseguenza di quel combinato disposto fu che dall’elicottero, su cui erano saliti in cinque, scesero in sei.
* * *
«C’è un problema»: l’infermiera Chiambretti si precipitò incontro alla dottoressa Brioschi per preavvertirla: «Ci sono i giornalisti… per il parto in volo, ieri…»
«Uhm» borbottò il medico, sospirando rassegnata.
«Hanno convocato una conferenza stampa, dovremmo andare là».
Ci andarono, risposero con scienza e coscienza a tutte le domande: le più ovvie, le più sensate e le più cretine. Meno una: «Dov’è nata la bambina?».
“Sono scemi?” si interrogò stranita la dottoressa Brioschi. E rispose laconicamente: «In cielo».
«Sì, lo sappiamo, ma sul territorio di quale Comune terrestre si trovava quel pezzo di cielo quando è uscito il primo vagito?».
La dottoressa, l’infermiera, il pilota e il copilota, tutti allineati al lungo tavolo, si sporsero istintivamente in avanti per consultarsi con lo sguardo. Ognuno sperava che a rispondere fosse l’altro o l’altra.
«Eravamo in volo, le condizioni atmosferiche erano molto critiche, sono iniziate le doglie, il velivolo sobbalzava, eravamo avvolti dalle nuvole, la priorità era…».
«Conoscere con esattezza il Comune in cui una persona nasce è una priorità» sentenziò uno dei giornalisti, «è uno degli elementi che ne contraddistinguono l’identità».
I quattro intervistati, colti alla sprovvista, strinsero impercettibilmente le spalle e fecero scena muta.
«E a che ora e minuto esatti è nata?» incalzò un’altra giornalista.
Di nuovo, dottoressa infermiera pilota e copilota si sporsero in avanti, ma gli sguardi, meno clementi di prima, si scambiavano lampi di accuse reciproche: “Toccava a te saperlo, non è certo a me che…”.
Per superare l’impasse, risposero all’unisono: «L’ora… be’, saranno state… intorno alle 13».
«Intorno?» replicò indignato il coro dei mass media.
«Perché» si intrufolò curiosa la responsabile delle pubbliche relazioni dell’ospedale che vedeva naufragare l’esito esultante della conferenza stampa, «perché è così importante conoscere il momento esatto della nascita?».
Si alzò la decana dei giornalisti; sventolando un taccuino, spiegò con eloquenza: «Perché, cari signori, dall’ora della nascita dipende in che posizione si colloca il tema astrale nelle case astrologiche».
Ah be’, allora…
Dottoressa, infermiera, pilota, copilota e capoufficio stampa annuirono sotto il peso di una colpa da espiare.
«E quindi?» incalzò timidamente il team sotto accusa.
«E quindi l’ora è fondamentale per stabilire che influenza avrà sull’amore, sul lavoro, sulla salute».
«Urca» scappò di bocca alla dottoressa Brioschi.
«E il minuto?» azzardò titubante il primario della Ginecologia che, il giorno prima, aveva preso in carico la puerpera all’arrivo in ospedale.
«Il minuto, e non la semplice ipotesi di un minuto, professore, non un aggiustamento forzato alla… diremo così… va-là-che-vai-bene…, ma proprio quel minuto spaccato» riprese la giornalista esperta, «serve a determinare l’ascendente che condiziona il carattere, il temperamento, la personalità di Maria… anzi di Luisa… Ah, già, ecco: come si chiama la bambina?».
Ahiiia! Chi lo sa?
«C’è un problema» ammise la responsabile delle pubbliche relazioni.
«Un altro problema?» borbottò Brioschi all’orecchio di Chiambretti, che annuì impercettibilmente con lo sguardo contrito, per scusarsi di non aver fatto in tempo a metterla al corrente.
La portavoce dell’azienda ospedaliera, cercando accuratamente le parole adatte, spiegò con pazienza: «A quanto ci consta, la madre chiama la neonata Maria, che era il nome della nonna cui era molto affezionata; il padre invece chiama la bambina Luisa, che era il nome di una zia cui è sempre stato molto legato e che perciò…».
«Ma la bambina è una sola» interruppe piccata la dottoressa Brioschi, battendo un palmo sul tavolo, come a dire “io c’ero e lo so con certezza”.
Una mazzata di silenzio si abbattè nella stanza. Chi guardava il cielo plumbeo oltre i vetri schizzati di gocce, chi fissava una crepa ondulata che feriva il soffitto, chi puntava ostinatamente lo sguardo sulle punte delle scarpe o degli stivali infangati.
Quindi: Maria o Luisa?
«Marilù» proruppe la dottoressa Brioschi, scattando in piedi. «Sì, Marilù». La fissarono come fosse l’oracolo. «Significa “principessa coraggiosa”».
Tutti annotarono rapidamente sui taccuini. Poi si alzarono scomposti, per correre a dare il primo lancio.
I giornali titolarono: «Coraggiosa principessa nata in volo».
Sul fiocco rosa, appeso nel reparto di Maternità, fu ricamata in fretta a punto croce la scritta «E’ nata la principessa Marilù».
Orbene, Marilù è un nome composto che, secondo l’etimologia che studia la storia delle parole risalendo all’origine e analizza l’evoluzione fonetica, morfologica, semantica… Sì, vabbé, sogni d’oro, piccolina!
Grazie Silvana per il tuo racconto estivo ma che ben descrive i drammatici momenti dell alluvione che tu hai vissuto e raccontato in prima persona aiutando il nostro territorio… Buona giornata! Massimo – Comitato Alluvionati del Casalese – C. AL. CA.
Bel racconto. Hai spaziato arricchendolo come sai fare tu.e sempre un piacere leggerti.
Come sempre bel racconto . Complimenti anche se i ricordi se pur passati rimangono . Grazie. Alla prossima . Paolo
Il ritmo della descrizione quasi trascina ił lettore all’interno di questa situazione di doppia emergenza coinvolgendolo intensamente.
Continua a raccontare e cosi ci aiuti a imparare qualcosa anche a noi. Bravissima!!!
È talmente bella, oltre che veritiera, la storia che hai raccontato che la drammaticità del momento appare sfumata, ora. Ma quanta paura, dolore, rabbia in quei giorni. E quanta gratitudine per tutti i soccorritori!
Bellissimo anche questo racconto. Ricordo molto bene l’alluvione del 2000 a Casale, i miei suoceri abitavano a Oltreponte, in piena zona alluvionata. A peggiorare la situazione, le gravi condizioni di mio suocere paralizzato da alcuni anni a causa di una emorragia celebrale. Ma grazie alla solidarietà della comunità casalese, delle istituzioni e del volontariato di Protezione Civile, sono riuscita a risolvere la situazione del trasporto e della sistemazione a casa mia.