In una torrida notte di mezza estate, quando non si riesce a dormire, si possono fare curiosi incontri… Questa, lo confesso, non è una storia vera, è inventata di sana pianta (l’ho scritta nell’insopportabile caldissima settimana di Ferragosto), ma è molto verosimile. E, poiché, comunque, «na storia béla fa piasì cüntela», io la racconto. Nel diffuso frastuono rabbioso e ostile, abbiamo un gran bisogno di storie che non fanno arrabbiare, che contengono un senso di giustizia e lasciano aperta la fessura della speranza. Tra cronaca e romanzo, hanno un posto ideale le «StOriE CoSì», racconti verosimili con i connotati della verità autentica e possibile. Buona lettura e appuntamento a lunedì prossimo con un’altra «béla storia». Ciau!
Mezzanotte e un minuto. Scalcio via il lenzuolo fino a che rotola sul pavimento.
Mezzanotte e cinque minuti. Ventilatore a massima velocità: da modalità «mormorio del ruscello» a potenza «scroscio torrenziale».
Mezzanotte e un quarto. Zanzara che ronza, zanzara stro…
Una, dopo la mezzanotte. Federa umida, pensieri torvi (spero che non li intuisca la Madonnina fosforescente, lì sul comodino. Già, ma lei non suda, beata Vergine!).
Una e mezza. Alla centocinquantesima pecora, il gregge è finito, restano il cane e il pastore che, all’alpeggio oltre i mille metri, dormono al fresco e stanno benone, loro!
Due, dopo la mezzanotte. Alla centocinquantesima stella, l’universo a portata di vista è esaurito. Bisogna passare ad altri mondi.
Due e mezza. Ho ripassato tutte le tabelline: di seguito, incrociate, saltando. Promossa in matematica. Ma sudata, sfinita, in affanno. E sveglia.
Due e tre quarti. Adesso, basta!
Tre, dopo la mezzanotte. Maglietta, bermude, marsupio con dentro cellulare sai-mai-che, documenti se ti capita la sfiga, 5 euro giusto per non uscire senza niente.
Tre e mezza. La strada è deserta. La luce gialla dei lampioni è tremolante soltanto per gli scrittori e i poeti, questa qui, in questa torrida notte di mezza estate, è immota, anche lei tramortita dalla canicola.
L’asfalto è una pompa di calore; le mani, le braccia e le gambe si muovono scomposte nella invisibile massa tiepida e umida per stare a galla nella speranza di non annegare.
Un’auto taglia la strada a tutta velocità. «Ma dove corri, cretino, che ti stampi contro ‘sta muraglia di calore e ci lasci le penne?».
Da distante, arriva il rumore di un camion della spazzatura; il lampeggiante schizza schegge di luce gialla sui muri delle case, ogni tanto stridono i sensori di prossimità.
Una ragazza, con i gomiti appoggiati a un davanzale, ha gli occhi lucidi. Neppure lei riesce a dormire, ma forse non è per il caldo, chissà.
Un uomo insegue una lattina vuota, le tira un calcio e quella rotola con un suono metallico fino a schiantarsi contro un pigliotto. Lui, invece, cerca un’altra lattina da calciare perché non sa dove andare.
Ma da qualche parte si deve pure andare! O forse no, si gira a vuoto, col fiato corto, gli occhi semichiusi tra le palpebre collose.
Serve una preghiera, quale che sia, per ammansire la mandria di pensieri cupi che si nutre dell’afa densa e appiccicosa. E attenersi a un saggio, rigoroso proposito prima di smarrire l’ultimo barlume di lucidità: «Non prendere nessuna decisione importante in piena estate. Giurin giuretto: mai!». Procedere, navigando a vista, fino a condizioni meteo più umane.
La luna osserva dall’alto. Stanotte è una mezza luna, di un giallino discreto, tagliata come una fetta d’anguria. Ma lei, appollaiata lassù, non suda? Forse tutte quelle stelle tremolanti, che non sono cadute per San Lorenzo, le fanno aria con dei ventagli di polvere d’oro? «Stardust», «Polvere di stelle», il motivo della celebre canzone si fa strada nella testa, accompagnata da una chitarra hawaiana…
La fontana è spenta, senz’acqua. Risparmio idrico, giusto, ne abbiamo sprecata troppa nei secoli dei secoli e, purtroppo, se ne spreca ancora.
I grilli, infrattati nelle sagome scure delle fronde immobili, friniscono: sono i maschi che cercano di attirare l’attenzione delle femmine. Ammesso che quelle abbiano la forza di rispondere ai corteggiamenti.
Il ritmo ripetitivo del cri-cri evoca vecchi tormentoni estivi dei jukebox.
«Un’estate la mare-e-e, voglia di sognare-e-e-…». Sì, ma per sognare bisogna dormire!
«Con le pinne, fucile ed occhiali… sulla sabbia bruciata dal sol…». Da rimanere stecchiti.
«L’estate sta finendo…», ecco forse ci siamo.
«Odio l’estate…»: centrato!
Le finestre delle case sono sequenze di buchi neri, dietro cui si indovinano sospiri, sbuffi, imprecazioni, sciacquoni come diversivi.
Ma là in fondo, nella casa bassa all’incrocio tra due vie mute, spiccano quattro finestroni illuminati.
Più che la luce, è il profumo a guidare il tragitto, come le briciole di Pollicino, come la musica del Pifferaio magico. Un piede segue l’altro e, di colpo, si fa più agile e lesto e ansioso.
Dietro la rete della zanzariera, c’è un uomo bianco: calzoni bianchi, zoccoli bianchi, canottiera bianca, grembiule bianco, pure il volto e le braccia sono imbiancate.
Credevo che il pane, oramai, lo facessero le macchine, nei laboratori industriali, confezionato in forme precise tutte uguali, messe in freezer per cuocerle, poi, nei supermercati, muniti di grandi forni. “Pane sempre fresco” scrivono a caratteri cubitali sui cartelli. Praticamente, a tutte le ore.
Invece, Ercole impasta con le mani imbiancate, e forma, e inforna, solo di notte.
Da quanto tempo?
«Eh, da sessant’anni, ero un bacaiòt, un ragazzino, quando ho cominciato questa vita, con mio padre».
Tutte le notti?
«Meno i festivi, ma le notti che li precedono si lavora di più per il pane doppio, qualche volta addirittura triplo».
A che ora cominci?
«A mezzanotte. Cenerentola perde la scarpetta e io, invece, infilo ‘sti ciabot, ehehe, il mondo all’incontrario».
Cioè lavori di notte e dormi di giorno?
«Già, sto in questo laboratorio da quando il campanile disperde nelle tenebre i 24 rintocchi fino alle 8 del mattino. Poi, arrivano gli altri a darmi il cambio, per fare le consegne a domicilio e per la vendita al banco. Io mi attardo un po’: mi siedo a quel tavolino lì, davanti alla finestra, faccio colazione e, poi, vado a dormire. E, fino al pomeriggio, sicuro sicuro che non ci sono più per nessuno. Nes-su-no, capito?».
A una parete, in un angolo, è appoggiata una seggiola. «Siediti, se non hai paura di impolverarti… Cara mia, quando esci di qui, ti prendono per un fantasma!».
La bocca del forno buffa aria calda, ma è, come dire?, buona, profumata, genuina.
Però, magari, un ventilatore: ci hai mai pensato, Ercole?
«Eh già, brava, e poi la farina dove vado ad acchiapparla? Le pale del ventilatore la fanno volare via, e quella, leggera com’è, scappa da tutte le parti! Passerei l’intera notte a rincorrerla invece di fare il pane. Bell’affare che farei».
Questo caldo non ti dà fastidio?
«Ti ci abitui, come a tutte le cose. Meno che alle umiliazioni, alle bugie e alla prepotenza, a quelle no, non ti ci abitui. Anzi, non ti ci devi proprio abituare. Mai».
Io non mi abituo neppure alla calura impestata di queste notti di mezza estate.
Quello che c’è qui, invece, non è afa; è tepore gradevole.
Però, la solitudine, tutte le notti, tutte queste ore… Non hai un televisore? O una radio?
«Una volta, sì, quando ero più giovane, la radio mi faceva compagnia. La tenevo bassa, per non disturbare. Non hai idea di quanto la notte amplifichi i suoni; e la gente, tutta l’altra gente… normale, dorme, ha bisogno di silenzio. Così, tenevo il volume basso e ascoltavo la musica, le parole».
E poi?
«E poi è capitato che, di colpo, la radio si è inceppata, si sono bloccati gli ingranaggi. Neanche la tecnologia è eterna; come le mie mani, un giorno si incepperanno pure loro. Comunque, di punto in bianco, toc: ha smesso di funzionare. “Compratene un’altra” mi ha detto mia moglie, “altrimenti ti senti solo”. Invece, non mi sono sentito solo».
E adesso chi ti fa compagnia?
«I pensieri. Hai presente quegli imbonitori che, un tempo, alle fiere e ai mercati, mettevano su un piccolo palco e contavano, contavano, contavano storie fino a intontirti e a… intortarti? Grandi affabulatori, quelli! Io mi incantavo. Ecco, i pensieri sono abilissimi affabulatori, però sinceri. E io li sto ad ascoltare, perché raccontano di me, la storia della mia vita. Mi dicono il bene e il male parlando con la voce della coscienza. Così, direttamente in faccia: bif e baf. Non riesci a scamparla quando sei a tu per tu con la tua coscienza, mica te la mette una spolverata di zucchero sopra, macché!».
Mi viene in mente quando, da bambina, facevo merenda con una fetta di biova spalmata di burro e zucchero.
«La coscienza, se la vuoi ascoltare, la sa lunga: è lei che ti tiene con i piedi per terra».
Ercole scuote la testa e smuove una nuvoletta di farina.
«Soprattutto quando fai l’erlu, sì, insomma, quando fai lo spavaldo, la coscienza ti ricorda che non sei qui per sempre».
Mi piglia un brivido.
«E, allora, ti mette davanti una pagina divisa in due colonne: da una parte sono scritte le cose che hai fatto bene, dall’altra quelle che ha fatto male. Preciso preciso, senza una parola in più da dire».
Afferra una bottiglia e butta giù un gulòn, una sorsata, d’acqua.
«Be’, ci sono cose che avrei voluto fare meglio…».
Come si chiama la forma di pane che stai impastando?
«Grissia. Grissia monferrina. Bella croccante. Insieme a una fetta di salame o a uno strato di bagnét verde è la morte sua».
Lo osservo che, sorprendentemente agile, solleva con le braccia robuste il lungo manico di legno della pala quadrata in acciaio e, facendo perno sul ventre sporgente, inforna una pagnotta via l’altra. Grissie, ma non solo: biove, micche, rosette, baguettes, montasù, ciabatte, trecce, pane bianco, pane nero, pane integrale, pane di segala, pane di mais, pane di farro, pane di grano saraceno, pane con i semi di sesamo, con le olive, con le noci, senza glutine…
«Ci sono le mode. Una volta, quando avevo i miei bei capelli neri» dice Ercole sollevando di poco la bustina bianca che gli copre la pelata, «venivi dal panettiere e sceglievi il pane comune oppure i bocconcini di semola per quelli che avevano il palato fino o i denti traballanti oppure le pagnottine all’olio per quelli che se la tiravano un po’. E le forme: un po’ più grandi da tagliare a fette o un po’ più piccole per fare i sanguis…».
I sandwiches?
«Sì, proprio quelli, i sanguis. Adesso, è cambiato tutto, non lo tengo più neppure a mente il conto di quanti tipi di pane mi chiedono. “Ercole, saprebbe farmi… Sa, sono stato in vacanza in Sicilia… Sa, ho assaggiato la cucina sarda… In Puglia ho visto che… Nel Veneto, mi hanno servito…”. In un sacchetto di pane ci sta un manuale di geografia!».
Ma tutto il pane, alla fin fine, è fatto con un impasto di farina, acqua, sale, lievito…
«Vero, vero, ma ogni forma ha la sua da dire: ha una personalità, un gusto preciso che la identifica anche se gli ingredienti di partenza sono pressoché gli stessi, perché, prima di tutto, il pane lo mangi con gli occhi!».
Il campanile si anima. Ercole solleva la testa verso la finestra, come se lo sguardo incrociasse visivamente il suono dei rintocchi.
«Sono le sei e io sono puntuale con la tabella di marcia, non sgarro un minuto: è l’esperienza. Sai come si dice, no? Ci vuole la grammatica, ma senza la pratica…».
Ercole è soddisfatto.
«La campana è l’unico richiamo che ha il potere di scuotermi i pensieri».
E alla gente che dorme non scuote il sonno?
«Oh già, alcuni si sono lamentati. “Tutto quel rumore ci tiene svegli”».
Io penso all’afa che, pur essendo muta, non mi lascia dormire, altro che le campane.
«Comunque, hanno piantato su un gran baccano: proteste, striscioni, proclami “è un diritto civile, è una questione di principio”. C’è mancato poco che finissero in tribunale. Vai a capirla, tu, la gente: nei locali e nelle piazze tengono la musica a manetta fino alla sant’ora da far scoppiare i timpani come i palloncini del lunapark e, poi, patiscono il din-don-dan della campana!».
E com’è finita?
«Che hanno fatto una petizione e si è trovato un compromesso: il campanile suona fino alla mezzanotte, poi tace e ricomincia alle 6. Il mondo cambia, cara mia…».
Senti nostalgia del passato?
Ercole sbuffa, facendo vibrare le labbra rumorosamente.
«La nostalgia è stupida, perché si crogiola e ragiona all’indietro, ma il tempo mica si ferma ad aspettarti. Devi camminare avanti, se non vuoi inciampare. L’importante è che ti tieni buoni i ricordi…»
I ricordi?
La voce di Ercole si affievolisce.
«I ricordi vanno conservati con cura, perché sono il bastone che ti sostiene e ti aiuta a tenere il passo. Sono l’enciclopedia che ti fa riscoprire le meraviglie. Sono il calendario della tua esistenza. Senti questo profumo?».
Sì, è antico, entusiasmante e anche consolatorio, il profumo del pane. Sa di giusto, sa di speranza, sa di futuro.
«Annusa bene, in profondità, non lo dimenticherai mai più. Un giorno, chissà quando, se starai per inciampare, ti terrà su… Non mi credi?».
Invece, non so neppure io perché, ma gli credo. Annuisco, una due tre tante volte, scuoto su e giù il mento.
«Scegli la pagnotta che vuoi».
Prendo una michetta, è calda e profumata. Apro il marsupio per pagare.
«Non vorrai mica darmi dei soldi, eh? Mi offendo».
Trattengo la mano. Il pensiero di offendere un amico mi rattrista. Sono commossa. Mi salgono su le lacrime, per bloccarle devo deglutire: non so come si spieghi fisiologicamente questo sincronismo, ma funziona. Solo un orlo umido rimane sospeso tra le ciglia, sgamato dalle luci al neon.
«Tornerai?».
Faccio segno di sì.
Esco e mi allontano. Le stelle sono sparite, la luna sbiadita e biancastra si sta ritirando dietro le quinte del cielo che schiarisce. Cammino distrattamente tra le strade semideserte e mute, quella di Ferragosto è la settimana più vuota dell’anno. «Tutti al mare, / tutti al mare/, a mostrar le chiappe chiare…», eccolo un altro tormentone estivo.
Sulle serrande abbassate sono appiccicati, con lo scotch, dei fogli rettangolari con scritte in pennarello: «Chiusi per ferie. Si riapre il…».
Mi godo quel poco di brezza, quasi impercettibile, nell’alba ancora esitante e faccio pace con la canicola, confortata da un accenno arruffato di nuvole che increspano il cielo lattiginoso. Pioverà? Apro una fessura nel sacchetto di carta e inspiro il profumo del pane, non resisto alla tentazione e sbocconcello un pezzetto di michetta ancora tiepida. «Pan e nus mangià da spus», recita il proverbio. «Pane e noci è mangiare da sposi».
S’è fatto chiaro, ma i lampioni indugiano ancora accesi.
Ora è bene che vada a dormire e, fino al pomeriggio, sicuro sicuro che non ci sono più per nes-su-no. Qualunque giorno sia, oggi è festa.
Brava Silvana…la lettura fatta con calma mi ha aiutato a rilassarmi e a disinquinarmi delle varie tensioni accumulate in questo torrido ferragosto.Grazie ancora delle tue parole che piu’ di un ventilatore producono freschezza alla mente.ciao
Molto, molto sensibile e dolce, fa affiorare nella mente ricordi che erano stati travolti della fretta e dall’affanno di stare a inseguire le nuove tecnologie che fanno perdere ił sapore delle cose piu semplici e naturali.
Io ho molto apprezzato perche faccio pl pane: ho la mani in pasta!!!
Grazie Silvana, i tuoi racconti del lunedì sono belli e reali da piccola vicino alla mia scuola c’ erano forno piccolo e prima di tornare a casa per il pranzo mi fermavo a comprare il pane .. sento ancora quel bel profumo. Sensazioni uniche
Grazie per aver fatto emergere questi ricordi
Dire bellissima è poco . Sembra che tu ed io abbiamo sempre percorso le stesse strade , abitudini , usi , costumi . Sento e ho provato le stesse sensazioni che tu magistralmente descrivi . Ho conosciuto i panettieri di una volta che ora vivono solo nei ricordi. Grazie Silvana per questo altro pezzo di storia “antica” che ci hai narrato. GRAZIE . Un abbraccio Paolo
Bellissima
Bellissimo racconto, ha riportato alla memoria vecchia ricordi.
“La coscienza, se la vuoi ascoltare, la sa lunga: è lei che ti tiene con i piedi per terra”, da ricordare sempre.
Grazie Silvana per le tue “storie” .
Vorrei che ti giungesse il mio pensiero di affettuosa gratitudine perchè le tue storie sono balsamo per l’anima.
Ora aspetterò con impazienza e piacere il prossimo appuntamento.
E come dice Saint Exupery “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumentera’ la mia felicita’. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità!”
Così io mi pregusterò già i giorni prima il momento in cui leggerò con gioia la tua storia.
Grazie, Silvana e continua a raccontarci………..i tuoi scritti sono regali impagabili.
Valeria
Il tuo modo di scrivere è unico, ti senti parte del racconto… qualsiasi cosa di cui racconti il lettore diventa spettatore e partecipa ai contenuti
Sei speciale, hai un vero dono
Grazie Silvana è un racconto meraviglioso, mi ha fatto ritornare bambina. Io abitavo a Borgo Ala e proprio vicino a casa mia vi era la panetteria del “Peru” e appena sveglia sentivo quel profumo di pane e andando a scuola passavo dalla panetteria e la cara Gina, moglie del Peru, diceva “bela gioia, at veuli ina bela pagnota?”.Che bei tempi!!