E’ la storia di un bagolaro «hibakujumoku», un albero «sopravvissuto» originario dal Giappone (Celtis sinensis variante japonica), quella che oggi voglio raccontare. E «Na storia béla fa piasì cüntela». Nel diffuso frastuono rabbioso e ostile, abbiamo un gran bisogno di storie che non fanno arrabbiare, che contengono un senso di giustizia e lasciano aperta la fessura della speranza. Tra cronaca e romanzo, hanno un posto ideale le «StOriE CoSì», racconti verosimili con i connotati della verità autentica e possibile. Buona lettura e appuntamento a lunedì prossimo con un’altra «béla storia». Ciau!
La donna scese cautamente dal predellino del treno, cercando di mantenersi in equilibrio. Sulle spalle, reggeva uno zaino, mentre il braccio destro avvolgeva una scatola di cartone verticale, alta una settantina di centimetri. Appena posò i piedi a terra, si voltò e afferrò il manico del trolley rosso che aveva lasciato sul bordo del predellino. Annusò l’aria, sapeva di catrame, arricciò il naso per il disgusto.
Poi, si allontanò dalla carrozza ferroviaria, alla stazione di C.M. la sosta durava pochi minuti: dall’altoparlante, una voce femminile stava già annunciando l’imminente ripartenza del convoglio per la meta successiva.
Akiko Tanaka era nata e vissuta in Giappone, ma capiva e parlava perfettamente l’italiano. L’aveva imparato fin da giovane quando, a Hiroshima, si celebrava il ventesimo anniversario dal tragico bombardamento del 6 agosto 1945.
Il treno ripartì; la banchina, stretta tra il binario 3 e il binario 4, rimase deserta, polverosa e immobile sotto una spada di sole rovente. L’afa toglieva il respiro.
Akiko schiacciò bene sulla testa il cappello di paglia a tesa larga e alzò lo sguardo verso l’orologio appeso a due staffe che sporgevano dal muro: le tre e venti pomeridiane. Era in viaggio da molte ore, tra partenze, soste e ripartenze, aerei, treni e taxi, ma, finalmente, adesso era arrivata.
Si osservò le caviglie gonfie, scosse le spalle e si concentrò per individuare l’uscita. Scese la scalinata e percorse il sottopasso tra le pareti fregiate di graffiti e chiazze umide, trattenendo il più possibile il fiato per non respirare gli sgradevoli miasmi. Risalì e si trovò sul piazzale assolato.
Su un lato, notò un taxi, uno soltanto. Al posto di guida, il conducente schiacciava un pisolino, tenendo la portiera spalancata.
«Signore…» attaccò Akiko.
L’uomo non rispose.
Lei alzò un poco il tono di voce, senza essere scortese. «Signore…», e gli sfiorò la spalla con la punta delle dita.
Il taxista si destò di soprassalto, scese con un balzo, sorpreso di avere una cliente, e ancor più stupito che fosse straniera: si vedeva benissimo. Con un mezzo inchino, abbozzò: «Madame». E, subito dopo, un titolo di cortesia alternativo: «Milady». Chissà che lingua capiva.
«Sono la signora Akiko Tanaka» scandì la donna in italiano, sorridendo garbatamente. L’uomo le aprì la portiera posteriore e infilò il trolley nel bagagliaio.
«Questi li tengo io» disse con decisione Akiko e si accomodò al centro del sedile, tra lo zaino alla propria destra e la scatola di cartone sull’altro lato.
Era raro, a C. M., avere clienti stranieri; a Mario Giraudo era capitato qualche inglese, qualche francese, in un paio di occasioni anche degli spagnoli, ma orientali mai.
«Lei venire da Cina?» domandò sedendosi al volante e azionando l’accensione.
«No, arrivo dal Giappone» precisò la cliente, osservando la fontana al centro della piazza, mentre l’auto si muoveva lentamente.
«Ah, certo» abbozzò il taxista, «be’, suppergiù… Cina… Giappone… India… tirano da quelle parti, no?». Dondolò un paio di volte la testa, poi domandò: «Dove l’accompagno?».
Akiko sorrise. «Albergo della Torre. Non è distante da qui…».
«Be’, insomma…», replicò Giraudo che, mentalmente, stava già pensando al tragitto più lungo per poter spillare un po’ di euro extra alla turista. Sbirciò nello specchietto retrovisore: aspetto sobrio, ma distinto, camicia blu con grandi fiori bianchi stampati, calzoni chiari, girocollo di perle. “La porto a spasso un po’ qua e un po’ là e alla fine…” meditò.
«Conosco la mappa di questa città» spiegò la donna, stravolgendogli il piano, «perché…», tacque qualche istante e socchiuse gli occhi, «mi è molto cara».
“In altre parole”, dedusse Giraudo rassegnato, “non ti posso fare fessa!”.
«Ci è già stata?» si informò lui.
«Qualche volta, molti anni fa. Avremmo dovuto ritornarci insieme e invece…», la voce le sfiorì sulle labbra.
“Avremmo…” rifletté il taxista, “chissà chi avrebbe dovuto accompagnarla…”.
Avvertì una certa curiosità. «Senta, signora…» attaccò.
«Akiko» lo interruppe lei. «Nella mia lingua, Akiko significa splendente. Forse, una volta…» si schermì la donna sorridendo. «E, lei, come si chiama?».
«Mario Giraudo. E, splendente, io non lo sono stato mai. Me la cavavo bene a correre, però. Atletica. Mi chiamavano “Saetta”, perché la saetta…».
«Va molto veloce. Bene, bene» annuì Akiko.
«Tra poco siamo nella piazza grande, dove c’è il castello; poi, giriamo a sinistra e siamo arrivati al suo albergo». Era inutile fare trucchi.
«Faccia un giro largo, signor Giraudo» replicò la donna, «è passato così tanto tempo da quando ho percorso queste strade, molte cose sono cambiate… Mi porti in giro e intanto parliamo ancora un po’».
Il taxista cambiò direzione e salì verso la collina. Anche se il cielo era velato, si poteva vedere, giù in basso, il fiume sinuoso. Giraudo rallentò fin quasi a fermarsi: «Da qui, il panorama è suggestivo. Laggiù si vede…».
«Il Po» completò emozionata Akiko, «sembra un nastro cangiante».
«Ha vissuto momenti migliori il fiume» borbottò il taxista, «una volta potevi navigarlo fino a Venezia, sa, la città delle gondole…».
«Venezia è magica, ci sono stata con Tommaso, eravamo giovani…».
“Ecco, il ‘tipo’ che doveva accompagnarla si chiama Tommaso” rifletté Giraudo.
«Lui era venuto in Giappone a studiare, era già laureato, ma voleva apprendere la cultura e l’arte nipponica. Per mantenersi, il professor Cattaneo, così si chiamava, insegnava italiano a noi giapponesi; io ero sua alunna, poi… sono diventata sua moglie» sussurrò. Un luccichio balenò tra le ciglia. Akiko si assicurò che lo zaino e la scatola di cartone fossero incollate al proprio corpo.
Il taxista percorse in discesa una strada a curve e rallentò nel tratto da cui si aveva l’impressione di abbracciare la città: svettavano i campanili, la torre, i tetti dei palazzi alti e i tralicci. Dopo un poco, imboccò la via larga, che un tempo era un andirivieni di camion traboccanti di polvere.
«Qui vicino c’era la fabbrica, vero?» domandò la donna staccandosi dallo schienale per osservare con maggiore attenzione il passaggio tra le case basse, una a ridosso dell’altra, tra cui erano state inserite, in tempi più recenti, delle palazzine a tre o quattro piani che interrompevano nettamente la geometria del quartiere.
«C’era, sì, la fabbrica maledetta. C’era» ripetè astioso. «Adesso, invece…».
«C’è il Parco, lo so, l’ho letto. Hanno buttato giù la fabbrica e ci hanno fatto il Parco. A Tommaso sarebbe piaciuto vederlo, gli sarebbe piaciuto tanto». Rimase qualche istante in silenzio, poi «Tommaso era nato qui», puntualizzò.
Giraudo accostò. Akiko scese, si infilò lo zaino e lasciò la scatola di cartone sul sedile: «Chiude a chiave l’auto, vero? Non vorrei che…» sollecitò con una punta di preoccupazione.
Il taxista fece scattare la chiusura centralizzata.
Si incamminarono tra i viali, le piante, le panchine, i giochi. Qualcuno stava leggendo, qualcuno stava correndo, alcuni ragazzini si arrampicavano su una impalcatura di legno e corde.
«Mio padre ha lavorato qui» spiegò Giraudo.
Gli veniva naturale confidarsi con questa donna straniera, mai vista prima e che parlava la sua lingua. «Pagavano bene, è riuscito a costruirsi la casetta e ci portava al mare d’estate. Ma che prezzo ha pagato! Ci è morto per quella merda!». Si interruppe di colpo, «Oh, mi scusi signora» mormorò imbarazzato.
Akiko scosse una mano, a manifestare indulgenza e solidarietà.
«L’ho ereditata quando è morto, la casa; adesso ci abito io, mia moglie, i figli… Sa, qui dentro mio padre» borbottò Giraudo scuotendo desolato la testa «si è mangiato tanta di quella polvere, la respirava a pieni polmoni. Non lo sapevano mica che faceva morire, lui e gli altri che hanno fatto la stessa fine, non lo sapevano…».
«Anche il padre di Tommaso e sua madre hanno lavorato qui dentro. Sa che la mamma, nelle pause dei turni, andava a casa ad allattare il figlio e si teneva il grembiule addosso tutto impolverato di quella… merda?».
Giraudo tossicchiò sorridendo mestamente.
«Sono riusciti a far studiare il figlio» riprese Akiko, «erano orgogliosi, finché un giorno, prima uno poi l’altra… L’ho accompagnato quando ci sono stati i funerali dei miei suoceri. Allora, la fabbrica era ancora in piedi» mormorò la donna, muovendo il braccio steso a inglobare tutta la superficie intorno.
«E’ stata una tragedia enorme. E ingiusta. Sì, ingiusta. E non è finita» disse severo Giraudo, ingoiando un bolo di saliva spessa.
«Ognuno ha la sua Hiroshima» mormorò lei.
Il taxista si voltò a guardarla, la giapponese gli sorrise mestamente: «I miei genitori sono morti per le conseguenze di quel 6 agosto 1945. Non subito, qualche anno dopo… le radiazioni… Io sono nata pochi mesi dopo il bombardamento… Ne ha uccisi subito centoquarantamila, poi via via uno stillicidio di vittime proprio a causa delle radiazioni. Io sono fortunata, sono ancora qui…».
Rimasero per un po’ in silenzio a condividere la Storia.
«Vorrei piantarlo qui, in questo parco».
Giraudo la guardò interrogativo. Non sapeva a che cosa alludesse Akiko, ma era certo che, di qualunque cosa si trattasse, non sarebbe riuscito a dissuaderla.
«Il bagolaro», puntualizzò la donna, «vorrei piantarlo qui».
«Lo “spaccasassi”?» domandò Giraudo voltandosi verso l’auto e improvvisamente comprese che cosa conteneva quella scatola di cartone.
«Sì, lo so, questo albero lo chiamano anche così, perché ha radici tenaci e devastanti. E c’è pure chi lo ha soprannominato l’albero dei rosari, perché con i semi dei frutti, molto duri, ci facevano i grani dei rosari. Vede, però, quel bagolaro» spiegò Akiko indicando la vettura e la scatola di cartone che aveva lasciato sul sedile, «è speciale. E’ erede dei pochi esemplari sopravvissuti al bombardamento atomico. “Hibakujumoku” significa albero sopravvissuto. A Hiroshima ne furono trovati circa centosettanta di trentadue differenti specie, nel raggio di due chilometri dal punto dell’esplosione. I semi degli hibakujumoku vengono piantati in Giappone e in altre parti del mondo. Hanno un significato potente: rappresentano il simbolo della forza della vita che ha resistito alla distruzione».
Giraudo tirava su col naso, e sudava, ma si sentiva pervaso da una leggerezza serena.
«Tommaso e io avevamo deciso di tornare in Italia, per venire a piantare qui, a C.M., in questo parco di questo sobborgo, la pianta di bagolaro proveniente da Hiroshima. Era come unire la storia tragica delle nostre origini, per rigenerare fiducia nella vita e nell’umanità» proseguì Akiko.
«Poi lui, improvvisamente… il cuore, a volte, non dà preavvisi… Mi aiuterà a piantare qui il bagolaro, Mario?».
Il taxista si scosse sentendo pronunciare il proprio nome da quella donna di cui, fino a meno di due ore prima, non conosceva l’esistenza e, a più di settant’anni di età, aveva volato sopra i continenti per venire a piantare questa pianta di pace.
Però, eh già, però…, «questo è un parco pubblico, bisogna avere dei permessi, non è che si possa metter giù una vanga, farci un buco e…».
Akiko lo osservava supplichevole. Lui, però, non poteva infrangere le regole; qualche volta i limiti di velocità sì, se il cliente aveva fretta, o qualche corsa senza ricevuta fiscale, ma, qui, si trattava di finire in guai seri, avrebbero potuto denunciarlo, non sapeva bene per quale reato, e ritirargli la licenza.
Sospirò avvilito, ma di colpo gli balenò un’idea.
«Akiko», anche Mario osò chiamarla per nome, «qui vicino c’è uno spazio verde, un piccolo parco sotto lo stesso cielo che sovrastava la fabbrica, è curato da persone perbene, io le conosco, hanno a cuore questa terra. E’ uno speciale giardino, dove gli alberi sono, come dire?, dedicati».
Akiko Tanaka si animò: «Dedicati a chi si ama?».
«Be’, sì, in quel senso» annuì il taxista.
Akiko si era già incamminata verso il taxi. Giraudo affrettò il passo per starle dietro.
Salirono e raggiunsero il piccolo giardino urbano.
Una donna sorridente si affacciò. «Ciao Bea, ci sarebbe spazio per un bagolaro di Hiroshima?» domandò Giraudo all’amica, mentre pensava: “Mi piglierà per scemo!”.
Invece la donna disse sì, che c’era uno spazio al centro del giardino. Prese una vanga e la passò a Mario Giraudo che cominciò a scavare. E Bea si premurò di riempire un innaffiatoio e bagnò la terra asciutta e dura per facilitare il lavoro.
Akiko, nel frattempo, rimosse delicatamente il cartone e depose l’arboscello nel buco.
Quando la pianta fu ben sistemata, il taxista cambiò attrezzo e afferrò la pala per ricoprire la piccola fossa, ma Akiko lo fermò, posandogli una mano sul braccio.
Si sfilò lo zaino dalla schiena e ne estrasse una piccola urna di legno chiaro, a forma di scatola, sul cui coperchio era intagliata una stilizzazione dell’albero della vita. Sopra una targhetta di metallo era inciso il nome Tommaso Cattaneo.
Giraudo e Bea intuirono; si scambiarono uno sguardo impacciato e sospirarono. «Veramente, per legge… non è che si possa, cioè ci sono i cimiteri, oppure luoghi appositi, autorizzati. E bisogna fare le pratiche, è la burocrazia che…», incespicavano sulle parole.
Akiko s’incupì e, ancora inginocchiata ai piedi del bagolaro, strinse l’urna al petto. Gli occhi si orlarono di lacrime.
Giraudo, fino a quel momento, l’aveva vista solo sorridere.
Si sentì a disagio, non sapeva che cosa dire, né dove guardare.
Bea si abbassò per rimuovere un sasso che, in realtà, non dava nessun fastidio. Poi si rialzò, guardandosi intorno alla ricerca di un diversivo. «Guarda, Mario, le rondini volano basso» esclamò, concentrandosi verso il cielo che aveva perso il colore azzurro e virava al grigio.
«E che significa?» domandò il taxista, distogliendo a sua volta l’attenzione dal bagolaro.
«Pioggia in arrivo, ecco che cosa significa».
Akiko, aperta la scatola intagliata, fece scivolare un pugnetto di polvere tra le dita e la lasciò cadere tra le radici della pianta; poi, afferrò un po’ di terra e ne stese uno strato, appiattendolo con i palmi delle piccole mani bianche.
Infine, piegò la schiena e, raggomitolata su sé stessa, sfiorò con le labbra la terra che aveva livellato con cura.
Giraudo ripose gli attrezzi in un capanno, mentre Bea, su un rettangolo di compensato, scrisse alcune parole per conferire solennità a quell’improvvisato gemellaggio: «Hibakujumoku di Hiroshima e di Casale Monferrato». Infilò la tavoletta di legno in una protettiva busta di nailon trasparente e la collocò alla base del bagolaro.
Gocce di pioggia larghe e lente cominciarono a picchiettare la terra, diffondendo un intenso petricore.
«Hanno ragione le rondini» commentò Akiko, spingendosi sui palmi per rimettersi in piedi.
«Sulla pioggia?» domandò Bea.
«Sulla resurrezione» precisò la giapponese, scuotendo la terra che era rimasta sui pantaloni.
Giraudo non ci capiva più niente.
«Tommaso mi aveva spiegato che, nella tradizione cristiana, le rondini sono il simbolo della resurrezione, perché fanno ritorno a ogni primavera. E anche per noi giapponesi le rondini… Secondo un’antichissima tradizione le rondini sono portatrici di felicità: la casa dove costruiscono il nido riceverà gioia e fortuna».
Il giorno dopo, sotto la dicitura «Hibakujumoku di Hiroshima e di Casale Monferrato», comparve la parola «speranza» scritta da non si sa chi.
* * *
Quella che ho scritto non è una storia vera. Ma neppure si può dire che sia falsa, perché un bel po’ di verità la contiene. Da cronista, analizziamo i fatti. 1) Esiste davvero, a Casale Monferrato, un piccolo suggestivo giardino Urban 2, dove ogni pianta ha una storia e un valore speciale. E’ nel quartiere Ronzone, tra via Rotondino e via Gabotto. Ci si può andare liberamente, ci sono anche alcune panchine per fermarsi un poco. 2) Nel giardino Urban 2, curato dall’associazione culturale LibrArti, martedì 6 agosto 2024 (nel 79° anniversario delle prima delle due bombe atomiche sganciate sul Giappone) è stato messo a dimora un bagolaro «hibakujumoku», un albero, cioè, generato da quelli sopravvissuti al bombardamento sulla città di Hiroshima. 3) Alla cerimonia, suggestiva e partecipata, erano presenti: Kobayashi Toshiaki, rappresentante del Consolato generale giapponese a Milano, Sosho Koike e Raffaella Costanzo, dell’associazione Yamato, per l’Afeva (Associazione famigliari e vittime amianto) c’erano Giuliana Busto, presidente, e Assunta Prato, più l’oncologa Daniela Degiovanni, anche cofondatrice di Vitas (l’associazione che si occupa fattivamente di malati terminali o in gravi condizioni, molti dei quali affetti da mesotelioma). Per il Comune di Casale (che ha messo a disposizione il bagolaro germogliato da una pianta sopravvissuta al bombardamento di Hiroshima) c’erano gli assessori Cecilia Strozzi, Irene Caruso e Fiorenzo Pivetta. 4) L’albero è stato messo a dimora in quel quartiere simbolo, in memoria delle vittime di tutte le guerre e delle vittime dell’amianto. 5) La violoncellista Erika Patrucco ha punteggiato con delicatezza la solennità dell’evento interpretando brani di Bach. 6) Ha fatto gli onori di casa Barbara Corino, portavoce della associazione Librarti (ampiamente rappresentata da diversi soci) e «guardiana», tenace quanto discreta, di questo piccolo giardino di speranza.
Tutto il resto della storia di Akiko è inventato. Ma è comunque un’invenzione verosimile e, quindi, credibile.
Grazie Silvana per i tuoi bei scritti che ci tengono compagnia durante l’estate. E ci fanno riflettere su quanto sia capace di “distruggere” l uomo “ . Buone Vacanze . Paolo e famiglia
Molto bello il tuo racconto, nato da fatti reali o realistici come scrivi. Abbiamo bisogno di leggere storie di umanità tra le colline che ci ospitano! Grazie silvana
Grazie, Silvana, che ci fai riflettere, a volte sorridere e spesso pensare
No no Silvana, Akiko era proprio lì con noi e con tutti i Tommaso che la sete di potere e di ricchezza ha cercato di cancellare dalla vita. Ma non faceva i conti con i tanti alberi dalle forti radici e dalle grandi ali…
Grazie, mi hai riportato ad Hiroshima visitata qualche anno fa.
Messaggio di speranza descritto molto bene.
Grazie Silvana, davvero un bel racconto. Un caro saluto
Grazie Silvana!
Come sempre, sai toccare le note profonde dell’animo…e regalare un pizzico di speranza…
Grazie Silvana! Molto bello, con tanto significato di umanità
e speranza! Molto bella e significativa la cerimonia, particolarmente emozionante per l’accostamento dell’immane sterminio di Hiroshima con la nostra enorme tragedia dell’uso criminale dell’amianto,causato dall’incordigia dell’uomo….
Grazie Silvana, anche in questa estate rovente che neanche l’aria di collina riesce a mitigare, ci hai regalato una storia ricca di sentimenti e riflessioni. Vorremmo tanto sentir parlare di cooperazione e non di guerra. L’uomo non ha imparato nulla dalle tragedie del passato, solo a mantenere il potere che si è conquistato sulla pelle di altri uomini.
Molto bello perché pur all’interno di fatti anche dolorosi c’è un dolcissimo intreccio di eventi di grande sensibilità umana
Mi sono commosso, mi prenderò cura del Bagolato e di tutte le altre piante del giardino
A Casale abbiamo l’albero dei fazzoletti, e ora anche l’albero dei rosari a poca distanza. Due realtà che si uniscono nel segno della rinascita e della speranza. È consolante poter sperare. Non illudersi, ma sperare. Consapevoli che, insieme, uomini e donne di buona volontà possono produrre piccoli ma significativi cambiamenti, nell’intimità delle proprie case, nei luoghi di lavoro, nelle piccole aree verdi delle nostre città. Racconto molto toccante. La gentilezza e sobrietà di Akiko rimangono scolpite nella mente e nel cuore ♥️
Grazie Silvana per aver tradotto a parole quello che abbiamo cercato di comunicare durante la cerimonia. A Casale, ognuno ha almeno una spina nel cuore a causa dell’Eternit; ognuno sa che continua a succedere e che può succedere a chiunque… il passato è presente tra noi, non possiamo ignorarlo. Possiamo combattere, perché tutto il male, il dolore, l’errore diventino altrettanto bene, giustizia e forza