E’ una storia di scacchi (anzi, sono due storie che si intrecciano) che oggi voglio raccontare. E «Na storia béla fa piasì cüntela». Nel diffuso frastuono rabbioso e ostile, abbiamo un gran bisogno di storie che non fanno arrabbiare, che contengono un senso di giustizia e lasciano aperta la fessura della speranza. Tra cronaca e romanzo, hanno un posto ideale le «StOriE CoSì», racconti verosimili con i connotati della verità autentica e possibile. Buona lettura e appuntamento a lunedì prossimo con un’altra «béla storia». Ciau!
Nonna, mi insegni a giocare a scacchi?».
«A scacchi…» abbozzò la nonna increspando un sorriso imbarazzato.
Osservò la scacchiera al centro del tavolino rotondo: stava lì per estetica, da spolverare ogni tanto. Un oggetto muto, come un orologio fermo o una fontana senz’acqua.
La luce lattiginosa attraverso i vetri della finestra illuminava la superficie piatta della scatola di legno; la suddivisione in quadrati chiari e scuri evocò l’elegante e sontuoso pavimento marmoreo nella Galleria Grande della Reggia di Venaria Reale. Chissà se l’architetto Filippo Juvarra, che l’aveva progettato, era stato un giocatore di scacchi?
«Scacchi…» ripeté la nonna, «non so giocare a scacchi, non conosco le regole» ammise, «a dama, a tela, sì… ma a scacchi…».
«Nonna, proviamo almeno a mettere i pezzi sulla scacchiera?» insistette il bambino.
«Non so in che ordine si mettono» replicò la nonna sconsolata.
I pezzi bianchi e neri, disposti, singolarmente, negli spazi rivestiti di vellutino verde, parevano reclamare un dinamismo che da molto tempo, forse da sempre, era stato loro negato. Movimenti precisi: solo avanti, avanti e indietro, in diagonale, a elle…
«Però…».
«Però?» incalzò il bambino, ammirando con emozione i misteriosi pezzi ben forgiati che non attendevano altro che mostrare le loro mosse.
«Però… e però, però… però… possiamo interpellare un maestro».
E il Maestro, munito di una piccola Stella, si palesò a spiegare, con sapienza e pazienza, che cosa sono in grado di fare i pedoni, gli alfieri, i cavalli, le torri, i re e le regine.
Ognuno sa qual è il proprio ruolo, ognuno conosce i propri limiti, ognuno rispetta le regole, pur lasciando piena libertà ai guizzi, all’immaginazione, alle intuizioni. E alla fantasia, che apre le porte, avvicina le distanze, supera gli ostacoli.
In altre parole: giocare a scacchi rende possibili i sogni, le speranze, forse pure i miracoli terreni.
Accade, ad esempio, nel campo profughi di Kibati, non lontano dalla città di Goma, nella Repubblica democratica del Congo; qui, il sistema politico è gravemente instabile e i massacri civili sono il canovaccio della quotidianità: da un anno e mezzo, poi, la conflittualità si è ulteriormente acuita con costanti scontri tra milizie paramilitari e esercito regolare. Si muore come mosche e non soltanto a causa delle violenze, ma anche, e molto, per la malnutrizione, oltre che per le inadeguate e povere strutture sanitarie. Si calcolano 38 mila morti ogni mese.
Centinaia di migliaia di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case e a rifugiarsi in campi profughi, senza prospettive di futuro. Peggio: le menti dei bambini e dei ragazzi vengono plasmate su modelli di contrapposizione e di odio. E, se impari la guerra, prima o poi la combatterai. Se hai delle armi a disposizione, prima o poi le userai. E, se userai le armi, lo farai per fare del male, financo per uccidere. E’ una logica senza scampo. In Congo come in ogni altro buco del mondo, anche «civilizzato».
A meno che… C’è una mossa che potrebbe salvarli?
Forse sì.
Nel campo profughi Focus Congo, appunto a Kibati, è stato attivato un programma di scacchi per bambini, ragazzi e adulti. Anche il gioco degli scacchi è una competizione, una sfida, una battaglia, ma a colpi di ingegno, di logica e di rispetto delle regole.
«Vogliamo spezzare il ciclo infernale che plasma le giovani menti al conflitto. Gli scacchi eliminano lo stress, danno l’opportunità di trovare soluzioni pacifiche ai problemi. Crediamo che, riscoprendo la logica, le persone di ogni età possano riscoprire anche se stessi», ha detto il fondatore del progetto congolese, Akili Bashige Lwenda, di 24 anni. Qualcuno, allenandosi e credendoci, emergerà nell’arte degli scacchi, e uscirà fuori dal Congo per andare a confrontarsi in tornei di altri Paesi. «La speranza – dice Lwenda – è che possa scoprire che è possibile una pace al di fuori della violenza che stiamo vivendo». E, se scopriranno la pace con l’impiego rispettoso della logica, l’auspicio è che possano tornare nella loro terra come messaggeri di convivenza pacifica.
«Ehi, nonna, attenta: scacco matto!».
«Ahi ahi ahi: sconfitta! Vabbé, ti sfido di nuovo. Ma, intanto, che dici? Ce lo facciamo un caffè dolce dolce con schiumetta?».
Che bello, grazie di averlo scritto.
Pure io non conosco questo gioco ma mi ha sempre affascinato.
Bellissime parole Silvana
Grazie
Bello il racconto neppure io non so giocare a scacchi, ma mi ha sempre affascinato. Aspetto un altro racconto