SILVANA MOSSANO
Ricorre in questi giorni il trentacinquesimo anniversario dell’inquinamento dell’acquedotto casalese. Non bastavano l’amianto, le discariche abusive con fusti interrati anche lungo il greto del Po, il vino al metanolo, benzene-atrazina & porcherie-andando mescolate alla terra dei campi coltivati, noi casalesi ci siamo trovati anche con l’acqua avvelenata.
Chi c’era non può dimenticare l’atmosfera surreale da coprifuoco e da fine del mondo, nella primavera 1986, appena spente le luci della Fiera di San Giuseppe e del Lunapark. Chi non c’era se lo faccia raccontare, e non pensi che quelle narrazioni siano esagerate. Aprivamo i rubinetti e guardavamo scorrere l’acqua limpida e infida, che ci fu vietata per non morire di quel cocktail di veleni che sguazzavano dentro invisibili e letali.
E non fu colpa di un destino baro e crudele, ma, ancora una volta, di uomini bari e crudeli. Benché riconosciuti colpevoli, non pagarono il ripristino della situazione drammatica che avevano provocato attuando un disegno finalizzato a perseguire il profitto (che è un obbiettivo lecito, il profitto, se non lo si ottiene in modo perverso). Toccò alla collettività mettere mano alle proprie risorse e costruire un nuovo acquedotto sano.
Ho ritrovato un articolo che scrissi ad aprile 2016 su La Stampa, allora nel trentennale dell’inquinamento (nella foto in alto, lo stralcio della pagina). Non avrei altre parole da aggiungere. Così lo riporto tal quale.
DA «LA STAMPA» del 13 APRILE 2016
Di quei giorni grigi e opachi (marzo 1986, ndr), nutriti prima di stupore e poi di rabbia, l’unico colore vivido rimasto stampato negli occhi è quello del lampeggiante blu sulla vettura dei vigili urbani che girava per le strade di notte. E la voce surreale dal megafono: «Attenzione, cittadini, non bevete e non usate l’acqua dei rubinetti».
Ai casalesi, la notte del 24 marzo 1986, fu tolta l’acqua. Al mattino, l’allora sindaco Riccardo Coppo (quello a cui toccò gestire tante emergenze: dalle discariche abusive, all’accoglienza di mille albanesi arrivati in una sola alba, al vino al metanolo, alla prima ordinanza d’Italia contro l’amianto), facendosi la barba aveva sentito venir giù dal rubinetto un odore strano nell’acqua. Le caricature che accentuarono la raffigurazione del suo naso particolarmente sensibile si moltiplicarono, sui giornali, nei giorni a venire. L’olfatto del sindaco aveva percepito un odore che poi si rivelò essere stato causato da un intruglio chimico nell’acqua «potabile».
I pozzi dell’acquedotto comunale, che servivano la maggior parte della città (esclusa Sant’Anna e dintorni, agganciata all’Acquedotto del Monferrato) erano collocati in un unico punto, Piardarossa, a Santa Maria del Tempio. Dopo la segnalazione del sindaco, gli accertamenti tempestivi evidenziarono un concentrato fuor di ogni limite di fenoli e altre sostanze chimiche. Appena avuti gli esiti delle analisi, Coppo firmò l’ordinanza con cui vietava ai suoi concittadini di usare l’acqua – né per bere, né per fare il tè o la minestrina, né per lavarsi o fare il bucato – ma non si aspettò di fare manifesti o comunicati, si mandarono subito in giro, nottetempo, le pattuglie dei vigili. «Cittadini, non bevete e non usate l’acqua dei rubinetti». Atmosfera da coprifuoco.
Poi nelle piazze arrivarono le cisterne piene di acqua bevibile e, dopo, il potabilizzatore della Protezione civile (ai suoi esordi). Si andava a fare approvvigionamento con le taniche, sciorinando sequele di improperi contro i criminali che avevano messo in ginocchio la città. Si scoprì, in pochi giorni, che erano cinque; prima di tutto un imprenditore monferrino, titolare di una ditta che aveva il compito di recuperare rifiuti da industrie chimiche e farmaceutiche e smaltirli secondo procedure sicure. Invece, con la complicità di altri quattro, escogitò un metodo veloce: fu scavato nel terreno un buco profondo, dentro un capannone a Cerreto, al riparo da occhi indiscreti, e lì furono sversate cisterne di quei liquami. Fino a che arrivarono ad appestare le falde sotterranee da cui attingevano i pozzi dell’acquedotto comunale di Piardarossa.
Al processo per avvelenamento, l’imprenditore spiegò «candidamente» che si era pensato, inizialmente, a un’alternativa: far viaggiare le cisterne colme di quegli intrugli chimici lungo le autostrade, lasciando il rubinetto un po’ aperto, in modo da disperdere lungo lo «stivale» tutta quella porcheria. Ma il carburante per i lunghi viaggi costava e pure i pedaggi. Così il buco di Cerreto risultò più economico.
Quell’evento scandaloso e terribile è una delle pagine storiche più buie di Casale e dei casalesi.
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Quei tragici momenti li ho ancora sotto pelle. Lavorando all’ufficio tecnico del Comune di Casale ho vissuto in prima persona quegli eventi. Ancora oggi ogni tanto passando da Piazza Cesare Battisti uno dei luoghi delle cisterne mi vengono i brividi. Per non parlare della voce al megafono che arrivava dalle camionette in giro per la città. Non si può dimenticare. Non si deve dimenticare.