RECENSIONE del SABATO
“Pietra dolce”, autrice Valeria Tron, edito da Salani, maggio 2024, pp.440.
In una frase: il libro, tra quelli letti nel 2024, che mi è piaciuto di più.
Valeria Tron è un’artista versatile (scrittrice, cantautrice, illustratrice, artigiana del legno); “Pietra dolce” è il suo secondo romanzo, dedicato: “A mio papà e tutti i minatori. A chiunque abbia il coraggio di far brillare i sogni, la bellezza e la poesia, con la miccia della pace”.
Valeria Tron è figlia della Val Germanasca. Illustratrice, cantautrice, artigiana del legno, ha esordito con L’equilibrio delle lucciole (Salani, 2022), candidato al Premio Strega, finalista Premio Benedetto Croce, Premio Massarosa e Premio Le Pagine della terra, vincitore del Premio Femminile, plurale e del Premio Città di Cave.
La “pietra dolce” è il talco dei giacimenti minerari in Val Germanasca (Pinerolo), i monti e i borghi di quella valle sono l’ambiente principale del romanzo. Il talco è anche uno dei protagonisti non umani della storia, lo troviamo nelle fatiche e nei pericoli della miniera, nella silicosi dei minatori e come materia prima di uno scultore.
“Pietra dolce” è una storia e un intreccio di storie corale, con due personaggi principali: Lisse e Giosuè. I tempi delle vicende si possono suddividere in tre periodi: il solstizio d’estate del 1940, poi dal primo settembre a dicembre del 1967, e infine 8, 9, 10 maggio e 12 ottobre 2016.
Lisse è figlio di una sconosciuta in fuga che, sfinita e disperata, lo ha partorito, il 21 giugno 1940, su un lenzuolo, in un pascolo della Val Germanasca, il Praloup; poi, reciso a morsi il cordone ombelicale, ha ripreso la fuga: “Il bosco si è inghiottito una madre, il prato apparecchia un figlio” (p.8).
I vagiti del neonato attirano un gruppo di capre verso il lenzuolo: “Nel bianco, una pozzanghera rossa e due manine che cercano aggrappo. La matriarca annusa e gli si accuccia di lato. Le braccia si tendono, raggiungono il pelo, le nari tastano ingorde l’odore nuovo, il pianto si cheta. La capra lo fa suo, sospingendolo delicata verso il ventre. L’istinto del piccolo cerca il latte …”. (p.8).
Ghit, la pastora, è già avanti negli anni: delle quattro madri di Lisse è quella che gli dà il nome “Lisse!” ripetendo quello del padre. ”… si chiede se fosse solamente Lisse, senza la U, ma non si sa rispondere. La U, ripete tra sé, è una lettera greve, ha forma di gerla, perciò meglio senza: che sia leggera la sua schiena.” (p. 9)
Le altre tre madri di Lisse sono: Denise, una giovane sposa rimasta sola dopo la chiamata in guerra del marito, alla quale Ghit, consapevole dei propri limiti fisici imposti dall’età, affida il bambino “Ha bisogno di una madre ti pagherò con le capre. Non patirete la fame”, la risposta: “Non è tuo, immagino, vero Ghit?”
“L’ho trovato”
“Dove?
”Praloup”
“Non possiamo registrarlo, lo sai”
“Però puoi farlo crescere: fuori dalla porta ci sono due capretti e una da latte. Verrò ad aiutare, e se dovessero passare i controlli diremo che è tuo: sulle montagne i segreti fanno radice: nessuno lo cercherà.” (p.10)
E Denise, preso il bambino fra le braccia stabilisce: “Se la vita ha voluto farmi madre in tempo di guerra, Lisse del Praloup, chi sono io per disobbedirle?” (p.11).
Le altre due madri di Lisse sono Beretta, la capra matriarca che lo ha protetto il giorno della sua nascita, e Mina, la zia di Giosuè.
Giosuè (nato il 12 ottobre 1940) e Lisse sono amici fraterni fin dalla prima elementare. Quando avevano dodici anni, mentre Lisse era al pascolo, un’imponente frana aveva distrutto, tra le altre, anche la casetta di Denise, rimasta uccisa tra le macerie.
Da quel giorno Mina e Giosuè erano diventati la famiglia di Lisse: Giosuè era ufficialmente orfano dall’età di tre anni, ma suo padre (fratello di Mina) e la madre, lo avevano affidato alla zia nubile, quando il piccolo aveva appena un anno, poi erano entrati in clandestinità per combattere i nazi-fascisti, dopo un paio d’anni erano stati catturati e uccisi.
Tanto quanto Lisse era istintivo ed esuberante, Giosuè era sensibile e riflessivo, inoltre la balbuzie che lo affliggeva lo forzava al silenzio. L’amicizia tra loro era nata così: alla fine dell’orario di scuola si erano incontrati sulla strada; Lisse dimenava un bastone e cantava a squarciagola, mentre Giosuè, trasognato, osservava le loro ombre sulla terra battuta, e Lisse osservò: “Comunque non sei stupido come dicono gli altri. Per me vivi in due mondi, e questo qua non ti somiglia … se vieni con me ti faccio conoscere la mia capra. Si chiama Beretta. Lo sai perché? …perché quando caga sputa palline a raffica come un mitra. Mi raccomando stai distante dal codino, ché quella non avvisa” (p.55). Giosuè aveva risposto con un sorriso semi-sdentato, offrendogli una manciata di noci. “Arrivato a casa da Mina, fradicio di fango fin sul colletto, le aveva confidato di aver trovato un amico. Con lui solo, le parole smettevano di fargli muro”. (p. 56).
Primo settembre 1967, Lisse e Giosuè lavorano nella miniera di talco del paese ormai da anni, formano una squadra affiatata con gli altri minatori, legati da solidarietà, amicizia e soprattutto da una certezza: quel tacito, reciproco e incrollabile “mi fido di te”, basato su esperienza, sintonia e orgoglio professionale.
Scoppia una carica di esplosivo, poi tre deflagrazioni fragorose, poi rumore di sassi staccati: la terra è crollata, ha inghiottito l’accesso della miniera fino alla volta.
“Gli uomini nel piazzale barcollano fradici di fango, solamente il bianco degli occhi li testimonia vivi. Prendono a tastarsi, a contarsi le membra; passata in rassegna la squadra, si accorgono che ne mancano un paio all’appello”. (p. 13)
Lisse e un altro minatore sono rimasti là sotto, Giosuè è seriamente ferito, ma quando si rende conto che Lisse è rimasto sotto le macerie “… d’ improvviso si alza e con tutto il fiato che ha in corpo urla un < Nooo!> che ammutolisce i compagni” (p. 14).
Lisse si è salvato, prima ha spinto fuori, verso l’aria, il compagno più malconcio di lui e privo di sensi, e poi a fatica è uscito, sanguinante, dalla trappola di roccia e fango.
Salvo, sì, ma completamente stravolto, scappa dal villaggio, va a ubriacarsi nella sua vecchia baracca, su, al Praloup, a ventisette anni si sente completamente privo della voglia di vivere: troppe sofferenze, troppe, non ce la fa più, non ce la può più fare.
Per recuperarlo alla vita sarà necessario un miracolo, pianificato e realizzato da Giosuè e Mina, insieme agli altri due grandi amici, Cesar, un allegro gigante/indovino soprannominato Lumière, e Henrì, detto Tedesc, il misterioso oste del paese, liutaio per passione.
Da allora sono passati quasi quarantanove anni. Giosuè ha lasciato la Val Germanasca e da quasi trent’anni vive nel suo rifugio sulle colline, località “I Tigli”, un posto immaginario (a me ha fatto venire in mente Monte Croce di Villamiroglio), gli fanno compagnia la corva Bas, e Dante, un vecchio asino. 8 maggio 2016, un giovane e inaspettato visitatore gli porta un oggetto del suo passato, che si rivelerà molto più presente di quanto il lettore possa sforzarsi di indovinare … farebbe comodo l’aiuto di Lùmiere!
Finale: in “Pietra dolce” l’intreccio di storie è “senza rattoppi”, a parte il dolore, che quello nella vita c’è sempre ed è compagno di strada dell’amore; i personaggi sono descritti benissimo e pare di sentirli parlare, ridere, piangere e dare buoni consigli.
La scrittura a me è piaciuta moltissimo, sobria ed elegante, nel testo sono inseriti, di quando in quando, vocaboli in patois con l’immediata traduzione, ed è un interessante contatto con la forza della sintesi, tipica dei dialetti.
Un gran bel romanzo, un potente inno all’immenso valore dell’amicizia, al miracolo dell’amore, alla meraviglia della natura e alla grazia di poter leggere i libri!
In patois la parola “libbre” significa libero e significa anche libro; una sola parola per indicarne due “come le mani: simmetriche per natura, funzionali alle stesse mansioni” (p.185).
Tanti auguri a tutti, anche di piacevoli letture!
Sergio sei sempre piu bravo.
La storia, un intreccio di solidarieta umana di gioia e di dolore viene descritta da te con grande sensibilita mettendo anche in evidenza la tua grande interiorita!
Riesci a far appasdionare anche un quasi illleterato come me.
Bravo, bravo, bravo!!!
Grazie
semplice ma bellissima recensione … questa scrittrice ha colpito molto anche Marina (mia moglie) che è la mentore della nostra filosofia di vita famigliare…grazie Silvana per ricordarci spesso che LA PAROLA scritta, letta, pensata, parlata e perchè no …anche cantata è fondamentale nella nostra società …
Questa volta il buon uso della parola è affidato a Sergio