SILVANA MOSSANO
TORINO
Il giornalista Roberto Franchini è morto, a 85 anni, l’altra notte, 18 novembre, per un infarto che lo ha colto al San Luigi di Orbassano dove era ricoverato da un paio di giorni. Non stava bene e aveva dovuto lasciare la sua casa di corso Re Umberto, oltre il portone del numero 61, davanti al quale più volte eravamo andati ad aspettarlo e a riaccompagnarlo in occasione di preziosissime cene, ospiti di un’amica italo-inglese che avevamo scoperto di avere in comune. In pochi, mai più di una mezza dozzina, attorno alla tavola di una cucina accogliente e pittoresca, affollata di mobili, oggetti, pentole e, soprattutto sapori e profumi; qui, le ore trascorrevano deliziosamente lente a parlare del mondo e dell’umanità. L’ultima volta, in verità, è stato un pranzo. Per rispettare il distanziamento sociale, che gli appartamenti non sempre consentono, Roberto aveva suggerito un ristorantino non lontano da casa sua, alla Crocetta, ospitale già a partire dal nome, «Sorriso». Fuori, il 9 ottobre scorso, c’era un tiepido sole; alla fine del pasto, un abbraccio e un saluto in corso Re Umberto. «Speriamo di poterci rivedere prima di Natale».
Non sarà così. La notizia della morte è rimbalzata con il tam tam dei suoi ex «ragazzi» delle «province». Franchini, giornalista a La Stampa dal 1968, dopo un’esperienza nella redazione esteri era stato caporedattore delle edizioni provinciali; anzi, ne aveva guidato e coordinato il potenziamento e il lancio come redazioni distinte, con incremento di pagine ricche di notizie e servizi dei singoli territori. Era nato a Verona. Dopo l’università, aveva lavorato per il quotidiano locale L’Arena, poi era approdato a La Stampa a Torino. Io cominciai a collaborarvi nel 1989, allora come corrispondente da Casale e dal Monferrato, dopo circa una decina d’anni di esperienza nei giornali locali. Era in pieno svolgimento la rivoluzione delle edizioni provinciali del quotidiano torinese, anche sotto l’aspetto grafico e, in ogni capoluogo, venivano organizzati eventi per spiegare ai lettori le novità. Al Teatro Comunale di Alessandria incontrai personalmente Roberto per la prima volta. Ma, in precedenza, il suo nome era echeggiato più volte al telefono, quando mi chiamavano dalla redazione di Alessandria: «Franchini vuole un pezzo su…». Mi occupavo principalmente di cronaca nera e giudiziaria, e poi tutto quel che capitava, specialmente ciò che, tra giornalisti, viene etichettato come «notizia curiosa». Mi arrivò, un giorno, una richiesta molto «curiosa»: «Franchini dice che a Casale c’è uno che alleva un animale nato da un incrocio tra una tartaruga e una lucertola. Vuole un pezzo». Ok, dove lo trovo? «E’ quello che devi scoprire». Clic, fine telefonata. Che fosse uno scherzo non lo pensai neppure per un attimo. E meno che meno pensai che avrei disatteso la richiesta del caporedattore di Torino: chissà come l’aveva saputo! Una cosa la davo per certa: se l’aveva detto, era perché era vero. Ma dove trovare quella «bestia» così strana e inquietante in una città di circa 40 mila abitanti, con aggiunta del circondario? Beh, la bestia la trovai, insieme al tizio che ce l’aveva, e scrissi il pezzo.
Quando, dunque, incontrai Franchini al Teatro Comunale qualche tempo dopo, lui, che era sul palco, si chinò verso di me. Aveva una voce profonda, autorevole e rassicurante, ma io provavo un’enorme soggezione. Mi disse: «E così, l’hai trovata la tartaruga-lucertola (o lucertola-tartaruga, mah!): brava!». Mi sentivo semplicemente sospesa un metro da terra per quel complimento sottolineato dal suo sorriso incoraggiante.
Roberto aveva una stazza imponente e un portamento signorile. A me ricordava Tino Buazzelli e Nero Wolfe: io apprezzavo moltissimo entrambi, attore e personaggio, per l’intelligenza arguta e lo stile. Un giorno glielo dissi, a lui non dispiacque affatto il paragone.
Uomo di profondo rispetto delle libertà e dei diritti, fu molto impegnato anche nel sindacato. Al congresso nazionale della Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana) al Tanka Village di Villasimius, nel 1996, io facevo parte della delegazione piemontese. I più autorevoli erano Roberto Franchini e Cesare Roccati. Alla sera, dopo cena e fino a notte, noi giovani, molti della Stampa, ma anche di altre testate, ci stipavamo in uno dei loro bungalow, ad ascoltare e discutere sui temi che si erano dibattuti nella giornata e su quelli del giorno successivo. All’assemblea conclusiva del congresso, si dovevano votare diverse mozioni e proposte. Una riguardava l’estensione di alcuni benefici, di cui già godevano i coniugi dei giornalisti, anche ai partner di chi non era formalmente sposato. Davanti a noi, un collega di non so dove, si alzò e cominciò animatamente a discutere contro l’ipotesi di includere le coppie omosessuali: era per il sì a quelle etero, no a quelle omo. La polemica suscitò una forte animazione in sala, con schieramenti pro e contro. Quando il giornalista, estenuato dopo il vivace argomentare, si sedette, Roberto, che ce lo aveva proprio davanti, si sporse e lo toccò delicatamente su una spalla sussurrando con garbo pacato: «Guarda, collega, che, se voti questa mozione anche a favore delle coppie omosessuali, non sei poi obbligato a diventarlo anche tu!».
Quando diedi l’esame di Stato da professionista, preparai una tesina sulla storia del cemento a Casale. Gliene spedii in anteprima una copia per avere un suo parere. Mi telefonò e si complimentò, aggiungendo qualche suggerimento: «Tu citi Gualino, bel personaggio Gualino». Era coltissimo, sapeva di tutto, senza nessuna ostentazione. «Potrebbero chiederti qualcosa su di lui, preparati». Accipicchia: me lo chiesero. E io feci una bella figura.
Franchini andò in pensione a metà anni Novanta; fu organizzato un incontro conviviale con tutti i redattori e alcuni collaboratori delle sedi provinciali in un ristorante dell’Astigiano. Doveva essere una festa a sorpresa; arrivammo tutti in anticipo; qualcuno ebbe l’incarico di prelevare, con un pretesto, Roberto, a fine giornata, dalla redazione di Torino e di scortarlo fin lì. Se aveva mangiato la foglia, non lo diede a vedere, neppure quando, nel parcheggio del locale, trovò un’esposizione di auto Fiat, le sole all’epoca in dotazione ai redattori della testata. Al momento dei saluti, eravamo tutti commossi. Sull’uscio, mi avvicinai timidamente, volevo dirgli grazie e non so che altro. Invece, istintivamente, gli buttai le braccia al collo come una figlia a un padre: «Ci mancherai» gli sussurrai con un nodo in gola.
Ecco, anche adesso: Roberto, mi mancherai.
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Delicato dolcissimo congedo.Brava
Grazie Silvana , lo leggo solo ora, scusami, ….e mi commuovono le tue parole su papà.