SILVANA MOSSANO
Il 15 marzo 2012 moriva Marco Giorcelli. Il suo ultimo soffio di respiro alle 7 di quel mattino. Per quattordici mesi aveva convissuto con il mesotelioma pleurico o, meglio, con la consapevolezza della malattia conclamata. In realtà, chissà da quanti anni ce l’aveva addosso, ignaro come tutti quelli che ne sono colpiti. Il mesotelioma è il cancro dell’amianto, caratterizzato da lunga latenza rispetto al momento in cui la fibra si è insinuata; silente subdola e paziente, tesse con perfidia la sua tela.
Oggi sono dieci anni esatti dalla sua morte.
Marco Giorcelli non ha mai lavorato all’Eternit, quindi non ha mai maneggiato l’amianto per motivi professionali. E’ stato un ottimo studente al liceo Classico Balbo e si è laureato in Lettere Moderne all’Università di Torino. E’ stato un brillante giornalista da quando aveva diciotto anni e, per diciannove, dall’età di 33 fino alla fine, è stato intelligente e appassionato direttore del bisettimanale «Il Monferrato». Il «suo» giornale.
Marco Giorcelli è morto all’età di 51 anni.
Marco Giorcelli è tra i 392 nomi elencati nel capo di imputazione del processo Eternit Bis, che si svolge in Corte d’Assise a Novara: quel numero – 392 – è un campione (in difetto) delle vittime d’amianto di Casale e dintorni. Sono molte di più.
Marco Giorcelli era mio marito.
Ma io non mi sono costituita parte civile.
Perché?
1 – Non ho fatto nessuna transazione per ottenere dall’imputato Stephan Schmidheiny un risarcimento stragiudiziale . E’ una opportunità legittima, che ciascuno sceglie (o ha scelto) liberamente di perseguire o no. In caso affermativo, si rinuncia a costituirsi parte civile. Io no: non ho chiesto e, quindi, neppure ho ricevuto un centesimo.
2 – Un altro motivo per cui non ci si costituisce è che, pur essendo affettivamente e fortemente legati a una vittima, manca un vincolo di parentela che conferisca il diritto a essere parte civile. Io, invece, ne avrei pieno diritto in quanto vedova della vittima.
3 – Un altro motivo per cui si potrebbe decidere di non costituirsi parte civile è per la scarsa fiducia che si arrivi a un pronunciamento definitivo di responsabilità dell’imputato e ai risarcimenti disposti da un giudice: una scarsa fiducia potrebbe essere comprensibilmente motivata anche dalla delusione maturata in molti dopo il maxiprocesso Eternit, che fu spazzato via dalla prescrizione. Ma io no: non ho perso la fiducia che, prima o poi, una sentenza sancisca, in modo inequivocabile, che un torto è stato subito dalla nostra collettività e che qualcuno quel torto l’ha commesso, causando – dolosamente o colposamente lo dirà una Corte – centinaia e centinaia di vittime.
E quindi?
Ho scelto di non costituirmi parte civile perché sono animata da una ostinata e perseverante (si dica pure: anche ingenua) speranza che questa tragedia trovi una possibile pacificazione attraverso un pentimento. E scevra da qualsiasi ricatto di eludere il processo penale.
Ho atteso – fiduciosa, e poi, lo ammetto, frustrata – che l’imputato Stephan Schmidheiny comparisse in aula anche all’ultimo minuto, un attimo prima dei verdetti che si sono susseguiti nel maxiprocesso Eternit a Torino: l’ho atteso il 13 febbraio 2012 all’epilogo del primo grado di giudizio (davanti al monitor del computer, aperto sul tavolo di cucina, in connessione streaming: Marco era già ormai molto debole e io non lo lasciavo solo neppure un istante); e poi il 3 giugno 2013 in Corte d’Appello; e, ancora, il 19 novembre 2014 in Cassazione a Roma. Un imputato ha diritto all’ultima parola. Può scegliere di non sottoporsi a interrogatorio, ma comunque rilasciare spontanee dichiarazioni: e può dire quello che vuole, la propria versione dei fatti, le proprie scuse. Niente. Non si presentò.
Poi è partito il procedimento Eternit Bis, che è stato frazionato in diversi filoni, tra cui quello più consistente che si svolge in Corte d’Assise a Novara, appunto per 392 morti d’amianto a Casale e dintorni.
E io non ho perso la speranza che Schmidheiny si penta.
Sono consapevole di non avere largo seguito in questo mio risoluto obbiettivo e in questo tenace anelito, ma non trovo altra via di pacificazione per questa lunga sofferenza che ha colpito la mia terra e la mia gente.
Io, che anche a scavarmi l’anima e a impuntarmi su ragioni oggettive, non riesco a coltivare il rancore, ho bisogno di un atto di pacificazione. Mi permetto di dire che, stremati dal dolore, ne abbiamo bisogno, tutti.
Per arrivare a questo serve un cambio di passo gigante da parte dell’imprenditore svizzero. Deve uscire dal suo fortino protettivo, dobbiamo guardarci negli occhi.
E potrebbe parlare così: «Io, Stephan Schmidheiny, non volevo uccidere queste persone, ne sono addolorato profondamente, ma non ero totalmente consapevole che l’amianto potesse arrivare a compiere questo stillicidio di morte». Vabbé, bisogna ignorare gli studi scientifici già condotti all’epoca, il convegno di Neuss da lui convocato, i manuali di mistificazione messi a punto e attuati dal suo staff…
Ma andiamo avanti, l’obbiettivo è più alto.
Schmidheiny potrebbe proseguire così: «E’ tuttavia incontestabile che l’amianto l’ho lavorato nelle mie fabbriche, quando, comunque, non era vietato dalla legge». E’ così, anche se dall’imprenditoria del settore non mancarono propaganda e pressioni affinché i Governi (in Italia e altrove) rimanessero a lungo tiepidi o sordi.
Ma andiamo avanti, l’obbiettivo è più alto.
Ancora Schmidheiny: «E’ vero, pur non essendo vietato, io e altri industriali del settore abbiamo ignorato gli allarmati e avvertimenti scientifici (che si sono rivelati fondati) e abbiamo continuato a usarlo fino a che non è stato proibito dalla legge».
E quindi? E adesso? E, quindi, adesso, signor Schmidheiny compia un atto nobile: chieda perdono a tutti noi che abbiamo sofferto e soffriamo. E’ impegnativo, ma indispensabile. E’ il momento per farlo, dopo tanti anni. Per noi, per lei.
E ci aiuti nell’unico modo possibile: investendo le risorse che servono per finanziare la ricerca affinché si trovi in fretta, il più in fretta possibile, una cura. Quante risorse? «Whatever it takes», «Tutto ciò che è necessario».
Non un po’ di milioni buttati lì, «fatene quel che volete, ma lasciatemi stare», no. Serve un organismo – una fondazione o altro – coordinato da lei: come ha dato prova di essere un capace imprenditore (ho sinceramente ammirato il suo impegno per aiutare le popolazioni dell’America latina), se ne metta a capo per individuare e ingaggiare i migliori scienziati nel mondo che, senza liti di bandiera e di vanità (cui con tristezza talora abbiamo assistito!), trovino la terapia risolutiva. Una cura per guarire. Pensi: a Casale Monferrato e nel mondo. Di questo risultato salvifico potrà essere fiero.
Ecco perché non mi costituisco parte civile: perché non perdo la speranza e la limpidezza mentale di mantenere questo canale aperto. Soffro, in quel processo, ma il risarcimento che chiedo a Schmidheiny è molto più di quello che potrebbe riconoscere a me personalmente un giudice.
Nel frattempo, il processo (i processi) fa (faranno) il proprio corso. Questa si chiama giustizia. E i giudici, ne sono certa, ne terranno conto in quello che viene definito «comportamento processuale».
E se Schmidheiny domandasse: «E io che cosa ne guadagno, se tanto il processo prosegue?», questa sarebbe la risposta: «Guadagna sé stesso, signor Schmidheiny, senza la scorciatoia di una contropartita; guadagna la sua pace interiore che, in caso contrario, qualunque siano gli esiti dei processi (quelli in corso e altri che potrebbero essere intentati) non avrà mai, finché vive. E’ la sua grande occasione di riscatto».
Solo a un sincero e fattivo pentimento può seguire un perdono.
Io, parte lesa, attendo il suo passo, con la mente libera e con la mano tesa.
* * *
Il processo Eternit Bis a Novara riprende domani, mercoledì 16 marzo: saranno ascoltati, come testimoni, 33 famigliari convocati dalla difesa.
* * *
Quelli che seguono sono due brani per me significativi.
Il primo è l’editoriale che Marco pubblicò, il 31 gennaio 2011, sul giornale che dirigeva dopo che gli fu confermata la diagnosi di mesotelioma. Si intitolava: «Malato d’amianto, ora casalese doc!».
Il secondo è l’ultimo breve capitolo del mio libro «Malapolvere» (Edizioni Sonda) uscito il 10 dicembre 2010. A ispirarmi, nella stesura di quel libro, fu il dolore per la mia gente, di cui ho cominciato a scrivere nel 1984, e non, in quel momento, il caso personale: allora Marco (mentre io scrivevo «Malapolvere») stava benissimo, non c’era nessunissima avvisaglia del male che gli fu invece diagnosticato, sorte malvagia e beffarda, poche settimane dopo. Dopo aver letto la bozza, ignaro del suo imminente destino mi disse: «E’ bello, brava, ma è così doloroso che non lo consiglierei al mio migliore amico».
Un caro grande ricordo all’Amico Marco testimone e martire di un periodo buio del nostro territorio . Riposa in Pace e Grazie . Ciao Marco
Questa tua lunga riflessione condotta con grande ed equilibrata serenita’,mi lascia spiazzato
Mi insegni che non e’ la vendetta o la giusta rivendicazione a produrre equilibrio non solo psicologico ma anche fisico in noi.Mi hai semplicemente ed oggettivamente introdotto in questa triste e drammatica pagina della storia socialr r lavorativa della nostra piccola e oramai anche povera citta’.Oggi avro’ un ricordo orante per MARCO.Tu continua a lottare armata solo di speranza, solo cosi’ potrai continuare a trasmettere in chi ti legge quella forza interiore che ha la capacita’ di conservare e soprattutto vivere la MEMORIA di chi e’ stata vittima dell’ingordigia e della prepotenza di chi si sente(!) vincitore solo perche’ padrone di un forziere fatto di potere economico simile a queĺlo di Paperon de’ Paperoni.Grazie con un fraterno abbraccio. Don Giuseppe
Silvana sei una meravigliosa e intelligente giornalista, rappresentante perfetta della realtà, perfetta la tua speranza e attesa di pentimento…è anche nei nostri cuori…la proposta di impegno per la ricerca è essenziale e obbligata….il ricordo di Marco …per chi ha avuto.la fortuna di conoscerlo…è una pura emozione affiancata da affetto….grazie mia cara Silvana ..per la bellezza con cui non ci fai perdere la memoria….e ci fai tenere vivo il dolore …perché il d’ore ci impegna a pretendere un mondo migliore..
Silvana, un abbraccio grande e una lacrima
Silvana,
ti lascio questo messaggio che Vittorio Turino mi scrisse nove anni fa, un anno dopo la dipartita di Marco. Un abbraccio.
***
Caro Alberto, sembra ieri –come sempre si dice quando i ricordi ti prendono la mano e per scrivere intingi la penna in quel vecchio malandato, bistrattato, ma immenso calamaio che è il cuore- che vidi accanto a me, nella glaciale cabina del Natal Palli, un ragazzino allampanato e magro come la quaresima; sembrava frastornato da quella atmosfera un po’ goliardica della “stampa” ; in realtà era solo timidezza. Mi colpì subito la sua educazione e l’attenzione con cui seguiva le nostre parole, soprattutto le mie. Ad un certo punto il discorso , stimolati da una collega che si lamentava della rigidezza dei redattori del suo giornale, cadde sull’importanza delle parole, e sull’attenzione che si deve sempre provare con i verbi.
Io citai al proposito l’episodio notissimo del decimo canto dell’Inferno quando Cavalcanti Cavalcante incontra Dante e Virgilio e preoccupato per l’assenza del figlio Guido…
“piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? E perché non è teco?” »
« E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno” »
« Come?
Dicesti elli ebbe? Non viv’elli ancora? »
Dove quell’ “ebbe”, per Cavalcanti stava a significare che il figlio Guido non era più:
Ma al momento di recitare, per completare il concetto con un’esibizione mnemonica, ebbi un lapsus…e rimasi muto; alla qual cosa rimediò il giovane magro e allampanato come la quaresima che, senza enfasi e quasi con l’aria di scusarsi , sottovoce lo recitò…
Nacque lì la nostra amicizia, e poi la nostra collaborazione mai interrotta; lui mi dava –in virtù dei miei vent’anni in più- del lei ed io del tu; e seppi , qualche tempo dopo, che suo papà era il Maestro che mi aveva guidato nelle colonie elioterapiche sui ghiaioni del Po.
“Allora abitava al Rotondino dove tutti lo chiamavano con deferenza non con il nome ma “ al Maestru”; Un giorno, il sole al tramonto stava incendiando ormai le acque del Po, disse a mia nonna che mi minacciava con una zoccola in mano per via di mie certe intemperanze. “Cara Linda è un po’ birichino, anzi no birichino: è molto vivace, ma è il più “uis” di tutti….” E il più bel complimento che abbia mai ricevuto (anche se qui al Maestru aveva peccato di generosità…” ).
Come non condividere. L’odio non risolve nulla ma inasprisce gli animi. Certo che non è facile accettare tutto questo. Con grande ammirazione ti abbraccio.
Grazie cara Silva.
Silvana,
ti lascio questo messaggio che Gianni Turino mi scrisse nove anni fa, un anno dopo la dipartita di Marco. Un abbraccio.
***
Caro Alberto, sembra ieri –come sempre si dice quando i ricordi ti prendono la mano e per scrivere intingi la penna in quel vecchio malandato, bistrattato, ma immenso calamaio che è il cuore- che vidi accanto a me, nella glaciale cabina del Natal Palli, un ragazzino allampanato e magro come la quaresima; sembrava frastornato da quella atmosfera un po’ goliardica della “stampa” ; in realtà era solo timidezza. Mi colpì subito la sua educazione e l’attenzione con cui seguiva le nostre parole, soprattutto le mie. Ad un certo punto il discorso , stimolati da una collega che si lamentava della rigidezza dei redattori del suo giornale, cadde sull’importanza delle parole, e sull’attenzione che si deve sempre provare con i verbi.
Io citai al proposito l’episodio notissimo del decimo canto dell’Inferno quando Cavalcanti Cavalcante incontra Dante e Virgilio e preoccupato per l’assenza del figlio Guido…
“piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? E perché non è teco?” »
« E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno” »
« Come?
Dicesti elli ebbe? Non viv’elli ancora? »
Dove quell’ “ebbe”, per Cavalcanti stava a significare che il figlio Guido non era più:
Ma al momento di recitare, per completare il concetto con un’esibizione mnemonica, ebbi un lapsus…e rimasi muto; alla qual cosa rimediò il giovane magro e allampanato come la quaresima che, senza enfasi e quasi con l’aria di scusarsi , sottovoce lo recitò…
Nacque lì la nostra amicizia, e poi la nostra collaborazione mai interrotta; lui mi dava –in virtù dei miei vent’anni in più- del lei ed io del tu; e seppi , qualche tempo dopo, che suo papà era il Maestro che mi aveva guidato nelle colonie elioterapiche sui ghiaioni del Po.
“Allora abitava al Rotondino dove tutti lo chiamavano con deferenza non con il nome ma “ al Maestru”; Un giorno, il sole al tramonto stava incendiando ormai le acque del Po, disse a mia nonna che mi minacciava con una zoccola in mano per via di mie certe intemperanze. “Cara Linda è un po’ birichino, anzi no birichino: è molto vivace, ma è il più “uis” di tutti….” E il più bel complimento che abbia mai ricevuto (anche se qui al Maestru aveva peccato di generosità…” ).
Chi ha avuto familiari colpiti dalla fibra killer si sente impotente nell’aiutare i propri cari, perché si è consapevoli che non c’è soluzione. Mio fratello Domenico all’età di 56 anni ha avuto la terribile diagnosi “mesotelioma pleurico”. È sopravvissuto 18 mesi e nonostante l’operazione non ce l’ha fatta. Dopo l’operazione a chi gli chiedeva “come va?”, rispondeva “oggi bene, ma chissà quanti domani ci saranno…”. È terribile. Schmidheiny aiuti la ricerca, perché la fibra colpisce ancora.
Ciao Silva, ti dico solo che mi hai commosso…mio padre fu una vittima senza mai aver lavorato all’ Eternit.Una preghiera per l’amico Marco e per tutte le vittime del mostro ancora purtroppo imbattibile.
Cara Silvana ci uniamo con affetto al ricordo di Marco, le tue parole rispecchiano benissimo la piccolezza di persone che purtroppo “per loro” hanno dimenticato i veri valori …….di umanità, rispetto, amore, di una presa di coscienza che aiuterebbe qualsiasi individuo a vivere meglio ……Ciao Marco
Silvana, ti confesso che in prima battuta non sono riuscita ad andare molto avanti nella lettura delle tue parole, mi prendeva un groppo in gola, soprattutto arrivata alla lettera di Marco, dovevo interrompere. Oggi, poco alla volta, sono arrivata all fine, lo dovevo a Marco, che ho conosciuto e stimato, un caro amico di cui ho conosciuto le sofferenze e che ci ha lasciati troppo presto, ingiustamente. Ammiro la tua forza, la tua determinazione e la tua nobile speranza.