«L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti» – autore Beniamino Andrea Piccone edito da Il Sole 24 ORE, marzo 2019 pp. 259
In una frase: l’Italia era riuscita a diventare una delle nazioni più ricche del mondo e poi si è fermata. Che cosa bisogna fare per ripartire davvero?
«L’efficienza non è – e non può essere – l’unico elemento che regola la vita. C’è un limite oltre il quale il profitto diventa avidità e chi opera nel libero mercato ha il dovere di fare i conti con la propria coscienza. Il perseguimento del mero profitto, scevro da responsabilità morale, non ci priva solo della nostra umanità, ma mette a repentaglio la nostra prosperità a lungo termine» (p. 250). Ho riportato la terzultima delle numerosissime citazioni presenti in questo libro: sono parole pronunciate da Papa Francesco? No, le disse Sergio Marchionne nel 2016.
Beniamino Andrea Piccone ha terminato il volume poco dopo la morte di Marchionne (25 luglio 2018), all’atto della pubblicazione il Covid-19 non era ancora stato individuato, la Fca e la Peugeot non avevano ancora costituito la Stellantis e il potere esecutivo del nostro Paese era affidato al Governo Conte I.
Il caso si è dimostrato benigno. La lettura di «L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti» mi sembra infatti molto utile, forse indispensabile, per comprendere meglio il passato e farsi un’idea dell’occasione davvero straordinaria rappresentata dal cosiddetto «Recovery Plan», il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che il governo Draghi sta cercando di concretizzare.
L’autore analizza, negli otto capitoli di questo saggio, la parabola dell’economia italiana, dal 1861 a oggi, compiendo una sintesi chiara e con un linguaggio accessibile e supportando costantemente il suo pensiero con le parole dei protagonisti (politici, studiosi, imprenditori, giornalisti, sindacalisti).
Nei primi due capitoli, «Il risparmio per gli italiani» e «La ricchezza degli italiani», Piccone si sofferma sulla propensione al risparmio delle famiglie italiane e sugli impieghi delle risorse risparmiate.
La propensione al risparmio era maturata a tal punto nel corso dei decenni (dopo il periodo della grande povertà dell’Italia postunitaria) che Luigi Einaudi, nel 1946, quando era ancora Governatore della Banca d’Italia e due anni prima di essere eletto presidente della Repubblica, scrisse: «I risparmiatori salvarono il Paese dall’estrema rovina» (p.7), riferendosi ai primi terribili mesi successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Bellissimo l’aneddoto, ripreso da uno scritto di Ennio Flaiano, riferito a una cena non ufficiale al palazzo del Quirinale durante la presidenza Einaudi. «Il Presidente sembrava un nonno felice di rivedere i nipoti lontani. Ma eccoci alla frutta. Il maggiordomo recò un enorme vassoio … c’era di tutto … e tra questi frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò e disse: “… prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che vuole dividerne una con me?”».
Risparmio, e non sterile taccagneria, piuttosto ancora di salvataggio di un popolo che aveva fatto i conti con la miseria, quella vera, e in molti il ricordo dello stato di indigenza era ancora vivo: non si buttava via nulla, si risparmiava su tutto. Tra il 1861 e il 1961 in Italia nacquero 70 milioni di persone, 20 milioni di esse emigrarono in cerca di sopravvivenza. Negli ultimi 10 anni dell’800 emigrarono 280.000 italiani all’anno, su una popolazione di 30 milioni.
Risparmio frutto anche della paura di tornare poveri ed emigranti? Certo che sì! «Si fatica oggi a capire quanto fosse povero il Piemonte in quegli anni». (p. 15) Emblematica la storia di emigrazione della famiglia del futuro Papa Francesco (i nonni Giovanni e Rosa e il padre Mario). Mario, appena diplomato ragioniere, era stato assunto alla Banca d’Italia, filiale di Asti, e si era dimostrato «molto diligente e laborioso e di produttività ben degna di encomio», tuttavia lo stipendio era di 300 lire mensili, modesto, e comunque non sufficiente a controbilanciare lo scarso rendimento dell’attività commerciale dei genitori, così Giovanni decise di raggiungere i fratelli in Argentina.
Il tasso di risparmio degli italiani, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, ha cominciato tuttavia a ridursi, fino a scendere al di sotto a quello di Francia e Germania; in parte la ragione è da ricercare nello sviluppo del settore finanziario con l’ampliamento delle possibilità di ottenere prestiti a tassi di interesse ridotti rispetto al passato. Un altro motivo è certamente la mancata crescita economica successiva alla «Grande Recessione» (2008-2009) e la conseguente compressione del reddito disponibile: insomma, le famiglie hanno risparmiato meno per non abbassare più di tanto il tenore di vita.
La ricchezza (cioè il risparmio investito) degli italiani era in passato costituita soprattutto da beni immobili (ancora il 66% nel 2013); spinta anche dal deprezzamento del mercato immobiliare continua la tendenza al riequilibrio con altre forme di investimento (i dati 2017 della Banca d’Italia stimavano nel 50% la quota di ricchezza delle famiglie italiane investita in immobili).
Si tratta di un tema delicato: da qualche anno, i depositi bancari, i «classici» Bot e Cct e Buoni Postali rendono «zero virgola» oppure «zero e basta», i tassi sono in alcuni casi negativi e i costi elevati, in forte aumento proprio in questi mesi del 2021.
Piccone svolge anche attività di private banker, vale a dire consulente finanziario, pertanto non stupisce che riporti argomentazioni di autorevoli economisti a sostegno di forme di «risparmio gestito» (per semplicità: fondi di investimento). Si tratta di alternative che comunque stanno incontrando gradimento crescente.
Il secondo capitolo si chiude con l’analisi di due fenomeni che, contemporaneamente, spiegano e minacciano una parte della ricchezza degli italiani: l’elevato debito pubblico e la diffusa evasione fiscale. La sottolineatura di Carlo Cottarelli (nel 2018) è un macigno: «Chi paga le tasse ne paga tante, ma perché troppi non le pagano affatto (…), se avessimo evaso solo il 7% del PIL, invece dell’8% negli ultimi quarant’anni, oggi potremmo ridurre del 20% le aliquote degli onesti».
I capitoli dal terzo al settimo sono dedicati all’evoluzione storica della figura dell’imprenditore, dell’impresa e delle attività finanziarie nella crescita economica. E’ la parte che mi è piaciuta di più, l’ho trovata originale e avvincente: una vera scoperta, per me, è stato il pensiero di Benedetto Cotrugli, mercante (oggi diremmo imprenditore), cittadino della Repubblica di Venezia originario di Ragusa (oggi Dubrovnikc, Croazia), che nel 1458 scrisse «Il libro de l’arte de la mercatura», riflessioni, precetti e ammonimenti che Piccone sintetizza sulla base di una precisa convinzione: «Benedetto Cotrugli andrebbe studiato con attenzione dai nostri imprenditori – purché non siano tra quei sei italiani su dieci (fonte Istat) che non leggono neppure un libro all’anno – poiché il messaggio da lui trasmesso è sempiterno» (p.66).
Ecco alcuni capisaldi del pensiero di Cotrugli: chiara consapevolezza del ruolo positivo dell’imprenditoria nella società e orgoglio per tale ruolo; incompatibilità tra esercizio dell’imprenditoria ed esercizio del potere politico; l’imprenditore deve essere un buon cittadino, il buon cittadino non nasce dall’imprenditoria, è piuttosto il buon imprenditore che nasce dal buon cittadino; l’imprenditore non deve soltanto accumulare, ma deve essere generoso e impiegare positivamente ciò che accumula; la temperanza è una virtù cardinale dell’etica imprenditoriale, essa significa il giusto mezzo in ogni manifestazione, dallo spendere bene al mangiare, al vestire, al partecipare ad attività ludiche, alla moderazione nel parlare.
Molto interessante il quinto capitolo, nel quale viene descritta quella che Picone definisce «la posizione ambivalente» della Chiesa Cattolica «nei confronti del denaro», partendo dalla dura critica di Giovanni Spadolini che, nel 1969, direttore del Corriere della Sera (sarà poi il primo presidente del Consiglio non democristiano nella storia della Repubblica), scriveva: «Prestate senza speranza di riavere, ammonisce il Vangelo di Luca. Nessuna speranza di profitto, di speculazione o di ricchezza: importa solo la condizione eguale testimoniata da San Paolo, l’eguaglianza che deriva dal sacrificio dei ricchi e dall’elevazione dei poveri. L’unica dottrina economica, presupposta dal cristianesimo, è quella della privazione: rinunciare al superfluo».
Giovanni Spadolini, riferendosi a papa Paolo VI, aveva coniato la definizione di «papato socialista». Quelli erano tempi in cui la conoscenza delle effettive condizioni di miseria di gran parte della popolazione mondiale era molto limitata, anche da parte di personaggi di notevole levatura culturale e non solo per «l’opinione pubblica», le percezioni erano indirette e mediate dai pochi missionari e volontari, i fenomeni migratori erano sconosciuti e il mondo era diviso «solo» in due parti ben definite : Usa-Urss.
«Che fine ha fatto il capitalismo italiano?» è il titolo del sesto capitolo, ricco di storie, aneddoti e sorprese. Cito «Le 10 regole dell’imprenditore», vademecum scritto da Leopoldo Pirelli nel 1986, che evidentemente doveva aver letto il libro di Benedetto Cotrugli; una frase: «Sono convinto che un imprenditore debba essere onesto nel senso più alto della parola (…), penso che – a parte ogni principio morale – l’essere onesto paghi, sia l’imprenditore come persona, sia l’azienda che egli dirige». (p.178).
L’ultimo capitolo, a dispetto del titolo: «Fattori di arretratezza storica», non si limita ad analizzare punti di debolezza. Prezioso lo spunto a pag. 228: «Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica dell’opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili fosse ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo». Sono parole di Aldo Moro, pronunciate il 28 febbraio 1978, 16 giorni prima del suo rapimento da parte delle Brigate Rosse.
«Non è cambiato molto da allora» scrive Piccone nel 2018, aggiungendo: «L’Italia ha bisogno di azioni di struttura condivise da tutto il quadro politico»: ciò è ancor più vero oggi, proprio per non vanificare le risorse del Recovery Plan.
Anche se «le grandi imprese private non hanno saputo trainare il Paese» (pp. 206 e 249), non sono stati tuttavia pochi gli imprenditori eccellenti che sono stati capaci di combinare al meglio i fattori di produzione e migliorare la competitività, affacciandosi con successo sui mercati internazionali, e conquistando invidiabile leadership nei propri settori: si tratta delle cosiddette «multinazionali tascabili», contraddistinte dalla capacita di realizzare investimenti soprattutto con capitale proprio, indice di buona salute finanziaria.
Accanto a questi imprenditori «ci deve essere un’economia sociale di mercato capace di interpretare i tempi che stiamo vivendo. Uscire dall’invidia, dal rancore e dalla nostalgia». (p.251).
Finale: Beniamino Andrea Piccone ha scritto un libro godibile in tutte le sue parti, riportando anche testimonianze di chi, come me, non crede ciecamente nella capacità del «mercato» di autoregolarsi per la salvaguardia del bene comune. La struttura agile del saggio invita il lettore ad approfondire temi specifici, e anche questo è un merito dell’autore. I frequenti riferimenti al pensiero di Luigi Einaudi e Paolo Baffi (Direttore Generale della Banca d’Italia dal 1960 e poi Governatore della stessa istituzione dal 1975 al 1979) sono focalizzati su due priorità del comportamento e valgono davvero per tutti: evitare assolutamente gli sprechi e controllare rigorosamente i conti.
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