SILVANA MOSSANO
Siamo abituati a pensare in termini numerici: ai numeri chiediamo la misura della distanza spaziale, dei decibel di rumore, dell’intensità della luce, della quantità di persone in una piazza. E i numeri sono anche lo strumento con cui si finisce per valutare le tragedie e quasi a stilarne una graduatoria di gravità.
Tre i vigili del fuoco morti nello scoppio criminale di Quargnento, mentre svolgevano il loro lavoro, il 5 novembre 2019. Centinaia e centinaia le vittime dell’amianto nel Casalese per una scellerata diffusione di fibre che si sapevano cancerogene e mortali. Quarantatre i morti nel crollo del ponte Morandi, il 14 agosto 2018, a Genova.
Veniamo ai giorni nostri, alla tragedia del Mottarone: 14 morti. Immediata è stata la ricerca, nella memoria e negli archivi, per un parallelo. Rimaniamo solo ai fatti italiani: 9 marzo 1976, vicino a Cavalese, in Trentino, a causa di un incidente tecnico precipita una cabina della funivia del Cermis, 42 morti; 13 febbraio 1983, a Champoluc, in Valle d’Aosta, precipitano tre cabine dell’ovovia che porta al Crest, 13 morti; 3 febbraio 1998: un aereo dei marines Usa di Aviano trancia un cavo della funivia del Cermis, facendo precipitare nel vuoto una cabina: 20 morti.
La prima reazione al dramma, sempre, è un misto di orrore e paura perché, istintivamente, ciascuno di noi nell’inconscio, foss’anche soltanto per la frazione di un attimo, si immedesima e sperimenta il terrore di quell’istante disperato e irreversibile. Si pensa al tempo sconfinato e breve dell’ultimo attimo vitale e a quello che si sarebbe potuto o voluto fare: gridare ti amo, urlare ho paura, supplicare Dio-mio-no, rimpiangere quel che si è sempre rimandato.
Dopo l’iniziale scalpore, si allarga negli animi l’empatia emotiva con chi resta a piangere le vittime e anche con chi è sopravvissuto e, appena si sveglierà dal sonno farmacologico, dovrà affrontare il dolore sconfinato delle assenze, dei sensi di colpa – «perché io sono vivo, e lui no?» -, dei recuperi psicofisici, del ribaltamento della propria esistenza.
Ma l’emotività post tragedia ci mette pochissimo a compiere un ulteriore passo avanti, cercando bramoso nutrimento nella rabbia.
Scatta, feroce e inesorabile, la ricerca del capro espiatorio: un colpevole (o più colpevoli) che paghi. E’ subito avvenuto anche per la sciagura del Mottarone, sui giornali e sui social. E non sono tardati i pronunciamenti drastici e inappellabili di sentenze di ergastolo, talora con auspicata marcescenza perenne in galera.
Pur prendendo ampie distanze dalla legge del taglione (comunque sia formulata) e da certe diffuse e sbrigative smanie violente, ritengo comunque fondato e fondamentale il principio del «chi rompe paga». Scevro da propositi vendicativi, traduce l’anelito verso il concreto senso di giustizia che alberga in ciascuno di noi e a cui siamo stati educati. E’ uno dei presupposti fondamentali della convivenza e del rispetto reciproco.
Proviamo a rapportarlo alla tragedia del Mottarone. I giornali stanno ancora registrando le lacrime e annotando i nomi delle vittime ai tempi in cui erano felici e ignare del cupo destino e già annunciano, quasi in una sorta di automatismo, che «la procura ha aperto un’inchiesta». E’ una di quella frasi fatte che, spesso, si scrive dandola per scontata senza neppure una blanda verifica con il magistrato inquirente. Va da sé che «si apre un fascicolo».
Ora, un’inchiesta comporta sia accertamenti immediati e talora irripetibili e non rimandabili, sia altri più approfonditi e che impongono tempi maggiori. Nel caso del dramma di Stresa, gli elementi raccolti fin dalle prime ore e dai primi giorni hanno già fornito al procuratore di Verbania una suffragata convinzione di presunte ma corroborate ipotesi di responsabilità, tanto da disporre il fermo – pesante misura privativa della libertà – di tre persone. Stando alla lettura dei giornali, avrebbero ammesso una manomissione volontaria per non inceppare, in una così bella giornata di sole e di flusso turistico, il funzionamento della funivia (compromesso da un’avaria del sistema frenante di emergenza che perdurava da almeno un mese).
Al momento, i tre arrestati sono formalmente accusati di «omicidio colposo plurimo» e di «rimozione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro aggravata dal disastro». Le parole «omicidio» e «disastro» sono facilmente comprensibili. Sulle definizioni di «colposo» e «doloso», invece, spesso si fa confusione. Colposo significa che, pur non volendo nuocere (in questo caso: far morire), si è provocato un danno (qui: 14 morti e un ferito grave) per via di un comportamento negligente, imprudente, sprovveduto o in difformità delle leggi. Doloso, invece, significa che l’atto compiuto, o omesso, è stato deliberatamente deciso, voluto.
Siamo agli inizi dell’inchiesta. Soltanto al termine delle indagini, il procuratore, tenendo conto di tutti gli approfondimenti e le verifiche effettuate, deciderà se queste persone (magari non tutte o magari anche altre, oltre a loro) meritano di essere processate da un giudice che ne accerti, in definitiva, le concrete e oggettive responsabilità: cioè se c’è stata imprudenza o negligenza involontaria oppure se c’è la stata volontà di compiere un gesto da cui è derivata la tragedia tremenda. Soltanto a inchiesta finita, dunque, il procuratore indicherà di preciso di quali reati gli imputati dovranno dar conto.
Che qui ci siano il disastro e l’omicidio è fuor di dubbio; lo «dicono» quattordici morti: quattordici persone a cui uno scellerato «forchettone» (o forse due) ha tranciato di netto le vite fiduciose e felici.
Ma ciò su cui ci si troverà a discutere è il tipo di aggettivazione associata a quei reati: omicidio e disastro per colpa (cioè negligenza), per colpa grave e cosciente, per dolo (volontà) eventuale?
Quel forchettone, dalle prime battute che si leggono, non avrebbe dovuto essere dove è stato trovato; se non fosse stato collocato lì, forse si sarebbe potuto impedire quel mostruoso incidente.
La domanda: chi ha dato disposizioni di utilizzare il forchettone (e chi l’ha messo), per evitare inceppamenti della funivia che avrebbero limitato il flusso di persone (e di conseguenza gli introiti), si era rappresentato il rischio che una tragedia potesse accadere e, nonostante questa ipotetica previsione, ha accettato quel rischio e non ha fatto nulla per evitarlo? In questo consisterebbe la volontà di compiere il disastro e l’omicidio (e non certo nella volontà di ammazzare proprio quelle persone).
Ma non è tutto.
Il forchettone (o i forchettoni) ha messo fuori uso il sistema frenante di emergenza; ma, a monte, ancora è da accertare il motivo che ha causato il precedente troncamento del cavo d’acciaio. Quale dei due eventi – il troncamento del cavo o il manomesso freno di emergenza – è stato direttamente determinante per la strage?
L’argomento in bilico tra negligenza e volontà, di delicata e difficile disquisizione giuridica, riempirà l’aula di tribunale. Ci sarà un dibattito acceso tra consulenti tecnici: chi dirà che la tragedia è stata causata dalla recisione fatale del cavo e che il blocco del sistema frenante non è stato decisivo, e chi, al contrario, sosterrà che, pur dopo il troncamento della fune d’acciaio, se il sistema frenante d’emergenza non fosse stato volutamente bloccato avrebbe evitato le morti.
Sono argomenti complessi da comprendere e soprattutto, talora, da accettare quando, dalla qualificazione finale (colpa, colpa cosciente o dolo eventuale), dipenda un tipo di condanna ritenuta, «a pelle», non equa, o quando addirittura la mancanza di un convincimento «oltre ogni ragionevole dubbio» induca il giudice a decidere l’assoluzione, o, ancora, quando i tempi prolungati dei processi azionino la spugna della prescrizione, ovvero il nulla di fatto.
Tutto questo nel sacro tempio del diritto. Nel rispetto del diritto.
Ho trascorso così tante ore nelle aule giudiziarie da non permettermi di pensare e affermare che ciò sia sbagliato. Non si condanna nessuno se non si è certissimi che lo meriti e, quando lo si condanna, la ricostruzione del suo agire deve trovare una puntuale collocazione nella casella che un magistrato scrupoloso giudichi la più adeguata per infliggere un’eventuale pena.
Tuttavia, da non giurista, ma da cittadina qualunque mi sento di fare qualche semplice riflessione.
Si dice che l’emotività dovrebbe il più possibile rimanere fuori dai tribunali, perché potrebbe essere pericolosa e far pendere maldestramente la bilancia dell’equità. Vero. Ma, quando la consacrazione del diritto scavalca la giustizia (intesa come percepita e condivisa distinzione tra bene e male), capita di avvertire un senso di disagio profondo e una sorta di black out in quell’anelito di giustizia.
Quando il tecnicismo del diritto, talora spinto a esercizio di grande e dotto equilibrismo (anche affascinante!), prevarica la giustizia, si crea una umana sensazione di confusione, di rabbia, di smarrimento che aggravano il dolore e rompono la fiducia. Perché la giustizia (così come la felicità, l’amore, la salute, la convivenza pacifica, l’armonia, la tranquillità…) è l’anelito dell’uomo; il diritto, con le sue regole codificate e condivise, dovrebbe essere lo strumento per perseguire la giustizia.
Trovo difficile – e l’ho trovato difficile, anche se ne ho rispettosamente preso atto, al più grande processo per disastro d’amianto che si fosse mai celebrato – accettare che lo strumento (cioè il diritto) prevalga sul sacro fine perseguito (la giustizia). «In quest’aula, il diritto deve prevalere sulla giustizia»: disse così il procuratore generale della Cassazione, a novembre 2014. A volte, ci saremmo attesi una più coraggiosa interpretazione del diritto, per una più aderente applicazione alle novità del vivere e alle evoluzioni scientifiche.
E’ un errore, certo, aspettarsi che da un tribunale esca, attraverso la condanna, una compensazione al male provocato che plachi la sofferenza atroce che una tragedia come quella del Mottarone (e così anche molte altre) ha causato.
Non ci sarà mai una pena, quale che sia la sua misura, che ponga rimedio alle angosce estreme di quelle quattordici povere e belle persone e ai loro ultimi drammatici pensieri, che recuperi quelle esistenze troncate mentre sorridevano felici alla vita, che taciti l’urlo disperato di un bambino di 5 anni: «Lasciatemi stare, ho paura». Etian non ha paura dei soccorritori e dei medici, ma è spaventato per non avere lì accanto il suo papà e la sua mamma a proteggerlo come, per amore e piena convinzione, si erano impegnati solennemente a fare con lui.
E, allora, da cittadina qualunque, voglio immaginare che l’emotività non rimanga estromessa, che non sia seconda al diritto. Anzi!
Che quelle foto sorridenti e «vive» e quel terrore bambino entrino, eccome, nell’aula del tribunale. La inondino.
E non di meno scorrano, per sempre, davanti agli occhi di chi, sia per negligenza o peggio per volontà, le ha spente per sempre. Sarebbe un errore confondere questo con la vendetta, da cui, grazie a Dio, ho sempre avuto l’animo sgombro; credo, tuttavia, che quelle immagini, quei nomi, quell’urlo di Etian siano la prima cosa che deve guidare – insieme al diritto e al pentimento vero (primaria forza di pacificazione) – all’equità della giustizia, così come è umanamente percepita.
Nella foto, il luogo della tragedia. L’immagine è stata scattata dai Vigili del Fuoco, pubblicata da Ansa
Totalmente condivisibile . Brava ! Sempre un ‘ottima giornalista. Un abbraccio Paolo
Condivido pienamente: Bellissima e più che mai NECESSARIA analisi!
L’attuale normativa che regola i processi e le considerazioni delle garanzie per il “Diritto” e per l’affermazione della “Giustizia” (o per la buttarla “fuori gioco”), conferma tale forte NECESSITÀ. Anche una parte importante del mondo della Giustizia credo abbia molto bisogno di riflessioni atte a superare gli attuali squilibri tra Diritto e Giustizia e le attuali carenze anche organizzative e di mezzi al fine ,appunto Silvana, di CONSEGUIRE la Giustizia.
Cara Silvana, la penso come te. A volte la “giustizia” sa più di cinismo che di diritto. Perché si deve avere il diritto di sapere che le persone che hanno compiuto atti criminali sono state giustamente punite e chi volesse fare altrettanto, ci pensi prima di agire.
Voglio anch’io immaginare che l emotività non venga estromessa e che non sia seconda al diritto .
Sempre pienamente in sintonia col tuo pensiero