RECENSIONE
di SERGIO SALVI
«Per niente al mondo» di Ken Follett, traduzione di Annamaria Rafo, edito da Mondadori, prima edizione novembre 2021 pp. 699.
In una frase: romanzo geopolitico di stringente attualità.
Ken Follett inizia questa sua opera con una breve premessa: studiando le vicende della Prima guerra mondiale (stava preparando il romanzo «La caduta dei giganti», collocato in quel contesto storico) rimase scioccato nel rendersi conto che l’immane conflitto era stata una guerra voluta da nessuno. “Nessun leader europeo, dell’uno o dell’altro schieramento aveva intenzione di arrivare a tanto. Eppure, a uno a uno, imperatori e primi ministri presero decisioni – decisioni logiche e ponderate -, ognuna delle quali condusse, a piccoli passi, al peggior conflitto che il mondo avesse mai conosciuto. Mi sono convinto che si era trattato di un tragico incidente. E mi sono chiesto se sarebbe potuto accadere di nuovo.” (p.7).
“Per niente al mondo” comincia in Africa, nei pressi del lago Ciad. In un piccolo e poverissimo villaggio di pescatori, Tamara, agente della Cia, e Tab, dei servizi segreti francesi, hanno appuntamento con Abdul, altro agente Cia, che opera sotto copertura e con la missione di individuare il rifugio segreto del capo dei gruppi di terroristi del Nordafrica collegati all’Isis.
Nel villaggio, semivuoto, la povertà e la disperazione degli abitanti rimasti sono assoluti. A causa dei cambiamenti climatici, la superficie del prezioso bacino idrico si è ridotta da 25.000 a meno di 2.000 chilometri quadrati; le capanne, fino agli anni ’70 del secolo scorso, erano quasi lambite dall’acqua del lago, ora invece vi distano più un chilometro e mezzo.
Moltissimi degli abitanti hanno cercato di lasciare la zona, ma ne restano ancora milioni a rischio di morte per fame; tra coloro che vogliono partire c’è anche Kiah, giovane e bellissima vedova, madre di Naji, un bimbo di due anni. Il marito di Kiah era pescatore e aveva una sua barca: è stato ucciso durante una razzia dei jihadisti, Kiah ha venduto la barca e con il ricavato pensa di potersi pagare il viaggio per emigrare in Europa con il suo bambino.
Abdul è riuscito a individuare una base dei terroristi in Niger, anche se non quella principale, e ne dà coordinate a Tamara e Tab. Poi li avvisa che partirà con un gruppo di migranti: attraverseranno con un autobus 1500 chilometri di deserto per arrivare in Libia e poi, da lì, in Europa via mare. Abdul è certo che il traffico degli immigrati clandestini faccia capo ai terroristi, tant’è che, sullo scassato autobus destinato al viaggio, i jihadisti hanno caricato una grossa partita di cocaina, da rivendersi in Europa per finanziare le loro attività.
Kiah partirà con il suo bambino, proprio sullo stesso autobus con cui viaggia Abdul; nessuno vuole sedersi accanto a lei e il suo piccolo: “nessuno voleva stare seduto vicino al bambino che sicuramente si sarebbe agitato, avrebbe pianto e vomitato per tutto il viaggio fino a Tripoli” (p. 191). Abdul, invece, prende posto accanto a loro, in ogni caso ben deciso a non lasciarsi andare a confidenze o gesti che potrebbero compromettere la sua delicata missione.
Tamara e Tab rientrano alla loro base, a N’Djamena, la capitale del Ciad, e informano i loro rispettivi superiori della base scoperta da Abdul in Niger e di come sta proseguendo la sua missione. Un commando militare interforze di americani, francesi e nigerini, coordinato da un colonnello statunitense, una donna, attaccherà ben presto i jihadisti. L’insediamento sarà distrutto e in quel frangente verrà alla luce un fatto importante: le armi dei terroristi sono di fabbricazione cinese o nord coreana, ma, oltre ai fucili automatici o mitragliatori (spesso reperibili sul fiorente mercato delle armi usate), i terroristi hanno a disposizione anche sofisticati semoventi di artiglieria nordcoreani, armati con grossi cannoni di derivazione cinese. Questi armamenti non possono che essere stati venduti direttamente ai terroristi da parte dei produttori, in violazione delle norme internazionali.
Washington: alla Casa Bianca, la prima donna presidente degli Stati Uniti, Pauline Green, è molto soddisfatta dei rapporti della Cia e dell’esercito relativi all’operazione contro la base jihadista in Niger. Il suo più accanito avversario politico, James Moore, repubblicano come lei (il personaggio è evidentemente ispirato a certi eccessi del “trumpismo”), non perde occasione di sottolineare la “debolezza della signora Presidente” nella guerra al terrorismo: l’innegabile successo dell’operazione in Niger, guidata da una donna, segnerà un punto importante a favore della presidente che, a metà del suo primo mandato, è già tesa verso il difficile obbiettivo di ottenere la riconferma.
C’è il problema delle artiglierie nordcoreane; i documenti ufficiali non fanno cenno alla cosa, ma la notizia è confermata e Pauline pensa che gli Stati Uniti non possano lasciar correre: insieme ai suoi consiglieri decide che il governo statunitense proporrà all’Assemblea dell’ONU una risoluzione di condanna di Cina e Corea del Nord per la vendita di armi a organizzazioni terroristiche, e, prima dell’inoltro formale della proposta, gli ambasciatori americani si dovranno attivare per acquisire quanti più consensi possibili, soprattutto da parte dei Paesi non formalmente alleati degli USA.
Da questa attività diplomatica non ufficiale, si innesca una reazione a catena, apparentemente inarrestabile, che porta la tensione internazionale a livelli altissimi.
Il paradosso, raccontato in modo efficace da Ken Follett, è appunto che i maggiori protagonisti sono sinceramente contrari all’escalation eppure, con decisioni logiche e ponderate, avanzano inesorabilmente verso il disastro.
In “Per niente al mondo” la superpotenza antagonista degli Stati Uniti è la Cina, il suo presidente Chen è un pragmatico, tuttavia fortemente pressato da un gruppo di ministri e alti funzionari del partito comunista legati al passato e ostili per principio a tutto ciò che è in qualche modo collegato al “campo occidentale”, a cominciare dalla Corea del Sud e il Giappone. Chen prova sincera stima e simpatia per il capo dei servizi segreti esteri Kai, il quale ha una visione riformista e moderna della politica, condivisa anche dal ministro della Difesa Zhao. Grazie a una brillante operazione della struttura di Kai, la proposta statunitense all’Assemblea dell’Onu della risoluzione di condanna cadrà prima ancora di essere presentata ufficialmente.
In un contesto di progressivo deterioramento delle relazioni internazionali con azioni di guerra di impatto sempre crescente, i quattro filoni di vicende personali dei protagonisti del romanzo, inizialmente vero e proprio cuore della narrazione, assumono man mano una funzione di sfondo, sovrastate dall’importanza degli eventi globali.
L’amore tra Tamara e Tab, e le inevitabili conseguenze sulla loro carriera di agenti segreti, il progressivo coinvolgimento di Abdul nella vita di Kiah, conquistato dapprima dall’innocenza del piccolo Naji e poi dal coraggio della giovane madre, le difficoltà familiari della Presidente Pauline, con una figlia ribelle e un marito disamorato, i problemi di Kai e il suo conflitto con il padre, eminente figura della “vecchia guardia” del partito comunista cinese: sono quattro storie raccontate secondo lo stile di Ken Follett. Insomma: non si riesce a chiudere il libro prima di averlo finito.
Lo scrittore è stato abilissimo nell’avviluppare queste quattro vicende nel dramma collettivo, instillando un senso crescente di sgomento e di angoscia con il susseguirsi degli eventi, così drammatici, così ineluttabili, dapprima circoscritti a zone geografiche limitate e poi, via via, di impatto planetario.
Finale: un libro scorrevole, interessante, avvincente. Speriamo e preghiamo, affinché il romanzo non si riveli del tutto profetico.
Ken Follett è stato evidentemente ispirato dall’acuta crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord del 2017, attenuatasi con l’incontro tra i due presidenti Donald Trump e Kim Jong-un nel giugno del 2018.
Ho iniziato in questi giorni la lettura del romanzo e devo dire che già dalle prime pagine mi piace molto.
Manuela