SILVANA MOSSANO
La domanda è: era da diffondere o no il filmato sugli ultimi istanti impazziti della funivia del Mottarone che, in cinquantanove secondi, per quattordici persone si è trasformata in una bara? Solo un bambino di 5 anni è scampato.
Personalmente, pur sapendo che la divulgazione c’era stata nei giorni scorsi, su Rai3 e La7, non avevo visto il filmato e non avevo sentito la necessità di andarlo a vedere, neppure quando le altre testate lo hanno ribattuto online.
Poi, però, in quanto giornalista, vieni sollecitato a riflettere e a esprimere un parere professionale sull’opportunità di pubblicare o no quel documento, estratto dagli atti di indagine. Voglio ricordare che, a maggio 2020, ho deciso di chiudere, dopo 40 anni, il servizio attivo – di cui vado orgogliosa – come redattore di testate giornalistiche. Ma il giornalista è un po’ come il maestro: non finisce mai di esserlo, che sia dipendente dal ministero dell’Istruzione o da una società editrice. Forse perché per insegnare non è indispensabile stare dietro una cattedra e per scrivere non è necessario essere sotto l’ombrello di una testata.
E, quindi, per esprimere un punto di vista oggettivo, il video, stamane, sono andata a vederlo.
L’ho osservato e l’ho riguardato, sforzandomi di capire, in superficie e in profondità, in che modo e in che misura a me – non giornalista, ma lettrice, cittadina, madre, figlia, nonna – poteva arricchire la visione di quel distillato di secondi tragici e ineluttabili.
Ebbene, vi confido che l’«altro» filmato che, personalmente, avevo già sviluppato nella mia mente subito dopo la sciagura, è molto più dettagliato di quello che ho visto scorrere su vari siti (con un corredo per lo più sguaiato di borborigmi da social-bar), annunciato come «video choc».
Dopo la catastrofe, avevo letto i resoconti di cronaca (alcuni documentati da colleghi scrupolosi e sensibili) e la mia mente aveva immediatamente immaginato una sequenza visiva che raffigura con molta, ma molta più realistica drammaticità quella tragedia. Ecco, più che sui sobbalzi violenti della cabina fuori controllo e appesa, è il caso di dirlo, a un filo prossimo a strapparsi del tutto, nel mio film mentale e realistico si sussegue un numero interminabile di fotogrammi; nella mia verosimilissima raffigurazione c’è l’orrore e il dolore per quegli istanti ultimi in cui un papà e una mamma sono angosciati al pensiero di non poter mettere in salvo i loro bambini, e i bambini urlano e piangono perché sono terrorizzati, perché si fidavano del loro papà e della loro mamma («non devi avere paura quando ci sono la mamma e il papà», quante volte l’abbiamo detto), ma quei genitori, e quei nonni non hanno potuto mantenere la promessa di protezione che avevano solennemente assunto a costo della vita. Nel mio filmato, scorrono gli istanti in cui ti ricordi che avresti potuto fare una cosa che hai rimandato, che non hai salutato chi avresti voluto, e urli, e piangi, e la faccia si trasforma in una maschera di paura, paura, paura nei momenti che senti ultimi della tua esistenza, e implori un Dio che intervenga a riavvolgere di qualche metro la bobina di quelle vite, sceccherate in maniera dissennata senza sapere perché.
Pertanto, al mio legittimo diritto di lettrice di sapere e conoscere, quel video choc (divulgato con l’unico scrupolo rituale di avvertire che è roba per stomaci forti) non aggiunge nulla. E non ritengo essenziale sapere che cosa (e come) succede se il sistema frenante viene manomesso. E’ successo!
Altra cosa è per gli inquirenti – investigatori e magistrati che devono ora indagare e poi giudicare se ci siano (e quali) responsabilità da sanzionare -: per loro sì che è importante quel filmato, perché «spiega», con efficacia di utilità probatoria, che cosa (e come) accade se qualcuno decide consapevolmente di «disattivare i freni», con la faciloneria che tanta quotidianità ci insegna… «vuoi mica che capiti…», «c’è bisogno di lavorare, altro che balle…».
Fin qui lettrice, in tutte le declinazioni che ho già detto.
Poi riprendo in mano il mestiere e viene fuori un grosso «ma». Ma, giornalisticamente, era da diffondere quel video?
Ho affermato in diverse occasioni, e così mi sono regolata, che le notizie, quando si hanno, si danno. Perché? Il primo motivo è quello di non permettere o costringere un giornalista a calarsi nelle vesti dell’Onnipotente: chi sono io per scegliere che di costui diffondo una notizia e di un altro, che mi sembra così perbene, non la pubblico? Le devo dare entrambe.
L’altro motivo favorevole al sì è che, laddove le notizie si tacciono scientemente o si manipolano, lievitano perverse tentazioni dittatoriali con conseguenze disastrose.
Ora, se è verissimo che le istituzioni – quali che siano – sono una fonte autorevole di notizie che è giusto diffondere, non è assolutamente detto che non se ne possano pubblicare molte altre, apprese diversamente e senza il sigillo dell’autorità costituita. E, talora, pur non essendo magari notizie formalmente pertinenti in una vicenda processuale, sono comunque e vieppiù utili a trasmettere al lettore-cittadino degli elementi indispensabili a formarsi un giudizio etico sui comportamenti di un amministratore pubblico, di un servitore dello Stato o di un personaggio che riveste ruolo di opinion leader.
Ci sono, però, in tutto questo, delle regole di riferimento (anche se, talora, va detto, richiedono equilibrismi interpretativi e applicativi). Purtroppo, a volte, quelle regole si disattendono perché si ritiene che fare il cronista sia cosa facile e consista, semplicemente, nel raccontare ciò che si vede o ciò che si viene a sapere e riportare i commenti (sic!) che si riescono a rastrellare «a caldo». Non è così che si fa, altrimenti basterebbe pubblicare integralmente tutti gli atti di una vicenda. Tali e quali. Evvai con l’abolizione del giornalismo e un calcio ai suoi codificati principi deontologici!
Invece, valutare il modo migliore e più equo di fare sintesi non è soltanto questione di numero di righe; da dove partire a raccontare non è soltanto individuare l’incipit di maggiore effetto; decidere la collocazione di un servizio in una pagina o in un palinsesto non deve essere ossequio a una mera esigenza grafica. Un giornalista, sulla base di preparazione ed esperienza, riassume l’essenza di una vicenda non certo per tacere o orientare artificiosamente il lettore, ma per offrirgli ciò che lo aiuta a formarsi liberamente un’idea di quanto accaduto.
Si può pubblicare, e le regole lo consentono, il senso di ciò che è contenuto negli atti da quando questi sono a conoscenza dell’indagato (e/o del suo avvocato), ma non si possono pubblicare atti (integrali o parziali) in una certa fase del procedimento penale; è quanto il procuratore della Repubblica di Verbania ha richiamato citando l’articolo 114 comma 2 del Codice di procedura penale («È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare»).
Tuttavia – e bisogna sinceramente ammetterlo -, quando hai in mano certo materiale, «giornalisticamente» hai una gran voglia di diffonderlo.
A questo punto, ti trovi solo. E, qui, entra in gioco un miscuglio personale e distintivo di sensibilità, umanità, credibilità, competenza, coscienza, determinazione e chissà cos’altro ancora.
La notizia si dà, certo: è la risposta più democratica e coerente che mi sento di esprimere, ma si sceglie il modo, tanto esaustivo e autentico quanto scevro di spettacolarizzazione. Tutto quello che non è utile e non migliora l’informazione, ma indugia su elementi che spettacolarizzano sentimenti, intimità, angosce, è strumentale. A questo bisogna avere il coraggio di dire no. E non per dare un pezzo in meno, ma per dare più dignità.
Riporto qui, con piacere, il commento prezioso di un cronista rigoroso e stimato come Marco Neirotti, già collega a La Stampa. Ecco, sulla pubblicazione del filmato del Mottarone, che cosa ha postato sul suo profilo Facebook: «Le immagini sarebbero state cronaca, avrebbero rivelato l’intera tragedia, avrebbero rispettato lo strazio dei parenti delle vittime e sarebbero state ancor più incisive se limitate al momento dell’arrivo tradito da quel scivolare all’indietro, senza l’ostinazione macabra, cinematografica, voyeuristica e per niente giornalistica dell’ultimo momento. L’umanità non la genera la scelta se diffondere o meno qualcosa, la generano le mani e le teste che quel qualcosa maneggiano».
E concludo con un ricordo personale pescato tra i molti. Alcuni anni fa, cadde un piccolo aereo alla periferia di Alessandria. La fotografa e io eravamo là, sul ciglio di un prato, a osservare la «scena», i brandelli di vita che se n’era andata e tutte le tristi operazioni di rito che avvengono in queste circostanze, con la presenza di carabinieri, sanitari, magistrato. Per ultimi, arrivano i necrofori; posano le bare di metallo a terra e svolgono il loro lavoro: si può immaginare in che modo, dopo uno schianto aereo. Ecco, avrei potuto indugiare su quei dettagli strazianti, caricandoli di truculenza narrativa; invece li ho elaborati per trasmettere l’essenza di quel dramma che tale era già in sé. Di più: lei, Federica Castellana (che, nel frattempo, aveva prodotto eloquenti immagini «di scena»), da grande fotoreporter quale è aveva già il suo occhio attentissimo incollato al mirino per riprendere quei particolari finali, ma ha scelto di abbassare la macchina fotografica. E non ha fatto clic.
In foto: il collo della funivia al Mottarone, sul lago Maggiore, 23 maggio 2021 (Ansa/Jessica Pasqualon)
Non so dare una risposta se era giusto o no pubblicare il video. Quello che resta è la tragedia.
Cara Silvana, la tua riflessione è profonda e oserei dire, saggia. Si, perché saranno i tuoi anni di esperienza sul campo o sarà che saggia lo sei di tuo, il senso della misura a cui fai riferimento anche senza citarlo, è sempre opportuno. Si possono raccontare tragedie immani senza per questo ricorrere ad un linguaggio truculento. Se si vuole “caricare” l’esposizione di una tragedia con parole e frasi “ad effetto” significa che chi scrive, del fatto in sé gli importa poco. Molto di più gli importa attrarre l’attenzione su di sé. È tantissima informazione va così.
Come sempre “articolo
Preciso e dettagliato , tecnico , umano. Brava. Preghiamo per le vittime e per il bimbo superstite . Ciao e grazien
Silvana, sei una giornalista che racconta con maestria, intelligenza e cuore
Penso che si possa fare a meno di pubblicare certe immagini. Il fatto è già di per sé tragico. Ognuno di noi ha immaginato quel che è successo all’interno della cabina e ha cercato di scacciare quei pensieri, di far tacere i pianti e le grida di terrore di chi stava per soccombere a un destino crudele. Al di là del dovere di cronaca, il rispetto per le vittime è più importante. “Abbassare la macchina fotografica e non fare clic” è la cosa più onesta.