RECENSIONE di
SERGIO SALVI
«Il castello dei falchi neri», autore Marcello Simoni, pubblicato nel 2022 da Newton Compton, prima edizione giugno 2022, pp. 307.
In una frase: mi aspettavo di più.
Di Marcello Simoni avevo già letto, con notevole soddisfazione, «La trilogia del mercante di libri», una saga in tre romanzi. Mi sono quindi avvicinato con fiducia a «Il castello dei falchi neri», un «thriller storico» – così riporta la prima di copertina- ambientato nella «Terra Laboris» (grossomodo l’attuale Campania) tra Napoli e un decrepito castello in campagna, con annessa grande tenuta, appartenente alla dinastia dei Grifone, famiglia di origine longobarda. Il maniero «somigliava a un enorme tronco di olivo spezzato da una folgore. Un antico gigante del quale avanzava solo la base grigia e rugosa, con le radici affondate nel fianco della collina». (p. 15)
Le vicende si svolgono nell’anno 1233, durante il regno di Federico II di Svevia, e la narrazione è concentrata in un arco temporale lungo poco più di un mese: dal «mese di febbraio» del prologo al 28 marzo dell’epilogo.
Il 15 marzo 1233, mattina, dopo cinque anni di permanenza in Terrasanta, Oderico, il legittimo erede della casata dei Grifone, sta tornando al castello di famiglia. Pregusta l’abbraccio dei genitori e dei fratelli, aveva seguito l’imperatore Federico II nella sesta crociata.
L’entusiasmo del ritorno a casa svanisce bruscamente per il giovane crociato quando constata la desolazione, se non la miseria, in cui è precipitata la sua famiglia: non c’erano guardie all’ingresso del maniero, né vedette sulle mura. «Entrato quindi nella corte interna, lanciò rapide occhiate al pozzo, agli stallaggi e agli altri edifici di legno costruiti a ridosso della cinta, senza scorgere nessuno, nemmeno un servo». (p. 17). Poco dopo incontra la madre, Engilberta, e ne rimane scioccato: «Era invecchiata più di quanto avesse potuto immaginare. E poi, quel mantello cencioso … Quel portamento stanco, ingobbito», ancora più traumatizzate è la domanda materna: «Come è possibile? Tu dovresti essere morto!» (p.18). La donna controlla a fatica le emozioni che la scuotono, riesce, con fatica, a spiegare che Landolfo, il fratello monaco di Oderico, ne aveva comunicato la morte, data per avvenuta nel corso di una battaglia. Madre e figlio non hanno tempo per darsi e chiedersi altre spiegazioni, poiché sopraggiunge il padre, Adelmo Grifone, insieme al suo fedele servo Moamin, un sapiente maestro falconiere «che si reputava l’uomo più felice del mondo» e che per Oderico era stato «amico e mentore, per acume e lungimiranza poteva equipararsi ai superbi rapaci cui aveva dedicato la propria esistenza». Dopo alcuni minuti di corrucciato silenzio il padre si esprime, freddamente: «Dunque sei vivo» (p.22).
L’atteggiamento di Adelmo nei confronti di Oderico è «in bilico tra l’accusatorio e il beffardo». I rovesci economici della famiglia Grifone, dice il padre, sono dovuti alle tasse che Federico II aveva imposto per finanziare la spedizione in Terrasanta, ma al il figlio primogenito la cosa non quadra. La tenuta dei Grifone aveva sempre garantito ottime rendite: legnatico e selvaggina, usufrutto dei mulini ad acqua, allevamento dei cinghiali allo stato brado, raccolta di miele selvatico, produzione di latte di capra e formaggio, e poi i falchi addestrati, tradizione e fonte di ricchezza. Insomma, doveva essere accaduto altro: «Mi nascondete qualcosa» incalza. «Forse – replica il padre -, ma se pur sapessi non cambierebbe nulla» (p. 26).
Adelmo sembra infine disposto a cedere, quando confessa a Oderico che le difficoltà sono causate anche dalla bramosia, da parte di alcuni potenti, di impossessarsi della tenuta dei Grifone; per costringere la famiglia a vendere hanno boicottato i suoi prodotti e il servizio dei mulini e le tasse del Regno sono comunque da pagare, a pena di esproprio.
Per fare fronte ai debiti, Adelmo era stato costretto a chiedere un prestito ai Castagnola di Napoli, una potente famiglia di usurai: a garanzia del denaro dato in prestito, il maggiore dei fratelli Castagnola aveva preteso che gli fosse data in moglie Aloisia Grifone, la sorella di Oderico.
La potenziale redditività della tenuta dei Grifone, per quanto elevata, da sola non giustificherebbe una così intensa «campagna» per costringere il proprietario a cederla, in alternativa all’esproprio per mancato pagamento dei debiti. Oderico si appresta pertanto a rivolgersi al «giustiziere» della Terra Laboris (una carica di rappresentante plenipotenziario, istituita da Federico II, per esautorare i feudatari a favore del potere centrale). L’incontro con il giustiziere, Ettore di Montefuscolo, non genera speranze, anzi alimenta la consapevolezza che l’unica strada per evitare la totale rovina della casata dei Grifone consiste nella vendita dei beni della famiglia.
Il giovane si è appena congedato dell’alto funzionario imperiale che questi viene ferocemente ucciso da un grande uccello rapace; poiché i Grifone sono famosi come abilissimi ammaestratori di falchi, Oderico viene in breve arrestato con l’accusa di omicidio, riesce con audacia a fuggire dalla cella e viene aiutato e protetto dalla badessa Mobilia, altro potentissimo personaggio, interessata all’acquisto di una parte, anzi, di una piccola porzione della tenuta dei Grifone, per erigervi, sostiene, un eremo.
I colpi di scena e le rivelazioni si susseguono a tamburo battente.
Anche il misterioso grande rapace, con il ruolo decisivo e dirimente del deus ex machina, ucciderà ancora, ferocemente, per ben due volte e poi sarà chiamato a dare ancora una volta la morte, alla resa dei conti.
Finale: la vicenda è abbastanza intrigante, a mio avviso con qualche eccessivo sconfinamento verso il genere fantasy, che lo stesso autore ammette nella nota di postfazione.
La mia parziale insoddisfazione è dovuta al respiro piuttosto corto della narrazione: mi vien da dire che questo libro, più che un romanzo, è un valido schema che dovrebbe ancora essere sviluppato per fare poi un buon romanzo.
I personaggi, salvo Adelmo, il padre di Oderico, non prendono corpo e anche la descrizione degli ambienti e dei paesaggi non sfugge a una certa sommarietà.
La sensazione è che sia stato scritto troppo in fretta.
Le 298 pagine del testo corrispondono a circa 200 pagine «normali», tenuto conto del carattere di stampa, dell’interlinea, delle tante (forse troppe) pagine semivuote alla fine dei capitoli, delle pagine di divisione delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo, che contengono anche disegni dell’autore.
«La brevità è gran pregio» canta Rodolfo, al quale Giacomo Puccini aveva assegnato il mestiere di scrittore, in «La Boheme» (Atto I, Quadro I); vero, ma penso che a «Il castello dei falchi neri» occorresse un ritmo narrativo meno stringato e più coerente, se vogliamo, allo stile dei precedenti, e già citati, romanzi di Marcello Simoni.