RECENSIONE
di SERGIO SALVI
«Il pane del diavolo». Autrice Valeria Montaldi, pubblicato nel 2018 da Mondadori, prima edizione Picwick settembre 2019, pp. 375.
In una frase: romanzo eccellente, consigliato senza riserve.
Valeria Montaldi è una scrittrice nota soprattutto per i suoi romanzi di ambientazione storica; li ho letti sempre con soddisfazione, si tratta di opere avvincenti e ben raccontate.
Questa scrittrice, fino a oggi, non si è proposta a tambur battente ai lettori con uno o anche due romanzi all’anno. I suoi ritmi sono più ampi, e le motivazioni, si capisce, possono essere svariate. Da lettore posso dire di aver apprezzato la “compiutezza” delle storie raccontate, anche quando fanno parte di una serie, come ad esempio la trilogia “Il mercante di lana- Il signore del falco-Il monaco inglese”.
Con “Il pane del diavolo” Valeria Montaldi propone un romanzo diviso in due piani temporali a seicento anni di distanza uno dall’altro: maggio 1416, Chambéry, presso la corte del duca Amedeo VIII di Savoia, c’è un impegnativo banchetto da preparare, l’invitato principale, Bonifacio di Challant, merita ogni riguardo e l’evento dovrà essere “indimenticabile e sontuoso” (p.7).
Febbraio 2016, Valle D’Aosta, a Terrier, toponimo immaginario di una frazioncina di Fénis, proprio nei pressi del famoso castello, viene commesso un omicidio, la vittima è Alice Rey, proprietaria di un noto e raffinato ristorante della zona, del quale suo marito, Jacques Piccot, è lo chef.
L’arte della cucina è il principale filo conduttore, dapprima labile e poi sempre più robusto, a unire le due avvincenti storie, tra colpi di scena ben congeniati e personaggi credibili, descritti con i loro limiti e capacità, debolezze e slanci.
1416: il maestro di cucina del duca Amedeo di Savoia è Chiquart; le sue capacità sono riconosciute, tuttavia Amedeo desidera qualcosa in più: vuole le ricette messe per iscritto e gli ha chiesto di dettarle allo scrivano di corte: “Sapete quanto io tenga ad avere una testimonianza scritta del vostro valore di maestro di cucina, vero?”. Il pensiero di Chiquart dimostra tutto il suo senso pratico: “Vuoi che non lo sappia, così, se all’improvviso dovessi rendere l’anima a Dio, tu ti ritroveresti un intero trattato da affidare già bello e pronto a un altro cuoco”. La risposta data sarà tuttavia coerente con la sua posizione di sottoposto: “Certo, signor duca, e vi sono grato per questo” (p.9)
Il braccio destro di Chiquart è Marion, vedova dell’ex aiuto cuoco. Trattata con supponenza e freddezza dallo chef, Marion, in realtà, sa cucinare benissimo; ha infatti imparato, prima dalla madre, mediorientale, e poi dal marito, l’utilizzo approfondito degli ingredienti e metodi originali di preparazione dei cibi. La giovane donna ha anche acquisito, fin da bambina, un’altra capacità, ancora più rara all’inizio del 1400: sa scrivere. Grazie a questa abilità, origlia la dettatura delle ricette fatta da Chiquart allo scrivano del duca, e la riporta a sua volta su carta, ma non si tratta di una “registrazione” pedissequa, infatti a Marion non mancano le idee per modificare i piatti di Chiquart.
Durante il grande banchetto, molto apprezzato dai commensali, l’ospite d’onore, Bonifacio di Challant, estasiato da un dolce preparato da Marion (“Non ho mai assaporato niente di più prelibato”), (p. 53), chiede al duca di Savoia di poter temporaneamente avere i servigi della donna presso il suo castello di Fénis.
Amedeo di Savoia acconsente, anzi “dona” seduta stante Marion a Bonifacio, il duca preferisce infatti che sia un uomo a svolgere una così importante funzione e non ignora che lo stesso chef Chiquart mal sopporta “quella insopportabile saracena: invadente, sempre pronta ad aggiungere ingredienti dove non ci volevano e soprattutto femmina, in un tempio dove lui, uomo, doveva essere l’unico sacerdote” (p.82).
Anche al castello di Fénis, nonostante le raccomandazioni di Bonifacio, Marion dovrà affrontare pregiudizi e invidie, eppure incombe una minaccia ben più grave: alla corte di Chambéry uno spasimante di Marion, da questa respinto, aveva scoperto la “copiatura” clandestina delle ricette di Chiquart: un reato grave, passibile di pesante punizione.
Con un balzo di 600 anni il filo della narrazione segue i fatti conseguenti all’omicidio di Alice Rey; le indagini, coordinate dal PM Gabriella Spadoni, sono affidate al maresciallo dei carabinieri Giovanni Randisi, un uomo del sud, trapiantato in Val D’Aosta da qualche anno che “Aveva perfino imparato a cucinare e si era stupito nello scoprire quanto gli piacesse farlo” (p. 16). A Randisi fa capo il nucleo investigativo del Comando dei Carabinieri tra i quali spicca per professionalità il maresciallo Claudia Lucchese, la sua assistente, diventatagli “talmente indispensabile che aveva finito per innamorarsi, o almeno per averlo creduto. E invece poi le cose erano andate diversamente” (p. 14).
Randisi e Lucchese iniziano le indagini raccogliendo il maggior numero di informazioni possibili sulla vittima, il marito chef Jaques Piccot e i dieci dipendenti del ristorante. Alice e Jaques erano stati colleghi presso una famosa struttura di ristorazione di Courmayeur, Alice si occupava di amministrazione e Jacques era lo chef; due anni dopo il matrimonio la donna aveva ereditato dai genitori denaro e proprietà immobiliari, compreso il complesso di edifici quattrocenteschi, nei pressi del castello di Fénis, dove era stato realizzato, con imponenti lavori di restauro, il ristorante. Una situazione chiara: la donna aveva finanziato tutto, ed era rimasta l’unica proprietaria di tutto, la coppia non aveva figli.
L’incontro con Jaques è a tratti sconcertante: la sera dell’omicidio l’uomo non si era accorto dell’assenza della moglie, perché i due dormivano in camere separate; il mattino successivo, non vedendola a colazione aveva verificato che il letto in camera di Alice non era disfatto, aveva provato a chiamare, ma senza esito. A quel punto era corso al ristorante per chiedere notizie alla sua aiuto cuoco, si tratta di Aisha una donna egiziana, madre di una bimba che frequenta la scuola per l’infanzia. Randisi si limita ad osservare “Okay. Quindi lei chiede notizie di sua moglie al personale.” (p. 45).
Secondo Jaques, “Alice non aveva nemici, le volevano tutti bene: era una donna generosa, fin troppo comprensiva” (p.46)
Randisi nota che nel soggiorno della casa vi sono parecchi libri, compresa un’ampia raccolta di antichi ricettari, una vera passione per Jaques, che non esita a confessare il suo dispiacere per aver dovuto rinunciare ad arricchire la preziosa collezione perché “le spese della ristrutturazione hanno avuto la priorità su tutto il resto” (p. 48). Il comportamento elusivo dello dello chef, la sua evidente e sofferta condizione di subalternità economica rispetto alla moglie, e la scoperta di un importante indizio, fanno pensare a Randisi di poter risolvere il caso in breve tempo.
Così non sarà, al punto che gli investigatori, al momento della faticosa soluzione della complessa vicenda, non avranno neppure troppa forza di gioire, tanto li avranno avviliti gli errori commessi durante le indagini.
L’intrico “giallo” è di alto livello, di quelli che lasciano il lettore stesso un po’ basito, per non esserci arrivato, e non manca l’impensabile colpo di scena finale.
Finale: In questo periodo dell’anno le riunioni conviviali hanno un ruolo fondamentale e “Il pane del diavolo” dà molto spazio all’arte, alla storia e all’umanità della cucina, compresa, per l’appunto, la ricetta del vero e proprio pane del diavolo (p. 145). Valeria Montaldi nella sua “nota” finale, ricorda un – poco seguito – ammonimento di Seneca: “Il troppo cibo produce molte malattie” (p.372), a chiusura del commento a questo gustoso romanzo, oltre che un sincero augurio per tutti, a me viene in mente che in entrambe le storie raccontate il lettore troverà conferma di uno dei più famosi proverbi dedicati al diavolo, un proverbio che, guarda caso, fa riferimento alla fabbricazione di strumenti da cucina…
Wow interessante