RECENSIONE di
SERGIO SALVI
«Ciò che il silenzio non tace», autrice Martina Merletti, edito da Einaudi, pubblicato nel 2021, pp. 266.
In una frase: romanzo credibile e coinvolgente.
Opera prima della giovane autrice Martina Merletti (nata nel 1992), “Ciò che il silenzio non tace” mi è piaciuto molto, un motivo in più per ringraziare Benedetto Terracini che lo ha consigliato durante un piacevolissimo pranzo in un piccolo, delizioso giardino, per me inimmaginabile, nel cuore di Torino.
Il titolo del libro, ispirato a un verso di una poesia di Reiner Maria Rilke, dà una chiave di lettura: il silenzio, pur ostinato e prolungato, può essere impenetrabile dall’esterno (sordo alle domande e alle sollecitazioni altrui), eppure non è impermeabile ai sentimenti interiori, capaci, anche senza il veicolo delle parole, di fuggire dalla prigione del mutismo e di comunicarsi agli altri, in modo misterioso e forse inconsapevole.
I personaggi principali del romanzo sono due donne, Elda e Teresa, entrambe madri di due figli, entrambe, pur in modo completamente diverso, ne perdono uno, entrambe confidano che il silenzio sia un rifugio inespugnabile.
Agosto 1944, Torino, carcere “Le Nuove”: nel braccio femminile molte delle recluse sono state catturate da fascisti e nazisti per essere trasferite nei campi di sterminio. Elda, 21 anni, infermiera, ha un bambino di pochi mesi; con l’aiuto di una suora riesce a far uscire dal carcere, nascosto nel carrello della biancheria sporca, il figlioletto Libero. Il padre del bimbo è il partigiano Alfio Treves, che sarà fucilato dopo pochi giorni. La suora provvederà ad affidare il piccolo a persone che si prenderanno cura di lui, in attesa del ritorno della madre. Anche se Elda non è consapevole che la sorte dei neonati e delle loro madri è segnata (troppo deboli e troppo piccoli per lavorare, se dovessero sopravvivere al terribile viaggio verso il lager, sarebbero immediatamente uccisi nelle camere a gas), intuisce di aver dato a Libero almeno un’opportunità di futuro.
Montevicino (dintorni di Chivasso, il nome è inventato, il paese esiste, ne sono sicuro), novembre 1999: Teresa è in cucina con la nuora Agnese, moglie di suo figlio Fulvio. L’altro dei suoi due figli, Gilberto, è morto meno di due mesi prima, in un incidente in moto. Fulvio, nonostante le insistenze della moglie, non è mai andato al cimitero a visitare la tomba del fratello. Teresa dice ad Agnese “Se non vuole andarci, alla tomba, che non ci vada. Va bene così”. (p.5)
Il marito di Teresa, Domenico, morto da qualche anno, le aveva sempre ripetuto: “Sei nata vecchia” al che lei rispondeva “I bicchieri screpolati durano più degli altri“.”Si erano sposati giovani, inaspettatamente felici, e lei allora già sapeva, sapeva che sarebbe morto prima di lei. Così va il mondo no? Ma con i figli, be’ con i figli è diverso”. (p.6)
Teresa (sarta) e Domenico (ferroviere) vivevano a Torino, via Vanchiglia 25, erano sposati già da qualche anno quando l’Italia era entrata in guerra; per oltre due anni avevano continuato più o meno la solita vita, gli attacchi aerei erano stati contenuti, ma, dall’autunno del 1942, con l’intensificarsi dei bombardamenti la situazione era diventata quasi disperata, così Domenico aveva accettato un posto liberatosi alla stazione di Chivasso e la coppia aveva trovato alloggio a Montevicino “al piano di sopra di un cascinale di proprietà dei Bisleri, una famiglia di ortolani, brava gente, piemontesi semplici e schivi che, come da copione, non brillavano né per calore né per ospitalità … l’alloggio era senza infissi così che Teresa si era dovuta ingegnare con assi di legno, scampoli di stoffe e stracci … Chivasso distava dal cascinale un’ora abbondante di cammino.” (p.111)
Elda, dopo essere passata dal campo di concentramento di Bolzano, dove aveva dichiarato che il suo bimbo, Libero, era morto, era finita nel campo di lavoro di Ravensbrück, “c’erano solo donne, di tutte le nazionalità e le estrazioni sociali, quasi tutte combattenti, quasi tutte prigioniere politiche … i numeri però a Ravensbrück non li tatuavano. L’avevano immatricolata a Birkenau.” (p.120). Era la fine dell’inverno 1944-1945, il Terzo Reich stava crollando, ma Elda non lo sapeva. I cancelli del lager vengono spalancati e tutti scappano: le deportate per tentare di tornare a casa, i tedeschi per sfuggire ai russi. “Una fiumana di gente che arrancava diretta a ovest, e le notti passate nei boschi, rotolando giù nelle scarpate per la stanchezza dei corpi.” (p.193). Poi l’immenso centro di raccolta di Hagenau, dove gli americani, non ancora consapevoli della moltitudine dei prigionieri, avevano continuato a trasportare queste povere persone “lì, senza distinzione alcuna, fino a quando la densità dei corpi aveva reso impossibile qualsiasi cosa al di fuori del caos. I soldati tedeschi, che in quel mondo improvvisamente capovolto se ne stavano in divisa a pelare patate sotto i fucili spianati degli americani, rappresentavano l’unico quadro ordinato del campo”. (p.194). Solo a metà agosto del 1945 era cominciato il lungo rientro: Lubecca, Amburgo, Innsbruck, il Brennero e infine Milano. “Da subito, primi tra tutti gli internati militari italiani, le persone incontrate al di fuori di Ravensbrück avevano insegnato ai deportati, soprattutto se donne, il silenzio. Nessuno credeva ai racconti delle atrocità nei campi. Né i russi, né gli americani, né tantomeno l’arrivo degli inglesi, potevano eliminare le radici profonde che alimentavano la diffidenza nei confronti delle ebree e delle politiche.” (p. 197).
Teresa, specialmente dall’8 settembre 1943 in avanti, si era imposta, e aveva imposto al marito Domenico, l’assoluta regola del silenzio sulle vicende della guerra, dell’occupazione nazista, della Resistenza: in casa non si parlava di politica, di partigiani, “Non scottarti le dita cercando di spegnere le candele degli altri”, insomma, fatti i fatti tuoi, e basta. Domenico l’assecondava, ma i suoi pensieri erano diversi; ricordava spesso il principio evangelico “nascondi i fuggitivi e non denunciare i perseguitati” che i vescovi piemontesi, stretti tra partigiani e nazisti avevano sottolineato con una lettera aperta al cardinale Fossati. “E se di questi tempi capitasse che proprio facendosi gli affari propri si faccia del male a qualcuno?” (p. 201) così rifletteva Domenico, con un amico. Infine nell’agosto del 1944 aveva costretto Teresa a subire quello che lei si ostinava a definire, laconicamente, “quel fatto”. Domenico aveva accettato, su richiesta del capostazione di Chivasso, che faceva parte della rete di solidarietà umana votata alla tutela degli indifesi, di prendersi cura di un neonato, probabilmente figlio di partigiani. Proprio Teresa, finita la guerra aveva rinunciato a tornare nella sua Torino, perche pensava che fosse il modo migliore per tenere segreto “quel fatto”, del quale non aveva mai più parlato, nemmeno con il marito: un muto, perpetuo, tacito rimprovero. E così erano rimasti a Montevicino dove: “la cara vecchia vita di paese era tornata e non se n’era più andata: Teresa la sentiva entrare dagli infissi come l’umidità. Le aveva tenuto la bocca cucita e continuava a farlo.” (p. 210).
Una protagonista fondamentale del romanzo è realmente esistita: Suor Giuseppina Demuru (Lanusei, 1903 – Torino, 1965). Fu lei, nell’agosto del 1944, a organizzare, alle Nuove di Torino, il salvataggio di un neonato, il figlio di una reclusa. Questo fatto, ampiamente documentato da numerose fonti, ha “generato” in Martina Merletti l’idea di “Ciò che il silenzio non tace”. L’autrice riconosce in questa azione una grande forza “simbolica e materiale”, forza che trabocca da brani della relazione stilata da Suor Giuseppina nel 1946, su richiesta del Cardinale Maurilio Fossati, allora Arcivescovo di Torino, e inseriti nel romanzo. Si tratta di una testimonianza toccante, a tratti sconvolgente, per i drammi descritti, certamente, e soprattutto per la fede espressa con parole così semplici e così forti.
Alla fine della narrazione, il breve capitolo “Fonti e fondamenta” (pp. 259-263) testimonia l’impegno della scrittrice nell’analisi, lo studio e la verifica delle diverse fonti, così che il lettore abbia la consapevolezza della “verità” raccontata e del rigore della rappresentazione.
Finale: le storie del romanzo, che non ho quasi anticipato per non togliere gusto al lettore, sono narrate con vivacità e ironia, ho trovato molto ben riuscita la caratterizzazione dei personaggi e la descrizione dei paesaggi di quella campagna tra Chivasso e Torino che ho attraversato così tante volte.
E’ un libro di cui consiglio la lettura a tutti, con un’avvertenza: il ritmo di lettura è bene che sia “moderato” e non “allegretto”, perché in alcune parti l’intreccio delle vicende è rappresentato in modo sintetico e la velocità nel girar pagina (almeno per me) a volte fa sottovalutare elementi importanti, che poi occorrerà riprendere.