SILVANA MOSSANO
E’ morto, giovedì 7 luglio 2022, don Paolo Busto, direttore emerito del settimanale diocesano «La Vita casalese», che ha guidato per 40 anni, dal 1982 fino a qualche settimana fa, quando, all’ottantesimo complesanno, aveva passato il testimone a Mauro Facciolo. Era stato anche direttore del periodico «La Grande Famiglia», molto diffuso soprattutto in Val Cerrina. Dal 1977 al 1982 era stato parroco di Frassineto e dal 1991 rettore della chiesa di San Paolo a Casale, in via Mameli. Canonico del Capitolo della Cattedrale dal 1988 (emerito dal 2017), aveva anche insegnato religione nelle scuole superiori; a Casale, in particolare, al Sobrero (nel 1974), al Liceo Scientifico Palli (dal 1975) e all’Istituto Leardi (dal 1992). Il Rosario sarà recitato venerdì 8 alle ore 21 in Duomo. La camera ardente sarà allestita sabato 9 luglio, dalle 10 alle 14.30, nel Salone dell’Immacolata, presso la redazione del giornale in piazza Nazari di Calabiana (Vescovado). Il funerale si svolgerà sabato alle 15 in Duomo.
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Quello che segue è il ricordo pubblicato nell’edizione de «La Vita casalese» uscita oggi, venerdì 8 luglio, in edizione straordinaria. La memoria torna al periodo in cui fui giovane redattrice al settimanale diocesano, diretto da don Busto, il «capo».
Don Paolo Busto, per noi, era il Capo: per noi di quella stagione a scavalco tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima degli anni Novanta quando la «Vita» fu segnata da alcune significative svolte, tra cui l’autonomia nella gestione pubblicitaria e, soprattutto, il cambio di formato del giornale da «lenzuolo» a «tabloid».
Io ero l’ultima arrivata, proveniente da una precedente esperienza giornalistica. Vi trovai don Paolo direttore, Mauro Facciolo l’attuale direttore, il politologo Gianni Fara, la mitica inossidabile Rosi, l’eclettico Roberto Girino (Giro), gli sportivi Gigi Busto (Gibus) e Franco Balanzino e il raffinato editorialista Maurizio (Micicio) Scagliotti. Il mio primo giorno di lavoro al settimanale diocesano «La Vita casalese» fu il 1° aprile 1987: quando il direttore lo annunciò, qualcuno accompagnò un sorrisetto ironico al pensiero che la notizia fosse un pesce d’aprile.
In quella eclettica squadra, ognuno aveva un proprio stile, una precisa personalità, ma tutti la stessa passionaccia di fare bene il giornale. Ogni tanto, facevamo una campagna promozionale anche tramite manifesti; lo slogan era: «La Vita casalese – Dalla parte della gente».
Lavoravamo praticamente sette giorni su sette per uscire una volta alla settimana, con l’ambizione di dare il meglio di noi stessi. Che dico: sette giorni su sette? C’erano anche le notti, in particolare quella che precedeva il mercoledì, giorno di impaginazione in tipografia. Dunque, nella notte tra martedì e mercoledì funzionava così: don Paolo, Mauro e Gianni erano in redazione (nella sede in via Roma, che avevamo inaugurato con una torta grande come piazza d’Armi!) e io stavo a casa, con costanti contatti telefonici. Ci dividevamo gli articoli da distribuire nelle varie pagine, correggevamo i pezzi dei collaboratori, abbozzavamo i titoli, sceglievamo le foto. Insomma, facevamo la «cucina» del giornale.
Al mattino, Mauro e Gianni avevano altre occupazioni, mentre don Paolo e io ci ritrovavamo in tipografia, alle Diffusioni Grafiche di Villanova. Sui banconi erano già poggiati i menabò intonsi che aspettavano di essere via via riempiti con testi, titoli e immagini. Eravamo, sì, nel secolo scorso, ma soltanto 30-35 anni fa! Beh, pare preistoria.
Mentre ci organizzavamo con altri colleghi per dar corso al lavoro cercando di accaparrarci gli impaginatori più ingegnosi o più pazienti, il capo si avvicinava con la consueta domanda: «Silvana, fino a che ora è rimasto acceso il lumicino?». E io lo ragguagliavo sul momento in cui avevo spento la luce per andare a dormire: «Le 2 e un quarto» oppure «Le 3». Don Paolo, a sua volta, indicava l’ora in cui aveva smesso. Era una piccola gara, in cui non c’era nessuna smania di vincere, solo la soddisfazione intima e condivisa di fare bene.
L’impaginazione durava tutta la mattina e una parte del pomeriggio e la prima pagina era l’ultima a essere chiusa, nel caso arrivasse, come accadeva, un’«ultim’ora». In tarda mattinata, io cominciamo con il mio refrain: «Capo, c’è lo spazio per il fondo». L’articolo di fondo è il pezzo, spesso firmato dal direttore, che contiene riflessioni e commenti su un argomento importante e attuale.
Visto che lo spazio rimaneva bianco, tornavo alla carica: «Capo, c’è il fondo da scrivere». E il tempo passava. Dopo mezzogiorno, però, cominciava il percorso inverso, era lui che mi avvicinava: «Devo proprio farlo? Non è che abbiamo altro da mettere?». Lapidaria: «No, non abbiamo altro». Finché, nel primo pomeriggio, non gli davo più scampo, mi sedevo accanto a lui a un tavolo, gli mettevo una macchina da scrivere davanti e aspettavo. In realtà, aveva già tutto in testa, perché le riflessioni erano il frutto di tanti scambi di opinioni cui tutti, spontaneamente, contribuivamo lungo la settimana, su quanto accadeva nel nostro microcosmo locale o nel macrocosmo mondiale. Era il bello di quella stagione. Poi, il capo, con intelligenza, faceva sintesi, travasando i pensieri sui tasti di una Olivetti che picchiettava agevolmente con le dita pienotte. Il direttore don Paolo Busto ha firmato articoli di grande spessore.
Scritto e riletto, il pezzo di fondo veniva messo in pagina, nella prima colonna a sinistra sotto la testata: era quello che conferiva personalità al giornale.
Chiusa l’edizione, tutti se ne andavano e sui banconi comparivano i menabò per altre testate da impaginare. Il capo e io, invece, restavamo in attesa che la «Vita» uscisse stampata dalla rotativa. Poi, caricavamo in auto i pacchi con le prime centinaia di copie e andavamo a consegnarle alle edicole cittadine. Eravamo sfiniti dopo la notte con il lumicino acceso fino alle ore piccole, eravamo svuotati dopo la mattinata e il pomeriggio a impaginare con l’ansia pressante di chiudere il giornale entro una determinata ora, ma eravamo orgogliosi di far arrivare al più presto ai lettori il frutto di quel lavoro di squadra, in cui ciascuno aveva un posto e tutti ci sentivamo indispensabili.
Eravamo anche sfibrati, perché avevamo saltato il pranzo. Allora, don Paolo, per rifocillarmi, tirava fuori dalla tasca della portiera un sacchetto di caramelle e mi forniva una generosa manciata di «fruttini» di zucchero a forma di pallina.
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«Capo, a che ora ha spento il lumicino?».
Non me l’ha detto più.
Erano le 14,38 di giovedì 7 luglio 2022.
Vivace come sempre il tuo ricordo di Don Busto e anche commovente. Con lui se ne va un pezzo importante di Storia Casalese. Quando il Capo chiama… Mi dispiace tanto, era un punto di riferimento importante
Bene e grazie per questo tuo ricordo Silvana della scomparsa di don Busto . Mi spiace molto anche a me e mi unisco al dolore dei suoi cari e di tutti i collaboratori del “suo” giornale. Lo ricordo con riconoscenza per il suo lavoro molto prezioso, per la sua missione spirituale con tanta umanità, costante attenzione per il bene comune e sensibilità per la giustizia nella società . Ciao Don.