RECENSIONE di SERGIO SALVI
«I Viceré» – autore Federico De Roberto, Crescere Edizioni 2011, pp 538.
«L’ultimo grande romanzo italiano dell’800»: così è stato definito nel corso di una puntata di «Passato e Presente» su RAI Storia, da Paolo Mieli; non avevo ricordi di quest’opera, mi sono incuriosito e ho comprato il libro (usato).
In una frase: sono molto grato a Paolo Mieli e ai suoi ospiti per il consiglio «indiretto».
Le vicende del romanzo si svolgono nel trentennio dal 1855 al 1882, e sono ambientate in Sicilia, nella zona di Catania. Si stratta di una saga famigliare: il patrimonio degli Uzeda di Francalanza, dinastia di origine spagnola (uno degli antenati fu Viceré di Sicilia) alle soglie del disastro economico-finanziario era stato salvato dall’abile, tenace e cinica consorte del Principe Consalvo VII di Francalanza, la Principessa Teresa, rimasta vedova con 7 figli: quattro maschi e tre femmine.
Il primo dei maschi (Principe Giacomo), detestato dalla madre, è comunque colui che porterà avanti la dinastia degli Uzeda; il cocco di mamma (Conte Raimondo) è un pigro inconcludente, sempre in fuga dalle responsabilità; la primogenita è suora e il secondo maschio è monaco, una figlia si è sposata per forza (senza dote, beninteso) e l’ultimogenita è destinata al nubilato…
La narrazione inizia dall’annuncio della morte della Principessa Teresa, e prosegue con le esequie e l’apertura del testamento. De Roberto scrive a fine ‘800 («I Viceré» fu pubblicato nel 1894), il linguaggio è moderno, asciutto, efficace. Le descrizioni dei preparativi e dell’atmosfera del funerale, vero e proprio trionfo di ipocrisia e servilismo, le pompose epigrafi funebri disseminate nella Cattedrale sono un bel saggio dell’ironia con cui lo scrittore alleggerisce, di tanto in tanto, lo sviluppo del romanzo, interessante e avvincente in ogni sua parte.
Il Principe Giacomo, nel tessere la sua implacabile ragnatela per recuperare le quote di patrimonio lasciate dalla defunta madre ai fratelli (in particolare a Raimondo), si serve dei quattro zii, fratelli del defunto padre, a loro volta smaniosi di vendicarsi dei torti subiti in nome del terribile complesso di norme e consuetudini di stampo feudale a tutela della primogenitura e della conseguente conservazione dell’unità del patrimonio dinastico.
Alle ferree priorità del casato saranno inesorabilmente assoggettati anche i figli di Giacomo: Consalvo (il futuro Principe, mandato controvoglia in collegio presso i monaci) e Teresa costretta a sposare il fratello dell’uomo che ama (l’amato era solo un secondogenito).
L’epopea del Risorgimento, dapprima in sottofondo (gli Uzeda sono filo borbonici e temono i «Piemontesi»), incombe con lo sbarco di Garibaldi; i primi anni del Regno d’Italia danno infine l’occasione a due dei protagonisti di distinguersi, suscitando reazioni contrastate e contrastanti tra fratelli, zii e prozii. Le tre generazioni della casata si confrontano e si scontrano ancora con astio inesauribile e mossi da unico fine: mantenere e accrescere i propri privilegi, a qualunque costo.
Finale: romanzo molto bello, le storie sono narrate in crescendo «sinfonico», fino al sorprendente epilogo; un «plus» per alcune figure femminili tratteggiate con rara sensibilità. L’omonimo film del 2007 (dopo aver letto il libro me lo sono visto su Rai Play), è accettabile. «Liberamente ispirato» al romanzo, dà un’idea delle vicende e del contesto, ma non rende giustizia all’opera letteraria.