Il settimanale diocesano «la Vita Casalese», per il quale ho lavorato un po’ di anni fa, compie un secolo. Per l’occasione, oltre al convegno che si svolge oggi venerdì 21 ottobre 2022 alle 16, nell’aula sinodale del Seminario (piazza Nazari di Calabiana che si affaccia su via della Biblioteca, a Casale), cui partecipano il direttore di «Avvenire» Marco Tarquinio e lo storico Sergio Favretto, è stata realizzata un’uscita particolare del giornale, da ieri in edicola. Molti servizi ripercorrono un secolo di attività della testata nel contesto storico locale (molto interessanti e puntuali i servizi a puntate settimanali firmati dal professor Maurizio Scagliotti, docente di Storia e Filosofia al Liceo Classico Balbo), altri evocano ricordi e curiosità, altri ancora, come l’articolo «Una missione che deve continuare», a firma del vescovo Gianni Sacchi, contengono proiezioni e impegni per il futuro. Il direttore di Vita Casalese, Mauro Facciolo, mi ha chiesto di raccontare alcuni dei miei ricordi di trent’anni fa in redazione. Quello che segue è l’articolo che ho scritto e che si può leggere sul numero di «la Vita Casalese» uscito giovedì 20 ottobre 2022. Segnalo che a chi ha acquistato (o ricevuto in abbonamento) il giornale di questa settimana è stata donata anche la riproduzione in formato originale del primo numero di «Vita», datato 1° gennaio 1922 (un particolare nella foto grande, sotto il titolo).
SILVANA MOSSANO
La Vita Casalese divenne tabloid nel 1987. Si abbandonò il tradizionale formato «lenzuolo» per adottare quello di stile anglosassone più agile per i lettori e che consente di distribuire meglio gli argomenti su un maggior numero di pagine. Non fu un salto nel buio. Nei mesi precedenti, si era fatto un test con il «Fanfarino».
Il «Fanfarino» è conosciuto, da decenni, come l’almanacco monferrino per antonomasia, ma era, a tutti gli effetti, una testata giornalistica registrata in tribunale. Il direttore Paolo Busto pensò bene di fare un esperimento: organizzare l’uscita di alcuni numeri del Fanfarino non come calendario, ma con sfoglio tabloid, contenente articoli di attualità e storie di personaggi e famiglie casalesi. A noi giovani redattori l’idea piacque: «Sì, capo» approvammo, e ci mettemmo all’opera.
Visto che lettori e inserzionisti avevano apprezzato, il formato tabloid fu adottato anche per la «Vita»: venne lanciata una campagna promozionale con lo slogan «Dalla parte della gente» su grandi manifesti di colore azzurro, diffusi in tutta la diocesi.
Non era soltanto uno slogan, ma una dichiarata scelta di campo. E, stando dalla parte della gente, ad esempio, non era ritenuto moralmente accettabile pubblicare gli elenchi dei nomi di chi, in difficoltà, era finito nei «Protesti cambiari»: una berlina (che da allora fu bandita) che non piaceva prima di tutti al vescovo Carlo Cavalla.
UN DONO DI PESO
A proposito del Vescovo: quando approdai alla redazione della «Vita», trovai la consuetudine di partecipare alla celebrazione della messa per il suo onomastico, la sera del 4 novembre. Il direttore non diramò nessun diktat, ma noi redattori e collaboratori eravamo tutti spontaneamente presenti nella affollata chiesa di San Filippo. All’Offertorio, ogni associazione, istituzione, gruppo parrocchiale portava un dono a monsignor Cavalla. Don Busto pensò di regalargli un cesto di ortaggi e frutta: sapeva che Sua Eccellenza l’avrebbe apprezzato per distribuire poi i prodotti a persone bisognose. Era veramente un cesto grande, ricco e abbondante. Direttore e colleghi (e citiamoli: Mauro Facciolo, Gianni Fara, Gigi Busto, Ugo Bertana, Roberto Girino, Franco Balanzino e altri) ebbero un pensiero, diciamo così… generoso e ritennero che spettasse alla Rosi (Rosi De Sanctis, figura fondamentale e imprescindibile nella segreteria di redazione) e a me (new entry del giornale) il privilegio di portare fino all’altare, al momento dell’Offertorio, il dono, che era stato parcheggiato insieme ad altri al fondo della chiesa. E noi due, che onore!, accettammo.
Attraversammo tutta la navata sudando e con la schiena piegata: altro che regalo di peso! Il direttore, per fare bella figura, aveva abbondato: era proprio pesante come un macigno. Fu, però, opera buona e monsignor Cavalla ci gratificò con il suo garbato sorriso.
Ricordo con emozione quella stagione professionale: ci sentivamo una squadra, le imprese non facili e le sfide ci galvanizzavano.
MARATONE ELETTORALI
A parte le ore piccole a preparare l’impaginazione del giornale, con il «lumino acceso» che era fonte di sana competizione (anche divertente, con rimpalli di battute e scherzi), nutrivamo soprattutto l’ambizione di fare bene, contagiandoci l’un l’altro.
Le maratone elettorali, ad esempio. Ricordo un anno, in particolare. Avevamo insediato la nostra postazione nell’ufficio distaccato di via Mameli (la redazione principale era, invece, in via Roma). Quella sera pioveva che diolamandava. Non era il tempo dei collegamenti internet, di siti prefettizi con aggiornamenti online in tempo reale. Macché! Era l’epoca del giornalista-scarpinatore: le notizie si conquistavano consumando le suole delle scarpe. Così, per le elezioni, ci si sguinzagliava: chi si recava nel palazzo comunale e chi nelle sedi dei partiti, avanti e indietro; cammin facendo si tiravano su un po’ di «exit poll» alla buona, si ritiravano le stampate all’Ufficio Meccanografico (precursore degli attuali Uffici informatici) e li si portava alla base. Andammo avanti così per ore, a raccogliere, copiare coi pennarelli e attaccare con lo scoch i fogli con dati e proiezioni via via aggiornati scritti a mano (la Rosi ha una calligrafia che neanche un libro stampato!) fino a chiusura dello spoglio. Eravamo stremati, ma appagati dalla convinzione di aver fatto un servizio utile: quando vedevamo i passanti con l’ombrello che si fermavano davanti alla vetrina, eravamo contenti.
TOMBA E IL «PESCE D’APRILE»
Eravamo pure un po’ bricconi, bisogna dirlo. La tradizione del pesce d’aprile, ad esempio. In verità, era precedente al mio arrivo alla Vita. Funzionò bene anche quello di Alberto Tomba: tra gli anni Ottanta e Novanta era personaggio di spicco. Annunciammo sul giornale che il campione di sci sarebbe arrivato a Casale, alla sede della polisportiva di Porta Milano, in una determinata data e a una determinata ora. Ebbene, una discreta folla abboccò.
Ho già raccontato, in altra occasione, della distribuzione dei giornali nelle edicole casalesi di cui ci occupavamo il capo e io, perché ci tenevamo che, in città, le prime copie arrivassero già la sera del mercoledì, invece che attendere il giovedì mattina. Stipavamo il baule e i sedili posteriori dell’auto di don Paolo e ci lasciavamo alle spalle la tipografia Diffusioni Grafiche di Villanova. Il direttore stava alla guida e io scendevo, di volta in volta, a fare la consegna dei pacchi. Ecco, il punto è questo: la guida. Il capo era un po’, come dire, brioso con il volante tra le mani. Capitò che uno di quei mercoledì nevicasse, oh se nevicava! Ebbene, ci impantanammo più d’una volta, di traverso sulla carreggiata a Oltreponte o piantati nei cumuli a bordo strada. «Capita!» commentava don Paolo. «Eh sì, capo, capita, capita».
Capitano tante cose quando si fa questo mestiere. Molte affascinanti e arricchenti, a volte divertenti, ma anche tragiche, che ti segnano e ti rimangono addosso per sempre.
Accadde, una notte, un incidente gravissimo: sulla strada per Vignale, morirono due ragazzi casalesi e un terzo finì in coma. Il mattino dopo, la notizia rimbalzò subito, fu uno choc. Non è vero affatto (o, almeno, non per tutti) che i giornalisti sono cinici, che conta solo lo scoop, che si abituano al male e, a forza di vederne, non ci soffrono più. Fole! Luoghi comuni! Si soffre eccome. E quanto si soffriva a bussare alle case a chiedere ai famigliari la fotografia di una persona cara morta da poco, in circostanze drammatiche. E’ un sanguinamento continuo dell’anima.
All’epoca – forse è passato un giro di generazione, ma sembrano secoli fa – non c’erano i siti web, i social, ma il tam tam c’è.
Vita Casalese era il primo giornale locale che sarebbe uscito con la notizia dell’incidente. Passammo la giornata a raccogliere informazioni, immagini, raccontammo ogni dettaglio, anche sull’esistenza breve di quei poveri ragazzi, sulle famiglie stroncate dal dolore. Pubblicammo pure le fotografie sulle locandine. Un lavoro immenso e pesante, come se fosse l’ultima occasione umana per tenerli «in vita».
LEZIONE DI UMILTA’
Ma mancò qualcosa. Un lettore, giovedì in tarda mattinata, telefonò in redazione dicendo che si sarebbe aspettato che la cronaca fosse integrata da una riflessione sul senso di una tragedia così grande: le emozioni che scuotono – specialmente il dolore – vanno accompagnate da parole che spieghino, che consolino e aiutino a trovare uno spiraglio di luce per non precipitare nella disperazione. «Dagli altri giornali – disse il lettore – non me lo aspetto, ma da voi sì». Fu una grande lezione, accettata con umiltà.
Ecco perché Vita Casalese era, e continua a essere, il giornale «dalla parte della gente»: non si limita a raccontare i fatti (compito importante e fondamentale, in un mondo libero e democratico), ma in più ci riflette su, attraverso la voce del direttore o di altre firme autorevoli. Magari si rinuncia alla corsa di chi arriva primo, ma si punta al traguardo del confronto e, se è possibile, della condivisione. Il confronto e la condivisione non sono forse meravigliosi miracoli terreni?
Grazie Silvana per puntuale ricordo.
Simpatico il racconto di fatti ed emozioni legati al tuo periodo lavorativo alla “Vita”. Eravate una grande famiglia, anche se fare il giornalista “non sono tutte rose e fiori”, lo spirito di squadra prevaleva sulle rivalità. Dubito che oggi sia ancora così, in qualsiasi ambito lavorativo. Peccato.
Grazie carissima Silvana per le tue parole che fanno riemergere periodi di vita vissuti intensamente, con la condivisione a più livelli delle cose in cui si credeva e che continuano essere la base delle nostre piccole o grandi azioni quotidiane.
Grazie per la tua capacità di testimonianza e per il fortissimo richiamo ai ‘ miracoli’ del confronto e della condivisione.