SILVANA MOSSANO
Reportage dell’udienza di lunedì 25 ottobre 2021
E’ sempre la stessa storia, con gli stessi sintomi – tosse stizzosa, male alla schiena, dispnea, dimagrimento -, gli stessi accertamenti – radiografia, tac, talcaggio per prosciugare i polmoni pieni «d’acqua» -, la stessa diagnosi – già immaginata e temuta, pur senza essere un dottore -, le stesse terapie – la chemio, le cure sperimentali e, poi, le palliative per tenere a bada il dolore nella fase finale, quando i normali antidolorifici fanno ormai poco o niente -, il decorso della malattia – tra ansie, paure, angosce, progressivo decadimento fisico e quello strazio inconsolabile per il distacco dalla vita e dagli affetti – e la frustrazione disperata di chi resta, angosciato e impotente a far fronte al declino inarrestabile di chi si ama, ad accarezzare quelle mani smagrite, pallide e ghiacciate, prima così attive e vitali.
Ogni storia è, con poche sfumature, la storia di tutti: uomini e donne che hanno incrociato il mesotelioma. Gli hanno tenuto testa con coraggio e dignità, ma, per il momento, lui – il carcinoma maligno che si attacca rabbioso alla pleura o al peritoneo – è ancora il più forte.
Sono le storie delle 392 vittime del processo Eternit Bis, che compongono il lungo elenco di nomi nel capo di imputazione a carico di Stephan Schmidheiny, accusato di aver provocato la loro morte, per via della diffusione di amianto dentro e fuori dallo stabilimento Eternit di Casale che l’imprenditore svizzero ha gestito direttamente dal 1976 al 1986.
Le inconsapevoli e incolpevoli vittime non sono state soltanto 392; queste sono quelle su cui è incentrato il processo, promosso dai pm Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare, che è in corso a Novara, davanti alla Corte d’Assise, presieduta da Gianfranco Pezone (affiancato dal giudice Manuela Massino e dai sei popolari). Il numero reale dei morti, a Casale e nei paesi intorno, è molto, molto più alto.
I NUMERI E LE STORIE
Fino a ora sono sfilati i numeri che danno la proporzione della tragedia; virtualmente, si è entrati nella fabbrica, si è «passeggiato» sulla «spiaggia» formata dai reflui sversati nel Po in sponda sinistra, si è percorsa in largo e lungo la città sulle mappe, dallo stabilimento del Ronzone, ai magazzini di piazza d’Armi, alla stazione ferroviaria, in particolare allo scalo – merci noto come «Piccola velocità».
Invece, ieri, nell’udienza del 25 ottobre, si è entrati nelle case delle persone sventurate.
E anche se tutte queste storie si assomigliano, ognuna deflagra a modo suo, perché colpisce proprio quella vita lì e le vite intorno che la condividevano, l’amavano, la rispettavano, ci contavano.
I famigliari, costituiti parte civile, arrivano a uno a uno e raccontano, con dignitosa sobrietà. Le parole, ogni tanto, si inceppano, ma è un attimo, poi riprendono a fluire. Non è il loro dolore – il dolore di chi rimane – che vogliono esporre: quello se lo custodiscono nel profondo. Raccontano, invece, che per i loro cari – vitali, dinamici, allegri – non era ancora il momento di morire, che è stata un’ingiustizia e che, se non si trova una cura in fretta, a quell’ingiustizia chissà per quanto tempo ancora si dovrà soccombere.
«Era mia mamma. Era mio papà. Era il nonno. Era la nonna. Era mio zio».
L’avvocato Laura D’Amico ne ha convocati poco meno di una ventina. Si è fatta mettere il microfono il più vicino possibile al banco dove i testimoni siedono e lei rimane in piedi, per oltre quattro ore, a rivolgere con delicatezza e garbo le domande che incoraggiano il racconto.
Maddalena Dusio per la morte di Velia Anatrini.
«Era mia mamma. Era nata in provincia di Verbania, ma ha abitato a Casale da quando aveva 4 anni. Era casalinga. Quando ha cominciato a lamentarsi per la mancanza di fiato, anche per salire solo quattro gradini, io, che sono medico, l’ho visitata per prima e ho subito capito che c’era un versamento pleurico. Purtroppo, si visitano tanti pazienti con il mesotelioma e si sa che… Questa è stata la diagnosi anche per lei, nel 2001». Si ferma qualche attimo per obbligare i pensieri a mettersi in ordine. Riprende: «A marzo 2001, mia madre era dimagrita molto, ma a gennaio era morto mio padre, lei lo aveva accudito nella malattia, io pensavo che quella debilitazione fosse dovuta al gravoso impegno per assisterlo». E, invece, era altro.
Daniela Treviso per la morte di Evasio Amisano.
«Era mio zio. Oggi, qui al mio posto, avrebbe dovuto esserci mia mamma, ma è morta tre anni fa, il 15 marzo 2018. Anche lei, Carla Amisano, di mesotelioma». E d’altronde vivevano nello stesso cortile. «Lo zio faceva il muratore e lo scagliolista, era un uomo semplice, con l’hobby della lettura e della poesia. Un uomo buono, un sorriso per tutti». Finché? «I primi sintomi sono stati il raffreddore, un po’ di tosse. L’agonia è durata un anno, è morto nel 2013».
Giulia Allara per la morte di Daniela Pezzo.
«Era mia mamma. E’ morta nel 2012 a 53 anni». Ricorda i luoghi dove aveva abitato: «In salita Sant’Anna, poi a Casale Popolo e, dall’82, in piazza San Francesco, dove c’è anche l’agenzia di pratiche d’auto, lei lavorava con papà». Prima di ammalarsi, «era una donna dinamica, aveva molti amici, giocava a carte a burraco». Fino a quando il mesotelioma ha mostrato i primi sintomi, nell’autunno 2011: «Poco prima di Natale è stata confermata la diagnosi. E’ morta a ottobre dell’anno successivo, ma già da maggio-giugno non poteva più uscire di casa, non aveva forze, non stava in piedi. L’ha accudita sempre mio papà, e la mia nonna. Ha lasciato me e mia sorella che, allora, avevamo 25 anni io e 15 lei».
Valeria Enrico per la morte di Margherita Avonto.
«Era mia mamma. E’ morta nel 2010. Il papà l’avevo perso già molto tempo prima, nel 1965, per un incidente sul lavoro, tanto per essere in tema…». La voce sfuma, poi riacquista tono: «La mamma ha sempre abitato a Villanova, lavorava in campagna, era una donna semplice, devota alla famiglia, da nonna ha accudito ai miei figli, non so come avrei fatto se… Ai primi di dicembre 2009, mi ha chiamato, era preoccupata: “Vieni, Valeria, vieni”. Quando sono arrivata, aveva una pancia gonfia così. L’ho accompagnata al Pronto Soccorso dell’ospedale di Casale, le hanno fatto accertamenti ed è stato diagnosticato un mesotelioma al peritoneo. E’ rimasta ricoverata un mese e mezzo, finché un giorno mi ha detto: “Portami a casa”. E’ morta dopo pochi mesi».
Gian Luca Bertola per la morte di Adriana Sapelli.
«Era la cugina prima di mio papà, ha sempre abitato a Casale, prima in via Luparia e poi in via Roma, dove è morta il 17 aprile 2004. Noi eravamo gli unici parenti, molto legati: il pranzo alla domenica, e il Natale, abbiamo sempre festeggiato insieme. Lei faceva la cappellaia in casa; usciva per andare a messa». Un anno prima della morte, «accusava mal di schiena». Quel mal di schiena. «Le hanno tolto molte volte “l’acqua” dai polmoni, alla fine è stata ricoverata in clinica, l’ha accudita mia madre fino alla fine».
Gabriella Grossetti per la morte di Matilde Finotto.
«Era la mia mamma. Dal 1957, dopo un breve periodo ad Altavilla, ha sempre vissuto a Casale: salita Sant’Anna, via Buozzi, via Guglielmo III e via Mantova fino al decesso. Era casalinga, si occupava della casa e dei figli: oltre a me, mia sorella Giuliana. I primi sintomi si sono manifestati a novembre 2003. Mi telefona: “Sto male, sto male, non riesco a respirare”. Sono stati fatti gli accertamenti e dopo tre mesi, il 20 gennaio 2004, è mancata. Alla fine, non riusciva neanche più a parlare. Il medico mi ha mostrato la lastra: “Vede? – mi ha detto -, non ha più neppure un pezzo di polmone sano”». Praticamente era stato interamente conquistato dal mesotelioma.
Rachele Ferrara per la morte di Vincenzo Ferrara.
«Era mio papà. Ha gestito una pizzeria prima in via dei Grani, poi in via Sant’Evasio e infine in corso Indipendenza. Sempre a Casale, in centrissimo”! Da ragazzo, in città aveva fatto il servizio militare, alla caserma Mazza. Era un uomo tutto lavoro e famiglia (oltre alla mamma Maria Di Martino, noi siamo in tre: io e le mie sorelle Monica e Michela), rigoroso, di poche parole, con lui avevamo un rapporto di grande rispetto e di regole all’antica. E’ morto il 24 marzo 2010; la diagnosi tre anni prima: il 12 marzo 2008. Era dimagrito, faticava a respirare, ma all’inizio non ci badava. Lui del mesotelioma non l’ha mai saputo, gliel’abbiamo tenuto nascosto». Le parole sfioriscono in un singulto. Si riprende: «L’abbiamo accudito noi, negli ultimi mesi con l’aiuto dell’associazione Vitas. Sì, sì, è morto a casa sua».
Massimo Miglietta per la morte di Marisa Vescovo.
«Era mia mamma. E’ vissuta a Popolo, frazione della città, fino al 1958, poi si è sposata e ha abitato a Casale in via Canna, vicino al canale Lanza: praticamente sul percorso tra lo stabilimento del Ronzone e i magazzini in piazza d’Armi. Era casalinga, usciva giusto per fare la spesa e si concentrava esclusivamente sulla famiglia. E’ rimasta vedova nell’89, quando mio papà, impiegato di banca, è morto di infarto. E si è occupata dei miei figli, nati nel 2000 e nel 2004, per il poco tempo che ha avuto a disposizione». E’ morta il 19 luglio 2005. «A fine ottobre 2004, aveva manifestato un dolore toracico: la radiografia evidenziava un versamento pleurico. Io sono medico e, in più di trent’anni di professione a Casale, ho visto tre casi in cui il versamento pleurico non era mesotelioma». Poi il solito iter terapeutico: «Prima la chemio e, poi, essendo ininfluente sulla malattia, siamo passati alle cure palliative, che seguivo io, essendo il suo medico curante». Sua madre è stata una tra le «decine e decine di pazienti affetti da mesotelioma» che ha curato da quando, nel 1990, è diventato medico di famiglia. «Lei ha affrontato la malattia con grandissima dignità, non voleva che se ne parlasse fuori, perché le era intollerabile che i rapporti con gli altri fossero falsati dalla compassione». Così, finché ha potuto «ha fatto la sua vita. Negli ultimi giorni, era al mare, con mia moglie e i miei figli, perché lei voleva essere di aiuto alla nuora e ai nipoti. Ma faceva fatica, non riusciva a raggiungere la spiaggia. Il lunedì avremmo dovuto tornare a Casale per un controllo, e ci teneva a essere in ordine, insomma voleva andare dal parrucchiere. Che “cinema” abbiamo fatto per trovare un posto in cui fosse possibile parcheggiare vicino, che, al mare, non è così facile! La domenica sera tornammo in città, nella notte è stata male e… La sua idea era di riuscire ad andare avanti per qualche anno, invece… invece solo 9 mesi». Lui, medico, è stato impotente a cambiare la sorte di sua madre. «A Casale c’è una cappa di tensione che avvolge tutti. Una persona che sente un dolore al torace non va dal dottore per chiedere una terapia che gli faccia passare il male, va a chiedergli una radiografia. Tutti siamo coinvolti e colpiti da questa ansia».
Laura Catalano per la morte di Angela Varese.
«Era mia mamma. Casalinga, abitava a Casale, dopo un breve periodo, dal 1968 al 1972, a Ottiglio. Una donna molto attiva, faceva tantissime cose, mi ha aiutato a crescere i miei figli quando erano piccoli: loro ricordano tutte le cose buone che preparava. E, poi, aveva parecchie amiche, frequentava il circolo, faceva gite, seguiva attività culturali e dava pure un aiuto in parrocchia.
E’ morta il 18 dicembre 2013. E’ stato durissimo perché… perché… era sana, era sana fino all’estate prima, a luglio, quando eravamo in Val di Susa in vacanza. Non è stata bene, l’ho accompagnata in ospedale e la dottoressa, dopo averla visitata, mi ha detto: “Signora, c’è un problema”. Io le ho spiegato: “Abitiamo a Casale Monferrato” e lei, mentre mia madre non vedeva, ha fatto una faccia bruttissima». La paziente è stata trasferita all’ospedale San Luigi di Orbassano. «Anche qui i medici, quando vedevano che mia mamma abitava a Casale, facevano delle smorfie. E mi dicevano di prepararmi al peggio. Ma io ero già consapevole: vivendo a Casale… chi è che non ha amici o parenti che hanno perso famigliari per questa malattia? Qui, al primo colpo di tosse non pensi all’influenza, ma a qualcosa di grave». Al San Luigi, Angela Varese è stata sottoposta a talcaggio. «Quando è uscita dalla sala operatoria, ha detto “Anch’io ho il male dei casalesi”. E’ stata prescritta la terapia con la chemio e il medico ci ha detto: “E’ inutile che veniate a farla qui, andate a Casale dove hanno grandissima esperienza, sono anche più esperti di noi”. Per un po’ di mesi, non stava malissimo; era dimagrita, non camminava più molto, ma si tirava avanti. A settembre 2013 la situazione è peggiorata; si è trasferita a casa mia. Abbiamo avuto il sostegno dell’associazione Vitas: veniva un’infermiera tutti i giorni e un paio di volte alla settimana passava un medico; alcuni volontari passavano a tenerle compagnia. Hanno supportato lei e anche me, psicologicamente. Quando abbiamo avuto un momento di difficoltà organizzativa, la Degio (l’oncologa Daniela Degiovanni, ndr) ci ha proposto un ricovero temporaneo all’Hospice, ma io non volevo; abbiamo stretto i denti e siamo riusciti a tenerla a casa. E’ morta lì tra noi».
Daniela Torelli per la morte di Maria Andreone.
«Era la mia nonna, la mamma di mio papà. E’ vissuta a Casale dal 1963 al 2000, quando è morta: in piazza San Francesco, in via Sosso, in corso Indipendenza, in via Mellana». Via Sosso, dove Maria Andreone ha vissuto tra il 1965 e il 1987, «in linea d’aria è molto vicino allo stabilimento Eternit, dove mio nonno ha lavorato, tra il ’60 e l’80, addetto alle spedizioni». E le tute – s’informa l’avvocato D’Amico, chi le lavava? «La nonna, certo; il nonno le portava a casa e lei le lavava». C’è un cenno severo nella voce e, subito dopo, il tono si ammorbidisce e declina in tenerezza: «Noi stavamo molto insieme, mi ha cresciuto lei, c’era tra noi un rapporto molto stretto. Alla nonna – ricorda – piaceva molto leggere. Ha cominciato a non stare bene nell’estate del 1997, mal di schiena. La diagnosi, all’ospedale di Casale, l’hanno confermata a novembre; è morta l’11 aprile 2000. Ricordo molto bene quando la nonna ha cominciato a stare sempre peggio; oltre al mal di schiena, aveva difficoltà a respirare, la dispnea era accentuata, gli antidolorifici facevano poco effetto. Mio padre era radiologo: era ben consapevole della malattia di sua mamma, ma a lei non ha mai voluto dirlo direttamente che cosa aveva. Sua nuora, cioè mia mamma, l’ha accudita fino alla fine».
Giorgio Guidotti per la morte di Luciana Deambrosis.
«Era mia mamma, abitavo con lei e, prima, anche con mio fratello Sergio che è morto pure lui per un mesotelioma, nell’87. Mia mamma ha sempre abitato a Casale: in via Visconti e, da quando sono nato io, in piazza XXV Aprile. Era una donna brillante: andava a ballare, giocava a bocce, aveva parecchi interessi. Occupazione? In gioventù, me lo raccontava, aveva cucito cappotti per i militari; poi aveva lavorato in fabbrica. E’ morta il 3 ottobre 2005, è durata pochi mesi. I primi sintomi si sono manifestati a maggio: aveva una tosse stizzosa, si pensava a una bronchite, ma, poiché non passava, l’ho portata in ospedale, io a quell’epoca lavoravo al Pronto Soccorso. Il medico le fece fare una lastra e da lì venne fuori il versamento. La Tac ha confermato il mesotelioma. Lei aveva una gran paura di soffrire le pene dell’inferno che aveva visto patire a mio fratello circa vent’anni prima… mio fratello è morto…», si ferma, fatica a tirar fuori parole efficaci, poi lo dice: «E’ morto come un cane arrabbiato. Io e lei ci mentivamo a vicenda: io cercavo di illuderla e lei mi lasciava credere che prendeva per buon quello che le raccontavo».
Fabrizio Ferrero per Francesco Ferrero.
«Era mio padre, è vissuto a Ozzano, dove era nato nel 1931, poi a Treville, a Casale e, dall’83, è tornato a Ozzano, dove è morto l’11 luglio 2011. Aveva lavorato all’Eternit, dal 1974 al 1983: era l’austista dell’auto di rappresentanza della ditta, faceva i viaggi da Casale a Genova (dove c’era la sede legale della società, ndr) per portare documenti o accompagnava i dirigenti in aeroporto. Era una bella auto, io… io ero orgoglioso. Ogni tanto mia mamma, ci portava noi figli (oltre a me, ci sono le mie sorelle Gabriella e Samuela, e mio fratello Simone) fino alla fabbrica, eh sì, c’era molta polvere, mi ricordo. E, soprattutto, lo diceva mio papà che c’era tanta polvere. Mio padre era una persona molto tranquilla…». La voce si spezza, si passa una mano sul viso. «Molto legato alla famiglia, aveva un pezzetto di terra, faceva lavoretti in casa. Nell’estate del 2010, ha cominciato a non stare bene. A metà novembre, sentiva un forte dolore scapolo-toracico, io sono fisioterapista osteopata, ho provato a trattarlo, ma la situazione non migliorava. Così, ha fatto una radiografia». A fine anno, la diagnosi era implacabile: «Aveva quella patologia. I primi mesi, era in condizioni discrete, poi c’è stata la débâcle. Tra febbraio e marzo 2011, si è via via accentuata la dispnea e aveva forti dolori alla colonna vertebrale. È mancato a casa, accudito da mia mamma e da tutti noi».
Katia Marinotto per la morte di Maria Paola Granziera.
«Sono la figlia. Mia madre era nata a Camino, nel 1964 si era trasferita a Casale a Oltreponte, e dal 1969 al 2002 ha abitato a Oltreponte, nella casa che avevano costruito insieme, lei e mio papà. La mamma ha sempre lavorato nel settore delle confezioni, da dipendente e da titolare di un laboratorio. Negli ultimi due anni prima della pensione, faceva l’impiegata in una ditta di Casale. E’ morta a 60 anni, il 21 marzo 2002. Prima di ammalarsi, era una donna iperattiva: faceva lunghe passeggiate in collina e in montagna, in Val Varaita; ha persino fatto il giro del Monviso a piedi. Amava il contatto con la natura; al ritorno da queste lunghe camminate, si sentiva rigenerata. E, poi, c’erano gli amici, venivano a casa nostra, si facevano cene, grigliate. Riusciva anche a trovare il tempo per dare una mano a persone anziane, sole, malate». Finché? «Tutto è iniziato ad aprile, maggio 1999: accusava un malessere generale e un certo affanno nel salire le scale; lei non si lamentava mai, tendeva a minimizzare, ma a me, questa volta, sembrava una cosa più seria, ho insistito per fare una visita. A giugno, la radiografia ha evidenziato che un polmone era pieno “d’acqua”. Alle Molinette, il 1° luglio il professor Maggi l’ha operata: l’intervento è stato complesso, perché la malattia era molto più estesa di quanto si pensasse. Dopo, pareva stesse un po’ meglio. Che dire? Si sperava. Tornata a casa, dopo la riabilitazione a Veruno, faceva qualche passo, seguiva la terapia con gli antidolorifici, e poi c’era la chemio, con gli effetti collaterali, nausea, vomito, debolezza. Mio zio, che aveva fatto l’infermiere, le somministrava le cure. E’ morta a casa; no, non l’abbiamo mai lasciata sola».
Robert Possedel per la morte di Sergio Possedel.
«Era mio padre, è morto a 53 anni. Sempre vissuto a Casale, faceva il tecnico alla Sip, poi divenuta Telecom. Ed era istruttore di judo in una palestra locale. E’ morto il 30 giugno 1994. I primi sintomi si erano manifestati a settembre, ottobre 1993: una tosse insistente, noi abitavamo al terzo piano, faticava a salire, doveva fare una sosta e sedersi sulle scale. Era l’ultimo anno di lavoro, poi sarebbe andato in pensione». Non ci è arrivato.
Maura Bagna per la morte di Elena Ginepro.
«Era la mia mamma, ha sempre abitato a Casale: viale Bistolfi, via Gonzaga, strada Cavalcavia, tutti indirizzi nelle vicinanze della stazione ferroviaria. Era infermiera professionale e, quando è andata in pensione, oltre a fare del volontariato, si occupava dei miei figli. Tra me e lei? Un rapporto simbiotico. E’ morta il 5 aprile 2012. Tutto era cominciato nell’estate 2010, quando aveva accusato un dolore sternale. Anch’io come lei sono infermiera e ho sposato un medico; ebbene, nessuno di noi pensava assolutamente che quel dolore potesse essere dovuto a una cosa del genere. Nel 2011, la Tac ha confermato la diagnosi di mesotelioma, e pensare che la radiografia non mostrava nulla di anomalo. Invece, c’erano già delle metastasi al costato. Lei non l’ha mai saputo; io, contro il parere di tutti, ho scelto di non dirglielo. Ha fatto la chemio ed è stato un disastro. Si è trasferita a casa mia, così non è mai più stata da sola. Una sera, facendo la doccia, si è spaccata l’omero, conseguenza di una metastasi ossea. Abbiamo dovuto ricoverarla, per un po’ in Ortopedia, poi in Cardiologia, dove lavoro io, perché c’era anche un edema polmonare. Gli ultimi due giorni è stata all’Hospice. Insomma – sospira e chiude gli occhi -, dall’ospedale non è più uscita».
Ivana Roggero per la morte di Alessandro Roggero.
«Era mio papà, sempre vissuto a Casale, prima a Porta Milano, poi in centro e infine poco distante dall’Istituto Sobrero. Lavorava in banca; gli piaceva leggere e viaggiare. Con mia mamma, sempre insieme. E, poi, era legatissimo ai miei figli: era un nonno molto presente, li portava spesso a giocare ai giardini pubblici, e loro lo adoravano. Se non ci fosse stato lui, quando erano piccoli, non so io, lavorando, come avrei fatto. E’ morto il 13 aprile 2010. Lamentava un dolore alla spalla, non riusciva neppure a dormire. Era strano per me: non l’avevo mai visto malato. E’ andato all’ospedale e… si è scoperto tutto. Dopo la sua morte, tutto è cambiato. Lui era il sostegno di mia mamma, il suo punto di riferimento; è invecchiata di colpo, prima era sempre allegra, dopo si è intristita, impaurita».
Nicoletta Libero per la morte di Franco Libero.
«Era mio papà, è vissuto a Casale in salita Sant’Anna e faceva il bancario al San Paolo, un uomo attivissimo, anche nello sport, sempre insieme, lui e la mamma. Prima della malattia, aveva un’ottima salute. E’ morto il 12 novembre 2005, aveva 66 anni. A settembre del 2003, quando era tornato dalle ferie guardandolo avevo capito che qualcosa non andava. Effettivamente mi confermò che gli mancava il fiato quando saliva le scale. Poiché sua madre e sua sorella erano morte per problemi cardiaci, si è insospettito e si è fatto visitare da uno specialista, suo amico. E il cardiologo ha capito: “Qui c’è dell’acqua nel polmone”. Quella sera, l’ho portato subito all’ospedale a togliere il liquido. Poi è stato ricoverato al San Luigi di Orbassano, gli hanno fatto il talcaggio e hanno mandato ad analizzare il campione prelevato. Attendevamo l’esisto. Me lo ricorderò sempre…». Il ricordo è straziante, la voce si inceppa. «Era il 30 dicembre, il medico non voleva comunicare la diagnosi, “andate a casa, passate le feste in tranquillità e poi ci rivediamo…”, ma lui insistette, voleva sapere tutto. E così il medico cedette e comunicò il responso. Mio padre gli disse: “Lei mi sta dando la condanna a morte”. E così è stato. A volte mi guardava e diceva: “Non pensavo di ridurmi in questo stato”. Aveva paura per noi, che avessimo potuto essere stati esposti come lui. Tentammo anche una cura che… ma sì, lo sapevamo che era inutile, però, si fa di tutto, no? Lo portammo a Roma, per una terapia alternativa di un americano. Papà non si oppose, ma mi disse: “Io lo faccio per voi. Ma, secondo te, sarò forse io il primo che si salva?”».
Massimo Pozzi, segretario generale della Cgil Piemonte: il sindacato è costituito parte civile al processo Eternit Bis, sempre rappresentato da Laura D’Amico.
Ha evocato la sua esperienza come segretario della Camera del Lavoro di Alessandria, la vicinanza al collega Guglielmo Cavalli (morto di mesotelioma nel 1992, a lui è intitolato il Concorso scolastico che si svolge ogni anno, coinvolgendo migliaia di studenti casalesi, ndr), il convegno sull’amianto promosso nell’84 con il patronato Inca, le lotte e le pressioni per ottenere la legge del 1992 che ha vietato l’amianto in Italia. «Il nostro impegno permane, a ogni livello, perché purtroppo le malattie non sono finite».
IL PRESIDIO FUORI DALL’AULA
Al presidio, organizzato da esponenti dell’Afeva e di Legambiente, che si svolge a ogni udienza fuori dal palazzo universitario, dove ci celebra il processo Eternit Bis, hanno partecipato, lunedì 25, anche una delegazione di lavoratori Ibl per sostenere la lotta contro gli infortuni sul lavoro e l’inquinamento ambientale (nello stabilimento Ibl di Coniolo, pochi giorni fa è morto un operaio, ndr), e una delegazione del Sindacato Pensionati Cgil.
PROSSIMA UDIENZA
La prossima udienza del processo Eternit Bis si svolge lunedì 8 novembre (si salta il 1° per la festività di Ognissanti). Si prosegue con i famigliari delle vittime, – in tutto ne sono convocati 36 – rappresentati da altri legali di parte civile.
Traduzione a cura di Vicky Franzinetti
SILVANA MOSSANO
Monday October the 25th, 2021- Eternit bis hearing
It’s always the same story, the same symptoms – a wheezing cough, back pain, dyspnoea, weight loss -, the same tests – X-rays, CT scans, talc pleurodesis to drain the lungs full of ‘water’ -, the same diagnosis – imagined and feared even without being a doctor -, the same treatment- chemo, experimental treatments and then palliative ones to keep the pain at bay in the final phases, the course of the illness – anxiety, fears, anguish, progressive physical decline and the inconsolable agony of leaving life and loved ones- and the desperate frustration of those who remain, full of anxiety and powerless to cope with the unstoppable decline of those they love, to caress those previously active and lively hands that have become slender, pale and icy.
Each story is everyone’s story with a few differences: men, women and mesothelioma. They stood up to it with courage and dignity, but, for the moment, the malignant carcinoma rabidly attaches itself to the pleura or peritoneum and still prevails. Such are the stories of the 392 victims of the Eternit Bis trial, who make up the long list of names in the charges against Stephan Schmidheiny, accused of causing their deaths by spreading asbestos inside and outside the Eternit plant in Casale, which the Swiss businessman owned and managed directly from 1976 to 1986. The unknowing and blameless victims were more than 392; these are the ones in the trial, promoted by the Public Prosecutors Gianfranco Colace and Mariagiovanna Compare, being held in Novara, before the Court of Assizes, presided over by Gianfranco Pezone (with Judge Manuela Massino and six jury members or popular judges). The real number of deaths in Casale and in the surrounding villages, is much, much higher.
NUMBERS AND STORIES
So far the numbers we have heard the numbers that convey the idea of the magnitude of the tragedy: virtually, we have entered the plant, we have “strolled ” on the “beach” formed by the sewage spilled into the River Po on the left bank, we have travelled far and wide across the city on maps, from the Ronzone Eternit plant, to the warehouses of Piazza d’Armi, to the railway station, in particular the freight yard known as “Piccola Velocità (Low velocity)”.
Yesterday, October the 25th we entered the homes of the ill-fated victims. And although all their stories are similar, each one vents out their frustration in their own way, because it affects their very life and the lives around that shared, loved, respected and counted on it. Family members, plaintiffs in the case, arrived one by one and told their stories with dignified soberness. Every now and then their words stuck in their throats, but it’s just a passing moment, then they resumed. It is not their pain – the pain of those who remain – that they want to relay: they keep that deep inside themselves. Instead, they tell us that it was not yet time for their vital, dynamic, cheerful loved ones to die, that it was an injustice, unfair and that, if research is not funded and a cure is not found quickly, who knows how much longer they will have to suffer injustice.
“She was my mum”. “He was my dad”. “He was my grandfather”. “She was my grandmother”. “He was my uncle”.
Lawyer Laura D’Amico called just under twenty witnesses. She had the microphone placed as close as possible to the bench where the witnesses were seated and she remained standing, for more than four hours, delicately and politely asking the questions to unravel the story.
Maddalena Dusio on the death of Velia Anatrini.
“She was my mother. She was born in the province of Verbania, but had lived in Casale since she was four. She was a housewife. When she began to complain of shortness of breath, even when climbing just four steps, as a doctor, I examined her first and immediately realised there was a pleural effusion. Unfortunately, you see a lot of mesothelioma patients and you know… She was diagnosed in 2001′. A short time later, Dr Dusio had to also diagnose , ‘my brother, who was 63 years old’ of the same disease. She pauses for a few moments to order her thoughts. A moment and the she resumes: ‘In March 2001, my mother had lost a lot of weight, but in January my father had died, she had looked after him during his illness, and I thought that the loss of weight was due to the heavy burden of caring for him’. It was something else.
Daniela Treviso, for the death of Evasio Amisano.
“He was my uncle. Today, here in my place, it should have been his sister, my mother, but she died three years ago, on 15 March 2018. Her name was Carla Amisano, and she too died of mesothelioma.” They lived in the same courtyard. “The uncle was a bricklayer and a ‘scagliolista’ (a specialist of scagliola plaster), a simple man, with a hobby of reading and poetry. A good man, always with a smile on his face”. Until? “The first symptoms were a cold, a bit of a cough. The agony lasted a year, he died in 2013.”
Giulia Allara on the death of Daniela Pezzo.
“She was my mum. She died in 2012 at the age of 53.” She recalls the places where she had lived: ‘In Salita Sant’Anna, then in Casale Popolo and, since 1982, in piazza San Francesco, where there is also a driving school where she worked with dad’. Before she fell ill, ‘she was full of energy, she had many friends, she played cards and loved buraco (a card game like Rhummy)‘. Until the mesothelioma showed its first symptoms in autumn 2011: ‘Just before Christmas the diagnosis was confirmed. She died in October the following year, but from May-June she couldn’t leave the house, she had no strength, she couldn’t stand up. My father and grandmother looked after her. She left me and my sister, I was 25 years old, and she was 15.
Valeria Enrico on the death of Margherita Avonto.
“She was my mum. She died in 2010. I lost my father long before that, in 1965, in an accident at work, as if not enough…’. Her voice fades, then she picks up: ‘Mum always lived in Villanova, she worked the land, she was a simple woman, devoted to her family, as a grandmother she looked after my children, I don’t know what I would have done otherwise… At the beginning of December 2009, she called me, she was worried: “Come, Valeria, come”. When I arrived, her belly was swollen like this [the witness shows it with her hands]. I took her to the emergency room of the hospital in Casale, and they checked her out and diagnosed a mesothelioma of the peritoneum. She stayed there for a month and a half until one day she said to me: “Take me home”. She died a few months later.
Gian Luca Bertola on the death of Adriana Sapelli.
“She was my father’s first cousin, she had always lived in Casale, first in Via Luparia and then in Via Roma, where she died on 17 April 2004. We were her only relatives, so we were very close: we always had Sunday lunch and Christmas together. She worked as a hatter, a hat maker, at home; she only ever went out to go to church “. A year before her death, she “suffered from backache”. That back pain. “They drained the “water” out of her lungs many times, in the end she was admitted to the hospital and my mother looked after her until the end”.
Gabriella Grossetti on the death of Matilde Finotto.
“She was my mother. After a short time in Altavilla, since 1957 she had lived in Casale: Salita Sant’Anna, via Buozzi, via Guglielmo III and via Mantova until her death. She was a housewife, looking after the house and children: me and my sister Giuliana. The first symptoms appeared in November 2003. She phoned me: ‘I’m sick, I’m sick, I can’t breathe’. Tests were carried out and after three months, on 20 January 2004, she passed away. In the end, she couldn’t even speak anymore. The doctor showed me the x-ray: ‘See?’ he said, ‘she hasn’t got a single piece of healthy lung left’. Her lungs had practically been entirely conquered by mesothelioma.
Rachele Ferrara on the death of Vincenzo Ferrara.
“He was my dad. He ran a pizzeria first in Via dei Grani, then in Via Sant’Evasio and finally in Corso Indipendenza. In Casale, in the city centre’! As a boy, he had done his military service [conscription at the time]in the city, at the Mazza Barracks. He was a man who was all about work and family (as well as his mother Maria Di Martino, there are three of us: me and my sisters Monica and Michela), quiet, soft-spoken, and we greatly respected him and followed old-fashioned rules. He died on 24 March 2010, having been diagnosed three years earlier on March the 12th, 2008. He had lost weight and was struggling to breathe, but at first he didn’t mind. He never knew about the mesothelioma, we kept it from him’. Her words fade into a sob. Then she resumes: ‘We looked after him, over the last few months with the help of the Vitas association. Yes, yes, he died at home’.
Massimo Miglietta on the death of Marisa Vescovo.
“She was my mother. Until 1958 she lived in Popolo, a suburb of the city. When she married she moved to Casale in Via Canna, near the Lanza Canal: practically on the route between the Ronzone Eternit plant and the warehouses in Piazza d’Armi. She was a housewife, went out just to shop and was focused exclusively on her family. In 1989 she was widowed, when my father, a bank clerk, died of a heart attack. She took care of my children, born in 2000 and 2004, for the little time she had available”. She died on 19 July 2005. “At the end of October 2004, she complained of chest pains: the X-ray showed a pleural effusion. I am a doctor and, in more than thirty years of practice in Casale, I have only ever seen three cases where the pleural effusion was not mesothelioma”. Then the usual therapeutic procedure: ‘First chemo and then, since it had no effect on the disease, we moved on to palliative care, which I followed, being her attending physician’. His mother was one of the ‘dozens and dozens of mesothelioma patients’ he has treated since becoming a family doctor (GP) in 1990. “She faced the disease with great dignity, she didn’t want it to be spoken of outside, because it was intolerable to her that relationships with others were distorted by compassion. So, as long as she could, ‘she went about her life. In the last few days, she was at the seaside, with my wife and children, because she wanted to help her daughter-in-law and grandchildren. But she was struggling, she couldn’t reach the beach. On Monday, we were supposed to go back to Casale for a check-up, and she wanted to be tidy, so she went to the hairdresser’s. It was a palaver to find a place where it was possible to park nearby, which, is not so easy at the seaside! On Sunday evening we went back to the city, she was sick during the night and… Her idea was to be able to go on for a few years, but instead… instead only 9 months”. Even if he was a doctor, he was powerless to change his mother’s fate. “In Casale there is a dark cloak hanging over everyone. A person who feels a pain in their chest doesn’t go to the doctor to ask for treatment to make the pain go away, they go and ask for an X-ray. We are all involved and suffer from anxiety.
Laura Catalano on the death of Angela Varese.
“She was my mother. A housewife, she lived in Casale, after a short period in Ottiglio from 1968 to 1972. She was a very active woman, she did a lot of things, she helped me raise my children when they were young: they remember all the good things she cooked for them. She was full of friends, she was a member of associations, travelled , followed cultural activities and even helped out in the parish. She died on 18 December 2013. It was very hard because… because… she was healthy, she was healthy until the summer before, in July, when we were in Susa Valley on holiday. She wasn’t well, I took her to hospital and the doctor, after examining her, told me: Mrs Catalano, there’s a problem’. I simply said: “We live in Casale Monferrato” and while my mother wasn’t looking the doctor made a grimace of disgust. She was transferred to the San Luigi hospital in Orbassano. “Even here, when they saw that my mother lived in Casale, the doctors made faces. “And they told me to prepare for the worst. I knew: living in Casale… who doesn’t have friends or relatives who lost family members to this disease, to the disease? At the first bout of first cough you never think of flu, but something serious. At the San Luigi hospital, Angela Varese underwent thalassotherapy (sea water therapy). “When she came out of the operating theatre, she said “I have Casale’s disease”. She was prescribed chemo therapy and the doctor told us: “It’s useless for you to come here, go to Casale where they have great experience, they are even more experienced than us”. For a few months, she wasn’t too bad; she lost weight, she didn’t walk much, but she got by. In September 2013 the situation got worse; she moved into my house. We had the support of the Vitas association: a nurse came every day and a doctor came a couple of times a week; volunteers came to keep her company. They supported her and me too, psychologically. When we had a moment of organisational difficulty, Degio (the oncologist Daniela Degiovanni, ) suggested a temporary stay at the hospice, but I didn’t want that; we gritted our teeth and managed to keep her at home. She died there among us”.
Daniela Torelli on the death of Maria Andreone.
“She was my grandmother, my dad’s mother. She lived in Casale from 1963 to 2000, when she died: in Piazza San Francesco, in Via Sosso, in Corso Indipendenza, in Via Mellana“. Via Sosso, where Maria Andreone lived between 1965 and 1987, “as the crow flies, it is very close to the Eternit plant, where my grandfather worked as a shipping clerk between 1960 and 1980”. And who washed the overalls, asked lawyer D’Amico? “Grandma, of course; grandpa brought them home and she washed them. Her voice suddenly became harsh, and, immediately afterwards, in a softer tone bordering on tenderness: ‘We spent a lot of time together, she brought me up, we had a very close relationship. My grandmother loved to read,’ he recalls. She started feeling unwell in the summer of 1997, and had with back pain. The diagnosis was confirmed at the hospital in Casale in November and she died on 11 April 2000. I remember very well when my grandmother began to get worse; in addition to back pain, she had difficulty breathing, her dyspnoea was accentuated, and the painkillers had little effect. My father was a radiologist: he was well aware of his mother’s illness, but he never wanted to tell her directly what was wrong with her. His daughter-in-law, my mother, looked after her until the end.
Giorgio Guidotti on the death of Luciana Deambrosis.
“She was my mother, I lived with her and, before that, with my brother Sergio who also died of mesothelioma in 1987. My mother had always lived in Casale: in Via Visconti and, since I was born, in Piazza XXV Aprile. She was a brilliant woman: she went dancing, loved to go bowling, had many interests. Job? In her youth, she told me, she sewed coats for the military; then she worked in a factory. She died on 3 October 2005, only lasted a few months. The first symptoms appeared in May: she had a testy cough, it was thought to be bronchitis, but as it wouldn’t go away, I took her to hospital, I was working in the emergency room at the time. The doctor gave her an X-ray and saw the effusion. The CT scan confirmed it was mesothelioma. She was so afraid of suffering the pains of hell that she had seen my brother suffer about twenty years earlier… my brother died…’, He pauses, struggling to get the words out, then says: My brother died like a rabid dog. She and I lied to each other: I tried to deceive her and she let me believe that she took what I told her at face value’.
Fabrizio Ferrero for Francesco Ferrero.
“He was my father, he lived in Ozzano, where he was born in 1931, then in Treville, in Casale and, from 1983, he returned to Ozzano, where he died on 11 July 2011. He had worked at the Eternit plant from 1974 to 1983: he was the chauffeur of the company’s official car, he used to travel from Casale to Genoa (where the company’s registered headquarters were.) to bring documents or accompany executives to the airport. It was a nice car, I… I was proud. Every now and then, my mum would drive us kids (apart from me, there are my sisters Gabriella and Samuela, and my brother Simone) to the factory – yes, there was a lot of dust, I remember. And, above all, my dad said there was a lot of dust. My father was a very quiet person…’. He breaks down and runs a hand over his face. “We were a very close family, he had a piece of land, he did odd jobs around the house. In the summer of 2010, he started to feel unwell. In mid-November, he felt a strong pain in his shoulder bone, I am an osteopath and a physiotherapist, I tried to treat it, but the pain didn’t improve. So he had an X-ray. At the end of the year, the diagnosis was relentless: “He had the disease. For the first few months, he was in fair condition, then came the crash. Between February and March 2011, he gradually found breathing more difficult and he had severe pain in his back. He died at home, looked after by my mum and all of us.
Katia Marinotto on the death of Maria Paola Granziera.
“I am her daughter. My mother was born in Camino, in 1964 she moved to Casale in Oltreponte, and from 1969 to 2002 she lived in Oltreponte, in the house she and my dad had built together. Mum had always worked in the clothing industry, both as an employee and as the owner of a workshop. In the last two years before her retirement, she worked as a clerk in a company in Casale. She died at the age of 60, on 21 March 2002. Before falling ill, she was a hyperactive woman: she used to take long walks in the hills and in the mountains, in the Varaita Valley; she even walked round the Monviso Mountain on foot. She loved being in the midst of nature and when she returned from these long walks, she felt full of energy. And then there were her friends, they came to our house, we had dinners, barbecues. She also managed to find time to help out the elderly, the lonely, the sick. Until? “She never complained, she tended to play it down, but this time it seemed more serious to me, so I insisted on her going to the doctor’s. In June, the X-ray showed that one of her lungs was full of water. At the Molinette Hospital, on 1 July, Professor Maggi operated on her: the operation was complex, because the disease was much more extensive than had been thought. Afterwards, she seemed a little better. What can we say? One hoped. Back home, after convalescence in Veruno, she took a few steps, followed the treatment with painkillers, and then there was the chemo, with its side effects, nausea, vomiting, weakness. My uncle, who had been a nurse, administered the treatment. She died at home; we never left her alone”.
Robert Possedel on the death of Sergio Possedel.
“He was my father, he died at the age of 53. He always lived in Casale, he was a engineer at the old phone company, Sip, which later became Telecom. And he was a judo instructor at a local gym. He died on 30 June 1994. The first symptoms appeared in September, October 1993: an insistent cough, we lived on the third floor, he struggled to get upstairs, he had to take a break and sit on the stairs. It was his last year at work, then he thought he would retire. He never did.
Maura Bagna on the death of Elena Ginepro.
“‘She was my mother, she had always lived in Casale: viale Bistolfi, via Gonzaga, strada Cavalcavia, all addresses near the railway station. She was a nurse (SRN) and, when she retired, did voluntary work and she looked after my children. We had a symbiotic relationship. She died on 5 April 2012. It all started in the summer of 2010, when she experienced chest pain. Like her, I am a nurse and married to a doctor, but neither of us thought that the pain could be caused by something like that. In 2011, the CT scan confirmed the diagnosis of mesothelioma, and to think that the X-ray showed nothing abnormal. Instead, there were already secondaries (metastases) in her ribs. She never knew; against everyone’s advice, I chose not to tell her. She had chemo and it was a disaster. She moved in with me, so she was never alone again. One evening, while taking a shower, she broke her arm (humerus), the result of a bone metastasis. We had to take her for orthopaedics treatment for a while, then to cardiology, where I work, because there was also pulmonary oedema. The last two days she was in the hospice. In short,’ she sighs, closing her eyes, ‘she never left the hospital.
Ivana Roggero on the death of Alessandro Roggero.
“He was my father. He had always lived in Casale, first in Porta Milano, then in the centre and finally not far from the Sobrero Institute. He worked in a bank; he liked to read and travel. He was close to my mum, always together. And he was very close to my children too: he was a very good grandfather, always there for them, he often took them to play in the public gardens, and they adored him. If he hadn’t been there when they were little, I don’t know what I would have done with work. He died on 13 April 2010. He had pain in his shoulder, he couldn’t even sleep. It was strange for me: I had never seen him sick. He went to the hospital and… it all came out. After he died, everything changed. He was my mother’s support, her point of reference; she aged suddenly, before she was always cheerful, then she became sad, frightened”.
Nicoletta Libero on the death of Franco Libero.
“He was my father, he lived in Casale in Salita Sant’Anna and was a bank clerk at the San Paolo Bank, a very active man, a sportsman, always together, him and mother. Before his illness, he was in excellent health. He died on 12 November 2005, at the age of 66. In September 2003, when he came back from his holidays, I saw him and knew something was wrong. He confirmed that he was out of breath when he climbed the stairs. Since his mother and sister had died of heart problems, he became suspicious and went to see a specialist, a friend of his. The cardiologist immediately realised: “There is water in the lung here”. That evening, I took him straight to the hospital to remove the fluid. Then he was admitted to the San Luigi in Orbassano, they gave him a shot and sent the sample for analysis. We waited for the outcome. I will always remember it…’. The memory is heartbreaking, her voice slurred. “It was 30 December, the doctor didn’t want to give the diagnosis, ‘go home, spend the holidays in peace and then we’ll meet again…’, but my father insisted, he wanted to know everything. He insisted, he wanted to know everything. And so the doctor gave in and gave his verdict. My father told him: ‘You are giving me a death sentence’. And so it was. Sometimes he would look at me and say: “I never thought I would end up like this”. He was afraid for us, that we might have been exposed like him. He also tried a treatment that… but yes, we knew it was useless, but you do everything, don’t you? We took him to Rome, for an alternative therapy by an American. Dad didn’t object, but he said: “I’m doing it for you. Do you really believe I will be the first to be saved?”
Massimo Pozzi, secretary general of the Cgil Union for Piedmont
The union is a plaintiff in the Eternit Bis trial, Lawyer Laura D’Amico.
He recalled his experience as secretary of the Union in Alessandria, his closeness to his colleague Guglielmo Cavalli (who died of mesothelioma in 1992, in whose name a school competition is held yearly, involving thousands of students from the Casale area), the conference on asbestos promoted in 1984 with the Inca (the Union’s welfare & assistance branch), the struggles and pressures to obtain the 1992 law that banned asbestos in Italy. “Our commitment remains, at every level, because unfortunately the disease is still with us”.
PICKET OUTSIDE THE COURT
On Monday 25th, a delegation of the Cgil Pensioners’ Union and a delegation of Ibl workers attended the picket, organised by representatives of Afeva and Legambiente, at the court (held in a university building) where the Eternit Bis trial takes place, to support the fight against industrial accidents and environmental pollution (a worker died a few days ago at the Ibl plant in Coniolo).
NEXT HEARING
The next hearing in the Eternit Bis trial will take place on Monday November the 8th , 2021(the 1st of November being All Saints’ Day and therefore a national holiday). It will continue hearing the families of the victims – a total of 36 – called by other plaintiffs’ lawyers.
Non ho più parole. Che FORZA queste grandi persone. Un ricordo sempre più vicino ora che si avvicina la ricorrenza dei fedeli e cari defunti. GRAZIE
Così cogli la vera essenza di questo eternit bis
Ad ogni storia hai dato un volto. Grazie.
Silvana, ho letto tutto il tuo resoconto di questa udienza con lo stesso senso di pugno nello stomaco e di groppo in gola che ho provato leggendo il tuo libro “Malapolvete”. Ti ho pensato,vedi nuovo a raccontare queste terribili storie con la tua solita attenzione, rispetto, direi anche amore per quelle persone e quelllet sofferenze. Grazie ancora una volta per aver dato voce a tutti e per averci coinvolto in prima persona nella tragedia di Casale, soffro assieme a tutti voi per tutto questo. Un abbraccio a tutti