SILVANA MOSSANO
Reportage del 21 marzo 2022
Si è detto già più volte: la storia di Casale è stata quella di una factory town. Casale & l’Eternit come Alessandria & Borsalino, come Torino & Fiat, come Ivrea & Olivetti.
A Casale, nello stabilimento Eternit si sono realizzati per ottant’anni manufatti contenenti amianto, ma, a differenza degli altri citati binomi città-fabbrica, qui, anche dopo la chiusura della fabbrica nel 1986, il cordone ombelicale non si è ancora reciso. Lo si vorrebbe recidere, eccome, ma la fibra di amianto ha una perfida caratteristica: causa il cancro maligno chiamato mesotelioma dopo una latenza lunghissima, anche di 20, 30, 40 anni. Ci si ammala ancora, si muore ancora: ecco perché a quell’epopea siamo ancora legati.
Nella Storia di Casale, le storie dei casalesi si assomigliano, sono animate dalle stesse immagini, dagli stessi ricordi, da racconti simili.
Gli avvocati Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva, difensori storici dell’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, già imputato di disastro doloso nel maxiprocesso Eternit (prescritto nel 2014) e ora imputato di omicidio volontario nel processo Eternit Bis, hanno chiamato a testimoniare in Corte d’Assise a Novara una novantina di famigliari di vittime dell’amianto: nel capo di imputazione a carico dell’imprenditore svizzero l’elenco dei morti casalesi è composto di 392 nomi (in realtà, sono molti di più, qui ne è indicata soltanto una parte).
Oltre una ventina di testi sono stati ascoltati il 16 marzo, lunedì 21 una quindicina, quelli che restano dovranno presentarsi lunedì 28 marzo. Alcuni hanno inviato certificati medici per giustificare l’assenza e per altri gli stessi difensori (in aula i titolari erano sostituiti da Alessio Di Amato e da Maria Cristina Amoruso) rinunciano all’ascolto.
In fondo, dicono suppergiù le stesse cose che, tra l’altro, sono già descritte nelle schede personali compilate per ciascuna vittima e contenute nel fascicolo processuale. La difesa, forse, ha immaginato che i racconti dalle vive voci dei famigliari delle vittime avrebbero potuto rimanere più impressi nella memoria dei giudici della Corte (il presidente Gianfranco Pezzone, il giudice togato Manuela Massino e i sei giudici popolari): soprattutto, che rimanessero scolpiti quei particolari finalizzati a insinuare dubbi sulle responsabilità dall’imputato, per evidenziare quelle cui lui non deve rispondere.
Quali sono le esposizioni di cui l’imputato non deve rispondere? Quelle, ad esempio, provenienti dalle coperture di amianto sulle case, sui garage, sulle scuole e sui capannoni: i tetti, infatti, erano installati legalmente, quando ancora non erano vietati dalla legge.
E quali sono i tempi di contaminazione che non possono essere attribuiti a Schmidheiny? Quelli precedenti al 1976: è infatti da quell’anno, e fino alla chiusura dello stabilimento nel 1986, che l’imprenditore svizzero è gestore effettivo della società. Se sono mancate precauzioni (ad esempio l’installazione di aspiratori o l’utilizzo di dispositivi di protezione) o ci sono stati impieghi indiscriminati e criminosi dell’amianto (ad esempio, la frantumazione di manufatti a cielo aperto, o la disinvolta distribuzione di polverino e altri scarti ai cittadini) risalenti a un momento anteriore, sarà colpa di chi c’era prima di Schmidheiny e che oggi, per motivi anagrafici, non c’è più. Se, al contrario, quel tipo di condotte sono avvenute tra il 1976 e il 1986, è l’imprenditore svizzero che ne deve dare conto.
Qualche volta, la chiamata dei famigliari delle vittime non giova alla difesa. Era già accaduto il 16 marzo, e si è ripetuto in qualche caso anche lunedì 21.
Ad esempio, Nicoletta Minazzi, invitata a testimoniare in merito alla morte per mesotelioma di suo padre Ferdinando. «Mio papà è sempre vissuto in una cascina in salita Sant’Anna, faceva il contadino. Se aveva un po’ di tempo… ma era poco… andava a caccia». E c’era il pollaio? Eh sì, quale cascina era priva di pollaio? «C’era, con il tetto di onduline di eternit». Era grande? «Ma no, un pollaietto, piccolo, lo so perché ci pagavo l’Imu». Per i difensori potrebbe bastare così, il pm Gianfranco Colace invece vuole approfondire: lei ha mai sentito parlare dell’area, fuori dalla fabbrica, in cui si frantumavano rottami di eternit? «Allora: ne ho sentito dire, ma non ho mai visto svolgere quell’operazione». Però ne aveva sentito parlare, insiste il pubblico ministero. «Allora…» la testimone prende fiato, e poi: «Io ho lavorato all’Eternit dal 1981 al 1985, prima negli uffici di Genova (dove c’era la sede legale, ndr), dopo in quelli di Casale». E’ pieno periodo di gestione Stephan Schdmiheiny. E che cosa ha visto? «Quando si doveva andare in mensa, per non fare il giro più lungo si tagliava attraverso le aree aperte della fabbrica; passando nelle vicinanze del mulino Hazemag, vedevo gli operai, senza protezioni, che facevano su con le pale quel materiale… ecco, dicevano che arrivava dalla frantumazione… e lo buttavano nel mulino». Nient’altro? «Sì, quando uscivo dal lavoro la mia auto blu sembrava puntinata di lentiggini di polvere».
Ornella Patrucco ha perso la mamma Anna Maria Bonzano, a causa del mesotelioma. «In via Leopardi, dove abitava con mio papà, sì, c’era il tetto di cemento-amianto». E quali famigliari di sua mamma lavoravano all’Eternit? «Mio nonno Ernesto forse ha svolto mansioni di corriere per l’Eternit, suo fratello Sergio è stato operaio all’Eternit e mio papà pure». Per molti anni? «I miei genitori si sono sposati nel 1955, lui lavorava già lì». Da metà anni Cinquanta; ma per quanto tempo il marito di Anna Maria Bonzano, padre di Ornella Patrucco, ha portato a casa le tute da lavare? «Fino agli anni Ottanta di sicuro: quando io mi sono sposata, nel 1978, lui era ancora all’Eternit».
Rosanna Rosada è la figlia di Angela Cabiale: «Mia mamma ha cambiato molte case, non ricordo se nelle vicinanze c’erano tetti di eternit. Però posso dire che, nel breve periodo in cui ha vissuto in Liguria, respirava un’aria più buona, limpida… a Casale, invece, in quegli anni era una feccia». Tra le residenze c’è stata anche quella in strada Cavalcavia, «dove gestiva un negozio di alimentari». Non è vicino allo stabilimento, «no, ma davanti alla bottega passavano i camion che andavano alla “Piccola” (lo scalo merci della stazione ferroviaria, ndr), dove arrivavano e partivano i vagoni con le merci». Si alza, saluta, poi ci ripensa e aggiunge: «Voglio precisare che mia mamma è morta soffocata, è la morte peggiore che possa esistere… non le entrava ossigeno nei polmoni neppure a spingere il respiratore a manetta».
Rosella Adragna è la vedova di Giancarlo Ferraris: «Mio marito faceva il montatore meccanico alle Officine Meccaniche Cerutti». Dove abitava c’era l’amianto? «Non mi pare». Neppure nella casa dei genitori a Vialarda? «Non ricordo». Era stata interpellata a suo tempo per rispondere a un questionario per il Registro Mesoteliomi? «Non mi pare. Quando mio marito si è ammalato è sopravvissuto dieci mesi, ma le pratiche le faceva lui. Io ho un figlio disabile grave, mi devo occupare di lui e poi ho accudito mio marito quando alla fine è stato male». Suo suocero era operaio all’Eternit? «Sì, lui sì, so che aveva l’asbestosi e se l’è portata fino alla morte, avvenuta nel 1989». E fino a quando ha lavorato all’Eternit? «Fino all’85».
Maria Grazia Accatino è la vedova di Mauro Cavallone; Luciana Lucchese è la vedova di Paolo Cavallone. Sono cognate: hanno sposato i fratelli Mauro e Paolo, morti entrambi di mesotelioma a pochi anni di distanza l’uno dall’altro. E’ una storia emblematica: Mauro e Paolo non hanno mai lavorato all’Eternit, ma ci abitavano vicino, nel quartiere Ronzone, in via Rotondino. Vicino quanto? Qualche centinaio di metri? Maria Grazia Accatino si pensa un attimo, si guarda intorno e poi, sicura: «Come da qui dove sono seduta alla fine del salone» (è la lunghezza dell’aula dove, a Novara, si svolge il processo in Assise). Hanno vissuto lì «tutta la vita», «da ragazzi, con gli amici, per le strade giocavano al fulbal» spiega Luciana Lucchese. I genitori dei fratelli Cavallone lavoravano all’Eternit: il padre operaio per 40 anni, la madre fino a che ha avuto i due figli. E di manufatti d’amianto intorno a casa ce n’erano? «Erano dappertutto: nel cortili, nei contorni delle aiuole… io, più che vedere, l’ho sentito dire dai miei suoceri».
Andrea Rosso, figlio di Bianca Raiteri: «Mio nonno lavorava all’Eternit. Poi è andato in pensione, prima che io nascessi, penso nei primi anni Cinquanta». E le tute di suo nonno chi le lavava? «Mia mamma: fino a quando si è sposata e viveva con i genitori le lavava anche lei».
Brunella Pia è la figlia di Letizia Gasperini: «Mio nonno materno lavorava all’Eternit e mia mamma, finché non si è sposata con mio padre, le tute impolverate che lui portava a casa le lavava pure lei».
Vincenzo Lumello, vedovo di Graziella Castelletti: «Mia moglie non ha mai lavorato all’Eternit». Nella casa dove vivevate in via Aliora c’erano manufatti di amianto? «No, niente». E il garage? «Non avevamo garage».
Pierluisa Mongiani, figlia di Violanda Castelli. Dove ha vissuto sua mamma? «In via Oggero, subito dopo lo stabilimento Eternit, fino ai primi anni Sessanta. Poi in via Matteotti». In via Oggero c’erano manufatti di amianto? «Sì, cortile, tetti, orti… tutto». E in via Matteotti? «No, no, lì no».
Tiffany Fumia, vedova di Giorgio Costanzo: «Mio marito è vissuto nella frazione Casale Popolo e, poi, in città in via Morano. Quando ci siamo sposati, negli anni Duemila, abbiamo preso casa al Valentino». C’erano manufatti di amianto? «A Popolo sì, credo, mio marito mi diceva che erano nel cortile, nelle delimitazioni degli orti, su un capanno degli attrezzi». E, al Valentino, la vostra casa era attigua alla sede di una concessionaria con tetto di eternit? «Sì, ma quella copertura è stata rimossa e bonificata quando siamo andati ad abitare lì».
Daniele Pia è il figlio di Francesca Bertana: «Mia mamma faceva la maestra, ha insegnato in alcuni paesi e in città, a Oltreponte, alla scuola XXV Aprile». Dove è vissuta? «Prima in viale Marchino e poi in via Boccaccio. Sì, in questa casa il tetto era d’amianto, l’avevano posato nel 1974». La maestra Bertana ha lavorato fino all’anno scolastico 1996/97. «Nel ’98 ha manifestato i primi sintomi del mesotelioma, nel ’99 è mancata».
Mario Crosio è il figlio di Giovanni Crosio: «Ha abitato in via Gonzaga e in via Cobianchi»: praticamente nello stesso pugno di metri tutta la vita. E c’erano manufatti di amianto nella zona? «Sì, il tetto del garage su cui si affacciava la cucina e, poi, anche nei garage intorno: era circondato. C’era pure la scuola media Leardi, con tutta la copertura di eternit».
Vincenzo e Maria Costa, figli di Calogera Di Perri. Tutti nati in Sicilia e poi emigrati a Casale. C’era amianto nelle case dove siete vissuti? «Sì, quello dei tetti… Mia mamma è morta per quella malattia lì, ce lo hanno detto all’ospedale, noi non sapevamo neppure che cosa fosse».
Giovanna Celoria, vedova di Primo Dusio: «Mio marito aveva una ditta in proprio, per 40/45 anni, ma, prima del 1973, era stato manutentore idraulico, forse svolgeva quelle mansioni anche dentro l’Eternit». Dove ha abitato? «Da scapolo a Oltreponte e, quando ci siamo sposati, in via Bassano Del Grappa». E lì c’erano manufatti di amianto? «Un tetto, sì, è stato rimosso nel ‘90».
Prossime udienze
Il 28 marzo saranno ascoltati gli ultimi famigliari citati dalla difesa.
Seguiranno le udienze dedicate all’esame dei consulenti (a partire dai tecnici contabili, per proseguire con gli igienisti, e via via gli altri esperti).
Sono fissate le date: 4 e 11 aprile; 16, 23 e 30 maggio; 22 giugno; 11 e 18 luglio.
Salvo imprevisti, a settembre dovrebbero tenersi le udienze dedicate alla discussione (requisitoria e arringhe) per arrivare alla sentenza di primo grado presumibilmente tra ottobre e novembre.
Intanto, il 23 marzo comincia la discussione nel filone dell’Eternit Bis che si svolge in Corte d’Assise a Napoli, per otto vittime di mesotelioma di Bagnoli. Anche in quel caso, l’imputato Schmidheiny risponde di omicidio doloso.
Grazie Silvana per la tua “narrazione” ma sono profondamente amareggiato quando si continua a parlare..parlare… e non si raggiunge mai a una conclusione. Chi non c’è più non può testimoniare le sofferenze subite per poi passare all’altra riva. Altro che “guerra” altro che “pandemia” . Cosa lasciamo ai nostri figli, nipoti?!!! ?
Grazie Silvana, complimenti per le sintesi delle testimonianze: ne trai in poco spazio il senso umano più profondo e il significato di questa terribile tragedia ed enorme ingiustizia .
… e come sempre in Italia si parla, si parla, si parla, si gira e si rigira e alla fine la responsabilità è sempre del signor NESSUNO. Grazie Signora Silvana per le Sua cronache sempre empatiche e mai scontate. Una teste.
… e alla fine, gira che ti rigira, come sempre accade in Italia, la responsabilità sarà di nessuno. Grazie sig.ra Silvana per le sue cronache mai scontate e cariche di empatia. Una teste.