Nel 2024 sono stati segnalati 74 nuovi casi di mesotelioma nell’Alessandrino. Il dato è stato fornito, in un’intervista a La Stampa, dall’oncologa Federica Grosso, responsabile della struttura Mesotelioma e Tumori rari dell’azienda ospedaliera di Alessandria, a scavalco con Casale Monferrato. Sono tanti, signor Schmidheiny, uomini e donne giovani, che avrebbero avuto diritto a tanta vita ancora. L’amianto uccide (tanto più che in alcuni Paesi del mondo ancora lo si usa) e continuerà a uccidere fino a che non si troverà una cura. E’ la pri-o-ri-tà. Non si tiri indietro, signor Schmidheiny. Il mondo ne ha bisogno. E, in coscienza, anche lei.
RIEPILOGO
Repliche della difesa: avvocato Astolfo Di Amato
@ Posizione di garanzia
@ Impossibilia nemo tenetur
@ Lavorare l’amianto in sicurezza
@ Le conoscenze di Schmdheiny
@ Robock e il Sil
@ Investimenti in sicurezza
@ Materiali alternativi
@ La gestione dell’immagine
@ Perché non ha chiuso?
Cavagnolo: la Cassazione rimanda per la terza volta in Corte d’Appello
PREMESSA

«Che cosa c’è a carico di Stephan Schmidheiny? C’è una tragedia in cerca di un colpevole». Che, per il difensore Astolfo Di Amato, non è Schmidheiny: non è Schmidheiny, dice, ad aver causato la morte (né dolosa, come insiste la procura, né colposa, come ha sentenziato la Corte d’Assise di Novara) di 392 casalesi uccisi dal mesotelioma scatenato dall’amianto.
L’udienza di mercoledì 19 marzo è stata dedicata agli argomenti di replica dell’avvocato Di Amato. Nella prossima data, 17 aprile, conclusiva del processo d’Assise d’Appello del filone casalese Eternit Bis, parlerà il codifensore Guido Carlo Alleva prima che la Corte, presieduta da Cristina Domaneschi, si ritiri in camera di consiglio per decidere il verdetto.
L’accusa su cui insiste la procura generale è omicidio volontario (con dolo eventuale). La Corte d’Assise di Novara, nel giudizio di primo grado, aveva invece riqualificato il reato in omicidio colposo aggravato e condannato l’imprenditore svizzero a 12 anni di reclusione per 147 morti; l’aveva assolto per 46 casi e aveva dichiarato la prescrizione per 199 vittime.
LA CONDOTTA

Posizione di garanzia
Nella sentenza del filone di Cavagnolo dell’Eternit Bis (uno dei quattro filoni in cui era stato suddiviso l’originario fascicolo unico), la Cassazione ha riconosciuto, in capo all’imputato, la titolarità della posizione di garanzia.
In parole semplici: Schmidheiny era il responsabile effettivo della gestione dell’Eternit.
La pg Sara Panelli e i pm Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare hanno sottolineato che, come è stata già acclarata dalla Cassazione la posizione di garanzia nel filone di Cavagnolo, altrettanto lo dovrebbe essere nel filone casalese di cui è in corso il processo d’Appello in Corte d’Assise, ma l’avvocato Di Amato non è d’accordo. E dice: «Utilizzare lo schema del processo di Cavagnolo per attribuire a Schmidheiny la diretta responsabilità anche nel filone casalese non è corretto». Si vedrà che cosa deciderà la Corte di Torino.
Impossibilia nemo tenetur
Nessuno è tenuto a fare cose impossibili. Il principio viene richiamato dal difensore per rimarcare un aspetto già a suo tempo discusso. «Il dirigente di una grande impresa non può essere ritenuto responsabile di tutto ciò che accade nelle sue fabbriche», perché «non può seguire contemporaneamente tutti gli adempimenti». E’ il caso di Eternit, che «è un gruppo di mille società, con oltre sessanta stabilimenti nel mondo solo del settore amianto» ricorda il professor Di Amato. Pertanto, al suo assistito non può essere attribuita una concreta responsabilità per lo svolgimento delle attività nella fabbrica di Casale, oggetto del processo torinese.
Non esclude che possano esserci stati problemi legati, ad esempio, alla frantumazione a cielo aperto degli scarti che si svolgeva giorno e notte tra le case o ai trasporti su camion non protetti, oppure difficoltà dovute alla manutenzione eseguita in maniera non corretta; l’aveva detto anche uno dei consulenti della procura: «La manutenzione veniva meno». «Ma – si domanda a voce alta il difensore – è il capo del gruppo che deve farsi carico della manutenzione?».
Lavorare l’amianto in sicurezza
All’epoca – anni Settanta-Ottanta -, si sapeva già che l’amianto era pericoloso, ma, insiste la difesa, c’era la convinzione che si potesse lavorare in sicurezza, adottando degli accorgimenti. «Lo diceva pure Selikoff» ribadisce Di Amato. Irving Selikoff era lo scienziato che, nel 1964, alla Conferenza internazionale di New York, aveva lanciato un preciso allarme e cioè che l’amianto è cancerogeno, causa il mesotelioma e colpisce non soltanto chi lo lavora, ma anche chi vive in luoghi contaminati dalla fibra.
Di Amato, però, richiama altre dichiarazioni di Selikoff, di una decina di anni dopo: «Ammetteva la possibilità di lavorare l’amianto in sicurezza, perché all’epoca si riteneva che il mesotelioma fosse la conseguenza di esposizioni massicce». E aggiunge: «Soltanto nel 1997, alla Consensus Conference di Helsinki, si affermò che anche una dose minima di amianto causa il mesotelioma. Ma si è saputo dopo». In realtà, Selikoff, nel 1978, aveva dichiarato che erano sufficienti dosi molto piccole di amianto per causare il mesotelioma.
Ma la considerazione della difesa, tralasciando quest’ultima posizione dello scienziato, è che, anche se l’imprenditore svizzero conosceva i rischi dell’amianto, «Schmidheiny era coerente con Selikoff» circa la possibilità di utilizzare la fibra in sicurezza.
Le conoscenze di Schmidheiny
Ma, di preciso, che cosa sapeva Stephan Schmidheiny sulla cancerogenicità dell’amianto, dal momento che negli anni Cinquanta e Sessanta c’erano già diversi studi che ne davano prova? Secondo la procura, non c’è dubbio che l’imputato ne fosse perfettamente a conoscenza, tanto più che faceva parte del gotha mondiale dell’imprenditoria dell’amianto.
Però, obietta Di Amato, «negli anni Sessanta il padre Max Schmidheiny aveva mandato il figlio Stephan in Brasile a lavorare in uno dei suoi stabilimenti, per impratichirsi. Se il padre fosse stato convinto che usare l’amianto non era sicuro, avrebbe mandato il figlio a lavorare in mezzo agli operai? È illogico e irrazionale».
O forse Max Schmidheiny riteneva di non esporre il figlio a un grave rischio visto che in Brasile si impiegava il crisotilo (amianto bianco), meno pericoloso (e all’epoca era convinzione diffusa) della più terribile crocidolite (amianto blu).
Secondo l’accusa, però, il convegno di Neuss è una prova inossidabile di quanto Stephan fosse consapevole del binomio amianto-mesotelioma: «Lo disse ai suoi massimi dirigenti e li scioccò, richiamandoli immediatamente a comportamenti consoni che non facessero cadere nel panico tutti i lavoratori, con ripercussioni negative per la sopravvivenza delle aziende» hanno ripetuto pg e pm, riportando le dichiarazioni virgolettate dell’imputato, tratte dai verbali di Neuss.
Il difensore, però, lamenta che alcuni di quei virgolettati dei verbali sono stati omessi: «A Neuss, Schmidheiny ha affermato, sì, che l’uso dell’amianto implica dei pericoli, ma proprio per questo ha dato indicazioni per attuare iniziative di prevenzione. E ha detto ai suoi massimi collaboratori: “E’ importante che subentri un cambiamento di atteggiamento e di mentalità in tutte le più alte dirigenze: la tutela dei lavoratori e dell’ambiente deve diventare cosa ovvia così come lo sono le norme che riguardano la produzione e la qualità”».
Robock e il Sil
L’avvocato Di Amato sostiene che Schmidheiny, proprio per promuovere quel «cambiamento di mentalità», ingaggiò lo scienziato Klaus Robock. Per la procura uno scienziato al soldo dell’industria. Per la difesa, «uno dei più esimi scienziati al mondo esperto nella misurazione delle fibre di amianto»; nel suo necrologio del 1992, fu compianto come «figura di spicco internazionale in tutti gli aspetti della sua ricerca». È Robock che dà le direttive tecnico-scientifiche, è Robock che dà l’input per istituire il Sil (Servizio di igiene sul lavoro) e ne istruisce gli addetti.
Di Amato contesta la procura che ha accusato il Sil, attribuendogli la mera «funzione di produrre numeri farlocchi» nei campionamenti delle fibre, eseguiti, secondo l’accusa, escludendo a priori le postazioni e i luoghi in cui era prevedibile una maggiore concentrazione di polveri.
Sulla base di quei numeri, lo ricordiamo, l’Inail si era bevuta la giustificazione che l’Eternit, ridotti i limiti di fibra, non fosse più tenuta a pagare il sovrappremio per le lavorazioni dell’amianto e, di conseguenza, nei primi anni Ottanta, a sorpresa era stata negata la cosiddetta rendita di passaggio a molti operai prossimi alla pensione. Furono promosse diverse cause di lavoro.
Per il difensore, invece, «il Sil era un organismo all’avanguardia che non esisteva in nessun’altra azienda del settore» e «gli addetti del Sil non erano spacciatori di numeri: andavano a fare rilievi dove c’era amianto, essi stessi erano i primi a essere esposti! Ci vuole una considerazione di rispetto per loro».
Investimenti e sicurezza
Schmidheiny – «ben consapevole del pericolo causato dall’amianto» come ha insistito la procura, ma «deciso a far sì che la tutela dei lavoratori e dell’ambiente diventi cosa ovvia» come ha ribadito la difesa – quanto ha speso in sicurezza? Cioè, quanto ha investito per impedire la pesante diffusione di fibre che, come hanno insistito i suoi legali, sarebbe stata precedente alla sua gestione (ante 1976)?
Nell’ultima udienza, il professor Di Amato ha riproposto ai giudici un filmato Luce che riproduce le condizioni di lavoro nello stabilimento Eternit del Ronzone negli anni Trenta. L’accusa, mostrando lo stesso filmato, aveva commentato: «Nel periodo ’76-’86, non è cambiato molto da allora». Il difensore ha replicato nettamente, producendo alcune fotografie, fornite dal consulente di parte, ingegner Giuseppe Nano, e riferite al 1977-1978, e ha commentato: «La situazione negli anni Settanta è completamente diversa: amianto in giro non ce n’è più».
Amianto in giro dentro la fabbrica non ce n’è più alla fine degli anni Settanta? Qui una riflessione è opportuna e parte da un interrogativo: il professor Michele Salvini, dell’Università di Pavia, all’inizio degli anni Ottanta, quando ha ispezionato lo stabilimento di Casale, ma che cosa ha visto? Giova ricordare che il professor Salvini era stato incaricato dal giudice del lavoro, Giorgio Reposo, di eseguire una perizia nell’ambito delle già citate cause per la cosiddetta rendita di passaggio. Parliamo del famoso sopralluogo del perito che si fece dare una scaletta e trovò polvere d’amianto nei punti un po’ più alti (sporgenze e scannellature dei muri, interruttori, davanzali…) dove la pulizia preparatoria alla sua visita non era stata fatta. Una svista? O la presunzione che, tanto, in quegli angolini chi sarebbe mai andato a vedere? Invece, proprio i risultati di quella meticolosa relazione, da cui emergeva abbondante presenza di amianto, consentirono al giudice di decidere l’esito di quelle cause civili, concluse tutte a favore degli operai.
Ecco perché, ora, fa un po’ strano sentir dire che nel 1977-1978 «di amianto in giro non ce n’è più». L’avvocato Di Amato, invero, una spiegazione la dà: «I risultati cui giunge Salvini non sono in contrasto con i risultati del Sil, secondo cui c’era amianto, ma al di sotto dei limiti».
Be’, sempre riagganciandoci alla finalità per cui fu disposta quella perizia (ossia di essere strumento dirimente in una serie di processi), e considerando che, proprio sulla base di quei rilievi, un giudice scrupoloso e severo come il dottor Reposo diede ragione agli operai, viene da dire che la quantità di amianto rilevata dal professor Salvini non era proprio, come dire, robetta!
Ma torniamo agli investimenti. È stato un capitolo di discussione ampiamente dibattuto sia nel processo Eternit Bis sia già nel Maxiprocesso Eternit Uno. La difficile ricostruzione degli afflussi di denaro è stata più volte ragionevolmente motivata dalla difesa: molta documentazione della società Eternit è andata distrutta in un’alluvione, avvenuta a Genova, dove c’era la sede legale.
Ognuna delle parti, quindi, ha dovuto farsi bastare quel che è rimasto.
Secondo la procura, che si è affidata al consulente Paolo Rivella, gli investimenti specifici per la sicurezza sono stati pochi: ritiene provati interventi per 4 miliardi di lire.
Secondo la difesa, invece, le cifre spese furono ben più sostanziose. Lo ribadisce l’avvocato Di Amato: «Una cosa è certa: tra il 1983 e il 1986 dalla Svizzera sono pervenuti a Casale oltre 81 miliardi di lire, una cifra enorme, di cui oltre 30 miliardi in spese per la sicurezza, in parte per sostituire impianti obsoleti con altri nuovi, i quali, oltre a garantire una produzione migliore, erano più aggiornati e più sicuri».
Anche qui è utile farsi una domanda: premesso che il fallimento dell’Eternit in Italia è del giugno 1986, ma che, come abbiamo ascoltato al processo, la decisione di farla fallire era già stata presa dalla società nel 1983 a Zurigo, qual è stata la ratio di convogliare 81 miliardi di euro in uno stabilimento vecchio e arretrato che, proprio in quegli anni, si era già deliberato di chiudere? Anni in cui, tra l’altro, si tenevano buoni sindacati, amministratori locali, lavoratori prospettando la costruzione di una nuova fabbrica in strada Valenza? Non è legittimo domandarselo?
Il difensore, però, tira dritto: «L’impegno di Schmidheiny per la sicurezza è stato massimo. Il dottor Castelli, commissario giudiziale dell’amministrazione controllata che precedette il fallimento, scrisse nella sua relazione: “I concorrenti del settore non hanno fatto analoghi investimenti nella sicurezza. È urgente che il Governo italiano obblighi con una legge tutti i produttori a fare onerosi investimenti”» (sottinteso: come ha fatto l’Eternit). Di Amato richiama, inoltre, uno stralcio della sentenza del gup di Torino, Federica Bompieri, che nel 2017, con la riqualificazione del reato da omicidio doloso a colposo, aveva «spacchettato» il fascicolo unico Eternit bis in 4 filoni, per ognuno dei quali c’è stata una storia processuale autonoma. La giudice Bompieri aveva scritto che «durante la gestione di Schmidheiny era stata prestata attenzione alla specifica problematica della sicurezza, con l’introduzione di metodiche e innovazioni tecnologiche che avevano effettivamente ridotto la diffusione di fibre di amianto».
Il legale cita infine il curatore dell’Eternit, che, dopo il fallimento del 1986, scrisse una relazione in cui riferiva di possibili trattative per consentire la ripresa dell’attività produttiva nello stabilimento casalese. Ciò a significare, osserva il professor Di Amato, che la fabbrica non era nelle condizioni di abbandono che sono state descritte dalla procura, se la si poteva prendere in considerazione per una nuova immediata fruizione.
Diciamo, onestamente, che, nel 1986, appena messo il lucchetto al cancello, nello stabilimento forse non c’erano i tetti sfondati e le finestre rotte, perché quei guasti sono stati prodotti dalle intemperie e da una mancata costante manutenzione. Ma il resto… I numerosi, pericolosissimi sacchi pieni di amianto, accatastati disordinatamente negli stanzoni – sì, proprio abbandonati – quelli non ce li ha portati il maltempo. Sono stati documentati con non minore precisione da quanti li hanno visti di persona, e non è uno scherzo della memoria che, con il passare del tempo, mescola confusamente le tessere dei ricordi. Anche in questo caso, oltre ai ricordi, ci sono le foto.
Materiali alternativi
C’erano sì o no dei materiali alternativi per sostituire l’amianto nell’impasto che serviva per produrre i manufatti (lastre e tubi)?
Si studiavano, ma, spiega il difensore citando la testimonianza resa nel 2010 dell’ingegner Silvano Benitti, ex dirigente Eternit, «c’era molto scetticismo. Le lastre realizzate con materiale sostitutivo – disse il tecnico – dopo 7 o 8 anni si screpolavano ed erano tutte da buttare via!». L’avvocato Di Amato riassume: «Nessuno aveva fiducia che una fibra di plastica potesse sostituire la fibra di amianto».
E’ una spiegazione più che logica.
Senonché, viene da chiedersi: ma il dirigente Leo Mittelholzer, ultimo amministratore delegato di Eternit in Italia, che cosa era andato a raccontare, negli anni Ottanta, ai piccoli concorrenti italiani del settore amianto? Lui stesso aveva spiegato che, ovviamente su input del vertice, li aveva contattati per convincerli a sostituire l’amianto con fibre alternative, dal momento che la sempre maggiore consapevolezza dei rischi creava problemi e proteste; aveva detto loro che l’Eternit avrebbe messo a disposizione il proprio know how, purché tutti adottassero le fibre alternative. E come era andata a finire? Sempre Mittelholzer lo spiegò al Maxiprocesso 1: i piccoli e medi produttori non accettarono, perché un cambiamento era comunque costoso. Tanto valeva sfruttare l’amianto fino a che non fosse stato bandito per legge (1992). E così? Così anche l’Eternit continuò a lavorarlo, per non trovarsi in una condizione di svantaggio sul mercato.
La gestione dell’immagine
Uno dei temi su cui l’accusa ha molto insistito, nella ricostruzione complessiva della condotta dell’imputato, riguarda il reclutamento, dopo il 1983, di Guido Bellodi, professionista milanese della comunicazione, con lo scopo, secondo l’accusa, di «nascondere» il ruolo e la responsabilità di Schmidheiny e di impedire che, in eventuali inchieste e processi, si risalisse in qualche modo a lui (il cosiddetto «livello 4», che veniva citato semplicemente con la sigla «STS»).
Il difensore fornisce un’altra interpretazione. L’Eternit Italia era in amministrazione controllata ed era destinata al fallimento. Dice il legale: «Era come se si fosse trattato del fallimento di una azienda della galassia Fiat». Andava gestita l’immagine.
Così fan tutti. E questo non scandalizza per nulla, è consueto, normale e comprensibile.
Perciò, Bellodi, in modo professionalmente corretto, assolse al compito assegnato e costruì un piano d’azione che rispondesse alle finalità indicate. Non torniamo ora a parlare delle «antenne» pagate per captare, segretamente, segnali di reazioni e iniziative di sindacati, politici, giornalisti nei vari territori, e neppure del «manuale Bellodi» contenente il cosa dire e cosa fare se qualcuno faceva domande insidiose.
Nell’udienza del 19 marzo scorso, oltre a ribadire che «non c’è nessun documento firmato da Schmidheiny» che lo colleghi a Bellodi, il difensore, su questo tema, ha tenuto a puntualizzare che, in realtà, tutta questa attività di nascondimento su cui ha insistito la procura, indignandosi, non era poi così segreta. O, meglio, ha specificato che non era segreto chi fosse il vertice svizzero dell’Eternit. Tanto è vero che – ha ricordato – il sindaco Riccardo Coppo, nel 1985, scrisse una lettera chiedendo conto del futuro dell’Eternit; e a chi la indirizzò? «A Schmidheiny, nella sede di Niederurnen».
Chiosa l’avvocato: «E quindi dov’è tutto questo mistero sul nome di Schmidheiny?». L’obbiettivo del legale, citando quella missiva, è di sottolineare che «non è vero che Schmidheiny si comportava secondo i suggerimenti di segretezza impartiti da Bellodi».
Per contestualizzare, ricordiamo che la lettera è datata 24 settembre 1985. Il sindaco Coppo testimoniò, al Maxiprocesso, che aveva scritto all’azionista di maggioranza per dirgli che era «fortemente preoccupato per il calo occupazionale nella fabbrica, per il grave degrado dello stabilimento, ma soprattutto per le conseguenze gravi che la lavorazione dell’amianto aveva sulla salute di lavoratori e cittadini». Coppo faceva anche notare che da tempo si parlava di quelle famose fibre alternative e di una nuova sede dell’Eternit: a che punto si era? Il sindaco non ricevette nessuna risposta. Trasse una conclusione: «Ci sentimmo presi in giro».
Perché non ha chiuso?
Al termine dell’articolata e puntuale ricostruzione della condotta dell’imputato, il professor Di Amato ha ripreso un ultimo tema stigmatizzato dall’accusa e dalle parti civili: di fronte alla consapevolezza del grave pericolo causato dall’amianto e nell’impossibilità tecnica di eliminare il rischio o adottare fibre alternative, l’imputato avrebbe dovuto chiudere la fabbrica. Perché non l’ha fatto?
Il difensore ha fornito alla Corte la propria risposta: «Perché non è dimostrato che lui fosse consapevole che l’unica scelta possibile per salvare le persone fosse quella di chiudere lo stabilimento».
Cavagnolo: La Cassazione rimanda in Corte d’Appello
Per la seconda volta, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza emessa nei confronti di Stephan Schmidheiny nel filone di Cavagnolo dell’Eternit Bis. E’ accaduto venerdì 21 marzo.
Tecnicamente si dice: annullamento con rinvio. Significa che il fascicolo torna per la terza volta in Corte d’Appello. Bisognerà attendere le motivazioni della Suprema Corte, ma è chiaro che la decisione romana di venerdì è legata alla delicata questione del cosiddetto «nesso causale».
E’ un nodo cruciale. Praticamente si chiede di appurare, con il sostegno della scienza, che una persona si è ammalata di mesotelioma a causa delle fibre respirate in un preciso periodo (in questo caso, tra il 1976 e il 1986, quando a capo dell’Eternit c’era Stephan Schmidheiny) o che comunque le fibre respirate in quel decennio hanno contribuito a causare il cancro.
Che cosa è successo per Cavagnolo? Intanto, va detto che quel filone del processo riguarda una sola vittima, morta per asbestosi, malattia legata all’amianto e dose-dipendente.
L’imputato era stato condannato in primo grado e poi in secondo grado dalla Corte d’Appello di Torino a un anno e 8 mesi di reclusione. La Cassazione aveva annullato una prima volta con rinvio chiedendo di motivare meglio il nesso causale.
Tornato il fascicolo a Torino, i giudici di Corte d’Appello diversi dai precedenti avevano confermato la condanna argomentando più dettagliatamente e ampiamente la questione del nesso causale. E’ quella seconda sentenza che è stata discussa venerdì 21 marzo in Cassazione, ma anche questa volta c’è stato l’annullamento con rinvio. Erano presenti i difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva. Per le parti civili, i legali Laura Mara, Giacomo Mattalia e Alessandra Guarini.
Adesso il fascicolo torna nuovamente in Corte d’Appello a Torino. Il caso, comunque, trattandosi di omicidio colposo, è destinato a prescriversi a breve.
Non ho parole per commentare la sentenza . Tempi biblici … usati ad arte . E intanto si continua a morire …. Grazie Silvana per tuo impegno . Ora credere nella Giustizia diventa sempre più difficile !
Sono d’accordo con quanto scrive Migliavacca. È veramente deplorevole che si sia ancora a questo punto.
Grazie. Silvana, sei sempre precisa e chiarissima. Graxie di cuore.
Grazie per la chiarezza. Tutto tristissimo e scoraggiante