Signor Schmidheiny, il suo difensore ha affermato che vanno cercate fuori dal processo penale le soluzioni per cicatrizzare le lacerazioni prodotte da questa tragedia apocalittica. E ha anche detto che è un punto fermo che il mesotelioma è provocato dall’amianto. Ovunque lo si sia lavorato e chiunque lo abbia impiegato. Poi ha espresso un auspicio formidabile e pienamente condiviso: «Spero con tutto il cuore che un giorno si arrivi alla cura per questa maledetta malattia». Non pensa, signor Schmidheiny, che sia giunto il momento per impegnarsi finanziando e coordinando personalmente la ricerca scientifica per produrre quella cura che guarirà tutti i malati di mesotelioma del mondo? Lo faccia, signor Schmidheiny, lo faccia adesso! Sarà il suo più grande e auspicabile impegno filantropico.
REPORTAGE UDIENZA 11 DICEMBRE 2024
«L’amianto è stata una tragedia», ma la vicenda su cui è incentrato il processo Eternit Bis, di cui si celebra il secondo grado in Corte d’Assise d’Appello a Torino,«non è un unicum – ha esordito l’avvocato Guido Carlo Alleva, difensore dell’imputato Stephan Schmidheiny -. E’ una tragedia di proporzioni apocalittiche di cui Casale Monferrato è una parte».
All’udienza di mercoledì 11 dicembre si è completata la fase dedicata alle arringhe difensive; il 4 aveva parlato l’avvocato Astolfo Di Amato.
La Corte, presieduta da Cristina Domaneschi, ha aggiornato il processo a mercoledì 8 gennaio, alle 11, per le repliche della pubblica accusa (pg Sara Panelli e pm Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare) e delle parti civili. I difensori hanno diritto alle ultime repliche nell’udienza di lunedì 17 febbraio alle 9. Poi i giudici, togati e popolari, dovrebbero riunirsi in camera di consiglio per decidere il verdetto (forse in giornata?) nei confronti dell’imprenditore svizzero chiamato a rispondere dell’omicidio volontario (con dolo eventuale) di 392 casalesi morti a causa dell’amianto che fu impiegato all’Eternit nella produzione di manufatti (tetti e tubi).
RIEPILOGO
A – Il contesto della tragedia. L’uso diffuso di amianto in diversi settori
B – La «radice» del Processo Eternit Bis (il Maxiprocesso Eternit 1)
C – Elemento soggettivo del reato. La contestazione del dolo eventuale. I giudici che si sono già pronunciati sull’elemento psicologico
D – Le 392 diagnosi di mesotelioma: verifica della certezza attraverso l’immunoistochimica
E – Nesso di causalità oltre ogni ragionevole dubbio
G – Conclusioni. Insensibilità politica. Non un responsabile a ogni costo. «Schmidheiny va assolto»
APPROFONDIMENTO PUNTO PER PUNTO
A – IL CONTESTO DELLA TRAGEDIA
«Il contesto della tragedia causata dall’amianto non è solo quello di Casale Monferrato». L’avvocato Alleva, rilevando i dati dal Renam (Registro nazionale dei mesoteliomi), ha riferito che, ad esempio, «la Lombardia è la regione con il maggior numero di mesoteliomi (e ha citato il caso di Broni, dove c’era uno stabilimento della Fibronit chiuso nel 1993, ndr) e, in percentuale, l’incidenza della patologia in Liguria è superiore rispetto al Piemonte». Questo perché, ha argomentato il legale, l’amianto veniva utilizzato non soltanto nelle fabbriche che producevano manufatti, ma anche nelle Ferrovie e nei cantieri navali, dove si usava a spruzzo per coibentare le pareti delle carrozze dei treni fino alle fine degli anni Ottanta e delle navi. E si è utilizzato, l’amianto, per diversi scopi, in tutto il mondo, ha insistito Alleva. «In Italia, in particolare, fino a quando è stato vietato con la legge del 1992. Nel frattempo, la gente ha continuato a inalare fibre di asbesto e continuerà purtroppo ancora per anni a sviluppare il mesotelioma».
B – LA «RADICE» DEL PROCESSO ETERNIT BIS
Il difensore si è addentrato nel cuore dell’arringa dopo aver precisato che la radice del processo Eternit Bis (che, per i morti casalesi, si concluso in primo grado con la condanna, da parte della Corte d’Assise di Novara, a 12 anni di reclusione per omicidio colposo di 147 casalesi, la prescrizione per 199 casi e l’assoluzione per 46) è nel maxiprocesso Eternit 1 dove la contestazione era quella di disastro ambientale doloso, sostenuta dal team della procura composto all’epoca da Raffaele Guariniello, Sara Panelli e Gianfranco Colace: «da quella impostazione è derivato tutto il resto; nell’Eternit Bis (dove, invece, il reato contestato è l’omicidio doloso per le singole morti, ndr) si sono riversati gli atti di quel procedimento».
C – ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO
A parere del difensore, «stiamo parlando della stessa condotta attribuita all’imputato che, anche nell’Eternit Bis, è già stata oggetto di valutazione da parte di più giudici». Ha ricordato l’udienza preliminare del gup di Torino, Federica Bompieri, la cui decisione aveva dato luogo al cosiddetto «spacchettamento» del fascicolo originario, nel quale i pm chiedevano l’incriminazione di Schmidheiny per omicidio doloso. Ha riassunto il difensore: «La gup Bompieri riqualificò il reato da doloso a colposo; e la Cassazione, avanti alla quale aveva impugnato la procura, reputò corretta la valutazione di Bompieri; e così il tribunale di Torino che ha giudicato e condannato per omicidio colposo nel filone di Cavagnolo; anche la Corte d’Assise di Napoli nel filone per i morti di Bagnoli ha riqualificato il reato da doloso a colposo, e altrettanto la Corte d’Assise di Novara nel primo grado del filone per i morti di Casale», mentre «il pm di Reggio Emilia, per la tranche dei morti di Rubiera, ha chiesto l’archiviazione, poi disposta dal gip».
Invece, a Torino, nel giudizio di secondo grado avanti alla Corte d’Assise d’Appello, «siamo ancora qui a difenderci da una richiesta di condanna all’ergastolo per omicidio doloso».
Poi ha argomentato i motivi che lo portano a dichiarare che «non ci fu dolo». (Anzi, va oltre: «Non solo non fu dolo, ma non c’è neppure una responsabilità colposa» ha affermato).
Soprattutto a beneficio dei giudici popolari, il legale è partito da un interrogativo: «E’ credibile che il signor Schmidheiny abbia voluto un evento di queste proporzioni?». Ossia che «si sia rappresentato l’evento (le centinaia di morti, ndr) come conseguenza della propria condotta e abbia deciso comunque di agire, cioè di procedere con le proprie azioni, pur sapendo di uccidere centinaia di persone?». In altre parole: nel comportamento di Stephan Schmidheiny si configura il reato di omicidio volontario con dolo eventuale?
A giudizio di Alleva no. Secondo lui, «questo ragazzo di 28 anni, che nel 1976 ha assunto la gestione dell’Eternit, non si era avveduto che non era possibile produrre usando l’amianto senza causare quegli effetti (le morti, ndr). E’ vero, ha sbagliato, ma con la convinzione che non si sarebbe arrivati a una tragedia di queste proporzioni! Un errore, sì, ora lo sappiamo, ma frutto di una sottovalutazione come peraltro è avvenuto in tutto il mondo, in base alle conoscenze dell’epoca!» afferma con convinzione Alleva.
E, però, c’erano già, fin dagli anni Cinquanta, studi scientifici da cui emergeva la nocività cancerogena dell’amianto, «ma – ha replicato il difensore – lo stesso Selikoff, che nel 1964 aveva lanciato l’allarme sull’uso della fibra, nel decennio successivo non era orientato a indicare l’abolizione dell’amianto». C’erano i controlli e le numerose prescrizioni impartite dall’Ispettorato del Lavoro circa le condizioni insalubri nello stabilimento di Casale, «ma neppure l’Ispettorato prese in considerazione l’eventualità di sospendere la produzione» ha insistito il legale. In più, «l’Istituto Superiore di Sanità ha cominciato a preoccuparsi dell’amianto come rischio per la salute solo nel 1980». Ha ammesso l’avvocato: «Il corretto modello di comportamento gestionale sarebbe stato eliminare l’amianto: ma lo diciamo ora, con il sapere di oggi!».
Si insiste su questa tesi: all’Eternit, la strategia industriale fu decisa in base alle cognizioni dell’epoca. E anche il Convegno di Neuss viene descritto dalla difesa attraverso questa lente, ribaltando la tesi dell’accusa. La consapevolezza della nocività mortale dell’amianto e le azioni di minimizzazione e nascondimento per non allarmare i lavoratori e la popolazione costituiscono, per la procura, un evidente elemento di prova del dolo. Invece, per il difensore è il contrario: «La consapevolezza, circoscritta alle conoscenze dell’epoca, ha indotto l’imputato ad adoperarsi per limitare i rischi e, per questo, ha fatto investimenti in sicurezza». Argomento piuttosto controverso nel contraddittorio del processo, ma Alleva insiste: «Sono stati interventi tecnologici migliorativi, ed è stato istituito anche il Sil (un Servizio interno per la sicurezza e l’igiene del lavoro, ndr) per eseguire controlli sulla polverosità che nessun altro faceva». Insomma, Schmidheiny, dice il legale, «adottò quelle misure convinto che un miglioramento delle condizioni di lavoro avrebbe abbassato la curva di mortalità».
Cioè? 392 morti (più i molti altri non elencati in questo processo) sono troppi, ma un po’ di meno si potevano accettare?
Le conoscenze dell’epoca (stiamo parlando del 1976) indicavano già chiaramente l’amianto come cancerogeno, causa di tumori ai polmoni e di mesoteliomi, sia tra i lavoratori sia tra i residenti nei dintorni dei siti produttivi. Se Schmidheiny era consapevole che l’amianto fa morire (ed è un fatto assodato che lo sapesse bene già a Neuss, l’aveva detto lui stesso ai suoi dirigenti fino a choccarli) la decisione avrebbe dovuto essere: «Non voglio farne morire nessuno» e non invece «Cerco di farne morire un po’ di meno!».
E’ vero che si parla sempre di tragedia di immani proporzioni perché ha causato migliaia di morti e continua a causarne, ma, tra le migliaia di vittime, ogni malato e ogni morto è in sé una tragedia immane. Per quella vittima è stata una tragedia angosciosa dal momento della diagnosi, per le persone a cui era caro è una tragedia per sempre.
Il difensore ha, tuttavia, concluso questo capitolo affermando che ascrivere all’imputato il dolo «è contrario alla logica».
D – LE 392 DIAGNOSI DI MESOTELIOMA
Poiché nel capo d’accusa «il decesso (cioè l’evento morte, ndr) è attribuito al mesotelioma – ha spiegato Alleva addentrandosi nel secondo capitolo della arringa – dobbiamo affrontare il problema delle diagnosi. Non per fare un processo ai medici che hanno svolto al meglio la loro professione con le conoscenze dell’epoca. Ma dobbiamo essere certi, oggi, che ciò che ha provocato le morti sia stato il mesotelioma», tenuto conto che «è una maledettissima malattia “camaleontica”, con una elevata capacità mimetica, ossia ha l’attitudine a essere confondibile con altri tumori».
Per avere la certezza diagnostica assoluta, il legale afferma che «bisogna usare i criteri scientifici di cui adesso noi disponiamo». Cioè, l’immunoistochimica, «tecnica irrinunciabile» ha detto l’avvocato Alleva. Riconosce che le diagnosi furono e vengono fatte con il concorso collegiale di più specialisti, attraverso approfondimenti diversi, valutazioni e confronti e che tutti concorrono ad addivenire alla massima fondatezza della diagnosi, ma, a suo parere, «oggi è l’anatomopatologo, più di tutti gli altri specialisti, il “signore della certezza della diagnosi”», cioè colui che esegue gli accertamenti con i marcatori più attuali dell’immunoistochimica.
In pratica, le diagnosi fatte a suo tempo dai medici (che, come ha insistito la pm Mariagiovanna Compare, puntavano alla certezza diagnostica non perché pensavano di dover affrontare un processo, ma perché dovevano curare delle persone!), se non passano il vaglio dell’immunoistochimica (con i marcatori più attuali) a parere dei difensori non possono essere considerate certe.
E – NESSO DI CAUSALITA’
«Sul nesso di causa, cioè sulla relazione tra la condotta dell’imputato e l’evento morte, va raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio». E’ la premessa rigorosa del difensore su un tema molto delicato e complesso. Che cosa significa? «Deve essere dimostrato con certezza processuale che gli eventi (cioè i decessi) sono la conseguenza delle azioni di Schmidheiny, al punto che – ha esemplificato in modo efficace -, se immaginassimo come non avvenute quelle azioni (cioè se immaginassimo che l’imputato non le ha compiute) dovremmo dire con crisma di certezza che anche le morti non si sarebbero verificate».
Nesso causale che, a fronte di un’unica condotta contestata all’imputato, va provato singolarmente, per ognuno dei 392 decessi, ha rimarcato il legale. Impegno che la Corte d’Assise di Novara, nella sentenza di oltre mille pagine, ha peraltro affrontato e dettagliato, esaminando appunto caso per caso, senza evidentemente convincere la difesa.
«Primo punto fermo: il mesotelioma è legato all’esposizione all’amianto». Ovunque: a Casale, in Italia, nel mondo; è un dato scientifico acquisito e condiviso. Secondo: «Diamo per pacifico, oggi, che non esiste una dose-soglia al di sotto della quale siamo sicuri di non ammalarci di mesotelioma».
Altro aspetto importante: «L’amianto è un minerale biopersistente: una volta che la fibra si è introdotta nell’organismo – ha spiegato il difensore –, al di là della percentuale minima che viene espulsa con la “clearance”, lì si ferma, esponendo il nostro organismo al rischio di sviluppare la prima cellula tumorale».
Su questo aspetto, i consulenti della procura avevano invece affermato che la «clearance» è sufficiente a far diminuire il rischio di mesotelioma se si interrompe l’esposizione all’amianto.
Tra il momento dell’esposizione e la diagnosi può intercorrere un tempo lunghissimo che si chiama latenza convenzionale, con una durata mediana di 48 anni.
Ci sono teorie diverse per spiegare la cancerogenesi del mesotelioma (i consulenti del pm sostengono la «teoria multistadio», i consulenti della difesa propendono per la «cromotripsi», cioè un evento catastrofale), ma il legale afferma che non si è ancora raggiunta una univoca spiegazione scientifica. In ogni caso, ha affermato, «dal momento in cui si sviluppa la cellula tumorale numero 1, inizia la storia del tumore»; a questo punto, «il tumore è irrimediabilmente formato e senza ritorno», anche se non è ancora visibile e diagnosticabile. Quando finisce questo periodo, detto «induzione», «tutte le esposizioni successive sono irrilevanti» è convinzione della difesa, opposta a quella della procura i cui consulenti avevano invece insistito sull’aumento di rischio a fronte di un aumento di esposizione, anche perché non è detto, secondo i ct dei pm, che la cellula tumorale numero 1 riesca a far crescere il tumore, dal momento che l’organismo dispone di difese che possono riconoscerla ed eliminarla. Però, se, vai e vai, alla prima ne seguono una seconda, una terza, una quarta e così via, forse una, alla fine, ce la fa per davvero a dar vita al tumore.
L’avvocato Alleva ha invece rimarcato la necessità inderogabile di stabilire il momento preciso in cui termina l’induzione: «E’ essenziale stabilire dove si colloca questo momento (per capire se rientra nel periodo di garanzia dell’imputato, 1976-1986; ndr)»; in altre parole, per sapere di quali singoli casi di morte Schmidheiny è chiamato a rispondere, la difesa reputa indispensabile accertare quando si è conclusa la fase di induzione, cioè quando si è completata la formazione del tumore, benché non ancora visibile.
A parere dell’avvocato Alleva «l’incognita sul periodo di induzione non è risolvibile, è un ostacolo insormontabile: non è possibile stabilirlo per ognuno dei casi».
Respinge il supporto che arriva dalla scienza epidemiologica, che invece ha convinto i giudici della Corte d’Assise di Novara. La difesa insiste: «La scienza epidemiologica è fondamentale per misurare l’aumento di rischio in una popolazione, ma non è sufficientemente idonea a risolvere il problema della causalità individuale», non è sufficiente, cioè, per Alleva, a spiegare se quello specifico decesso per mesotelioma è riconducibile alla condotta tenuta dall’imputato nel decennio 1976-1986. «L’epidemiologia non ci basta, in un processo, per spiegare i singoli fatti individuali» ha insisto Alleva.
Di avviso contrario la procura (e anche la Corte d’Assise di Novara in sentenza di primo grado) che ha sostenuto la validità dell’epidemiologia e la sua applicazione a questo procedimento penale ricordando che lo stesso metodo è il fondamento, ad esempio, della ricerca farmacologica: lo studio dei gruppi fornisce le indicazioni per mettere a punto il farmaco idoneo al singolo individuo.
F – CONCLUSIONI
«Non è possibile risolvere il problema della causalità individuale dal punto di vista penalistico: dobbiamo alzare le braccia – ha concluso l’avvocato Alleva -. E’ molto faticoso dover ammettere che il nostro è un sistema in cui non siamo in grado di arrivare a una determinazione sicura. E’ uno scenario terrificante soprattutto quando ci sono lacerazioni umane e sociali così importanti, ma non è il processo penale lo strumento per cicatrizzarle e non bisogna cadere nel tranello di attribuire una responsabilità a ogni costo».
Caso mai, ha azzardato il difensore, le responsabilità vanno cercate in una «insensibilità politica», con riferimento, ad esempio, a una legge tardiva che ha vietato l’amianto in Italia solo nel 1992 (per inciso, va ricordato il fondamentale contributo e la tenace battaglia dei casalesi per raggiungere questo risultato). L’avvocato Alleva ha evidenziato che c’erano altri Paesi più sensibili al problema amianto, in modo particolare sull’impiego della crocidolite (il temibilissimo «amianto blu»).
Ma, allora, vien da pensare questo: tenuto conto che Stephan Schmidheiny, come ha insistito la difesa, era a capo di un gruppo industriale internazionale con sessanta stabilimenti nel mondo in questo settore, ben doveva sapere quali Stati erano più rigorosi nell’impiego dell’amianto; perché questo sapere a lui noto non l’ha applicato prontamente ed efficacemente anche in Italia? Perché, con scrupoloso senso di responsabilità, non si è attenuto alle regole straniere più restrittive?
Il difensore, al termine delle ampie argomentazioni, ribadisce: «Il nesso di causalità va comprovato, a livello individuale, cioè per ogni singolo decesso, oltre ogni ragionevole dubbio».
E sulla base di questo dubbio, a giudizio della difesa non superabile, Alleva ha espresso alla Corte d’Assise d’Appello le conclusioni: «Vi chiedo di applicare la legge». Una perifrasi per dire: «Assolvete Stephan Schmidheiny».
La conclusione della procura è opposta: «L’imputato va condannato alla pena massima».
Grazie Silvana per puntuale resoconto . Attendiamo fiduciosi ..
Grazie per la documentata informazione come sempre esaustiva.Complimenti.
Grazie Silvana. Molto interessante come sempre la tua analisi dei fatti. Leggere quanto scrivi consente di comprendere le varie posizioni, della difesa e dell’accusa, come se si fosse presenti al processo.
Leggerti mi accelera la frequenza cardiaca, mi fa provare rabbia, paura, sgomento, ma non mi toglie mai la voglia di fare di più per chi ha subito questa ingiustizia. Comunque vada a finire questo processo e’ necessario che ora più che mai si stia uniti e si trovi la cura per questo tumore che non colpisce solo Casale. E lo si può fare solo investendo sulla bonifica e sulla ricerca, quella vera, di alto livello, mettendo in campo scienziati di tutto il mondo e avendo la possibilità di sperimentare i nuovi farmaci da noi e in tutti i posti dove il mesotelioma colpisce ancora. Io non perdo la speranza e faccio di tutto per conservare la forza