Signor Schmidheiny, i suoi stessi difensori e consulenti riconoscono che le fibre di amianto sono causa del mesotelioma, ma ribaltano su chi l’ha preceduta la responsabilità di averle diffuse e dicono che non si può ricondurre la sorte nefasta delle 392 vittime indicate nel processo (ma sono molte di più, in realtà!) al periodo in cui lei è stato a capo dell’Eternit. La domanda è: se le fibre diffuse prima di lei erano mortali, riesce davvero a convincersi, Signor Schmidheiny, che l’amianto diffuso tra il 1976 e il 1986 non abbia inciso per nulla? Che non abbia fatto ammalare nessuno? Le tesi giuridiche sono demandate ai suoi difensori, quelle scientifiche ai suoi consulenti. L’etica, invece, è di sua competenza: in coscienza, si può forse escludere che l’amianto circolato nell’aria nel “suo” decennio abbia causato un numero indefinito di vittime quand’anche lei non ne conosca i nomi? C’è, moralmente, una via riparatrice, Signor Schmidheiny: trovare la cura per guarire.
Arrivati alle battute finali del processo Eternit Bis, nel giudizio di secondo grado davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino, si tirano le somme e la discussione focalizza tre aspetti cruciali: la posizione di garanzia dell’imputato Stephan Schmidheiny (cioè se era il capo effettivo e responsabile dell’Eternit), l’elemento soggettivo (cioè se ha agito con dolo eventuale o con colpa, sì o no cosciente) e il nesso causale (cioè la correlazione tra le morti per mesotelioma delle 392 vittime elencate nel capo di imputazione e la diffusione di fibre d’amianto avvenuta nel decennio 1976-1986, in cui era patron Schmidheiny). L’imputato è chiamato a rispondere dell’omicidio volontario (con dolo eventuale) di tutte queste persone.
RIEPILOGO
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@ Dall’epidemiologia al caso singolo
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IL RUOLO DELLA SCIENZA IN TRIBUNALE
Il terzo nodo – il nesso causale – è basilare e imprescindibile. Ai giudici non basta adottare un orientamento piuttosto che l’altro e emettere il verdetto (atteso il 19 marzo), ma devono poi motivarlo dopo aver valutato il rapporto di causalità caso per caso.
E’ un passaggio delicato e complesso che poggia essenzialmente su pilastri scientifici da coniugare con i criteri giuridici.
In questo procedimento, anche più che nel Maxiprocesso Eternit Uno in cui si discuteva del reato di disastro ambientale, la scienza è entrata in tribunale come perno centrale.
La Corte d’Assise d’Appello, dopo aver ascoltato una prima parte delle argomentazioni illustrate dalla procura, dalle parti civili e dalla difesa, e dopo aver visionato l’imponente mole di perizie, studi, sentenze, ha comunque ritenuto necessario disporre un ulteriore approfondimento.
IL CONSULENTE DELLA PROCURA
All’udienza di lunedì 17 febbraio, ha convocato il consulente della procura Corrado Magnani, medico, epidemiologo, ricercatore e autore di numerosi studi; è qualificato come uno dei due autori che, a livello mondiale, hanno avuto il maggior numero di studi pubblicati (l’altro era Dario Mirabelli, anche lui consulente della procura nei processi Eternit, morto prematuramente un paio di settimane fa).
Lunedì, era in aula, nel pubblico, il professore Benedetto Terracini, già direttore del Cpo (Centro di Riferimento per l’Epidemiologia e la Prevenzione Oncologica in Piemonte); è stato «Maestro» di quel gruppo di ricercatori piemontesi (tra cui Magnani e Mirabelli) che diedero il via a numerosi studi epidemiologici legati all’esposizione all’amianto.
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Le tesi illustrate da Magnani, a domanda della presidente della Corte, Cristina Domaneschi, sono state poi controbattute dal suo omologo Canzio Romano, consulente per conto della difesa. Era presente anche l’esperto delle parti civili Gino Barbieri che ha espresso piena concordanza con le posizioni di Magnani e che aveva a sua volta già esposto nella propria relazione consegnata a suo tempo ai giudici, così come è agli atti quella del dottor Bai, sempre per la parte civile).
La questione del nesso causale è così complessa e difficile che la presidente si è raccomandata esplicitamente: «Noi non siamo esperti in medicina e in statistica. La preghiamo il più possibile di adattare il suo linguaggio di studioso alla nostra capacità di capire».
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E lo scienziato così ha fatto: per quattro ore, in piedi, come fosse tornato in una sua aula universitaria davanti a una attenta platea di studenti, si è impegnato a rispondere alle richieste di chiarimento della Corte contemperando il linguaggio scientifico appropriato – senza svilirlo – con la necessità di rapportarsi con dei neofiti.
«Chiediamo chiarimenti sul cosiddetto effetto acceleratore» ha esordito Domaneschi; «a noi interessa il raffronto tra due gruppi di soggetti che contraggono la malattia: quelli che a un certo punto cessano l’esposizione e quelli che continuano a essere esposti».
La premessa da ricordare è che «tutti i casi di mesotelioma considerati in questo processo sono causati dall’esposizione all’amianto: questa è una certezza» ha sottolineato Magnani. Poi si ragiona sull’intensità e la durata dell’esposizione, e sulle ricadute in termini di accorciamento della vita.
Il professore ha spiegato che «le persone affette da mesotelioma muoiono prima rispetto ai dati di mortalità generale della popolazione».
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Come leggere le differenze tra due gruppi di soggetti che hanno gradi di esposizione diversi?
Magnani ha presentato dei grafici che raffigurano un piano cartesiano. Sull’asse orizzontale delle x è indicato il tempo di latenza (dall’inizio dell’esposizione fino alla diagnosi) e sull’asse verticale delle y è segnata la frequenza della malattia.
«Nel gruppo con maggiore esposizione, la frequenza di mesotelioma è maggiore e i casi iniziano a comparire prima di quanto accade nel gruppo meno esposto. Questa è l’anticipazione della malattia»: vuol dire, in sostanza, che, «con minore esposizione ad amianto, quei decessi non si sarebbero verificati o si sarebbero verificati più tardi».
Magnani ha richiamato un grande studio di coorte da lui coordinato, realizzato dopo la Conferenza nazionale sull’amianto del 2012.
«Abbiamo incluso 50 mila persone che lavoravano in 43 aziende italiane, metà delle quali in una ventina di imprese del settore cemento-amianto. Si sono formati tre gruppi, in base alla quantità di esposizione cumulativa». Esito? «Nel gruppo con esposizione intermedia, le morti per mesotelioma si sono verificate con frequenza inferiore e in tempi più tardivi rispetto al gruppo in cui l’esposizione è maggiore». Analogamente per il confronto tra gruppi con esposizione “minima” e ”maggiore”». Lo studio è stato pubblicato su una autorevole rivista scientifica e, a distanza di anni, non è stato oggetto di osservazioni contrarie, quindi ha mantenuto l’approvazione della comunità scientifica internazionale.
Magnani ha quantificato l’anticipazione di morte in quindici-venti anni.
A proposito di anticipazione della malattia, il consulente della procura ha illustrato anche un importante studio condotto su topi in laboratorio, uscito nel 2024. «E’ stato alterato il patrimonio genetico dei topi facendo in modo che fossero destinati a morire di mesotelioma della pleura. Poi, i topi sono stati divisi in due gruppi: a uno è stato anche somministrato amianto, all’altro no. Quando si è confrontata la sopravvivenza, si è visto che i topi del gruppo esposto ad amianto si sono ammalati e sono morti a partire da 90 giorni dall’inizio dell’esperimento a fronte di 170 giorni nel gruppo sottoposto alla sola manipolazione genetica». Conclusione: l’aggiunta dell’amianto anticipa la malattia. All’autopsia, si è riscontrato che i mesoteliomi erano più estesi nei topi esposti ad amianto.
Domanda della Corte: «Il protrarsi della durata dell’esposizione può produrre un maggiore effetto acceleratore?».
Magnani ha citato uno studio condotto su lavoratori del settore. «Le persone che hanno un’accelerazione minore hanno lavorato in azienda per meno tempo o in reparti meno inquinati dall’amianto. Quelli che, invece, hanno avuto una maggiore esposizione cumulativa alle fibre, per intensità e durata, hanno avuto maggiore accelerazione». A dire che «se i lavoratori avessero cambiato prima lavoro o reparto, avrebbero subito meno l’effetto acceleratore».
Tra l’altro, l’esposizione continua e aggiuntiva inibisce uno dei metodi di difesa che il nostro organismo mette in atto per rimuovere le fibre, attraverso i macrofagi, cioè le «cellule spazzino» deputate a fagocitare «l’immondizia» che in qualche modo introitiamo.
Altro tema su cui la Corte ha chiesto chiarimenti: la cosiddetta «fase preclinica».
E’ il lasso di tempo che intercorre tra quando la malattia si è già insediata nell’organismo in modo irreversibile e non richiede ulteriori stimoli cancerogeni esogeni (cioè stimoli di agenti esterni, come l’amianto) e il momento della diagnosi. In questa fase, con gli strumenti diagnostici di cui oggi si dispone il mesotelioma non è ancora riconoscibile. Si tratta soltanto di capire quando raggiungerà dimensioni tali da poter essere diagnosticato.
Il professor Magnani ha riportato studi che stimano la durata della «fase preclinica» tra i 9 e gli 11 anni; in genere, si conviene e si concorda sulla durata media di dieci anni
A precisa domanda della Corte: «Il termine di dieci anni è riconosciuto dalla comunità scientifica?», la risposta del professor Magnani è stata: «Sì».
Voci dissenzienti? «Quella di uno studio – Greengard O. et. al., 1987 – che quantifica questa fase in 22 anni. E’ uno studio che, però, ha evidenziato molti limiti nei materiali e nei metodi» tanto che, in quasi quarant’anni, non è stato replicato. Che cosa vuol dire? Che il numero di citazioni in studi successivi è un indice dell’autorevolezza del lavoro pubblicato: tanto più è elevato tanto più lo studio è meritevole di considerazione, e viceversa.
La presidente della Corte ha anche domandato perché è importante per la scienza stabilire la durata della fase preclinica. Il consulente della procura ha spiegato che, oltre all’interesse medico-legale, può assumere notevole rilevanza, ad esempio, ai fini preventivi: «Se si riuscisse a diagnosticare il mesotelioma più precocemente, si potrebbero individuare e anticipare strategie terapeutiche come avviene per altre forme di tumore».
Altro argomento: il rischio di esposizione rispetto alla distanza dalla fonte, che i consulenti hanno individuato nello stabilimento produttivo dell’Eternit, al Ronzone (per capire: a un chilometro di distanza dal Duomo, cioè il cuore della città). Fino a quanti chilometri si è a rischio? Spiega il professor Magnani: «La distribuzione delle fibre non sembra arrivare a oltre otto/nove chilometri dalla fonte, conteggiati in linea d’aria, ma dobbiamo tenere in conto che una persona non sta immobile, si sposta da un luogo all’altro, cambia anche residenza».
Poi, a complicare e ad aggravare il contesto ambientale casalese c’è stato il fattore polverino, utilizzato ampiamente ovunque: «Un impiego diffuso da fare accapponare la pelle!».
Il consulente della procura ha richiamato la storia di una giovane donna nata nel 1976, morta a causa del mesotelioma. Dalla sua scheda personale emerge che «da piccola andava a giocare spesso dove si era impiegato abbondante polverino. Ma, se la mamma e il papà avessero saputo che grave pericolo comportava, l’avrebbero lasciata andare a giocare lì?». Il professore si accorge di aver travalicato il limite scientifico, ma non ha potuto trattenersi: «Scusate, questa non è la mia materia, ma, dietro al ricercatore, c’è anche l’uomo!».
Sulla distribuzione del polverino (contenente la terribile crocidolite o amianto blu) utilizzato nella città e dintorni per i cosiddetti «usi impropri» (coibentazioni di sottotetti e livellamenti di cortili, campi di gioco, strade…), la difesa ha insistito sul fatto che, all’arrivo di Schmidheiny, se ne era disposto il divieto. Perché? «Perché sapeva che era altamente cancerogeno. Mortale» ha osservato la procura. Già, Schmidheiny sapeva. «Sapeva tutto». Ma allora, di fronte a questa precisa consapevolezza, che cosa ha fatto l’imputato? La procura si indigna: «Non ha avvertito la popolazione, né le autorità pubbliche e sanitarie per condividere le sue conoscenze e metterle in guardia. Non ha detto niente, anzi si è cimentato in una massiccia propaganda di mistificazione sull’uso dell’amianto».
IL CONSULENTE DELLA DIFESA
Il consulente della difesa Canzio Romano ha contestato le tesi del professor Magnani e ha ribadito le sue argomentazioni già illustrate in una robusta e dettagliata relazione.
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I passaggi principali: «Il mesotelioma maligno è a tutt’oggi una patologia caratterizzata da ampie zone d’ombra che dipendono dalle caratteristiche peculiari di questa malattia». Tra le zone d’ombra, il consulente indica «i lunghissimi tempi tra l’inizio dell’esposizione e la manifestazione clinica del tumore. La latenza mediana, secondo il Registro Renam, è di 48 anni». Convenzionalmente, per latenza si intende il periodo che intercorre tra l’inizio dell’esposizione e la diagnosi
Inoltre, «il mesotelioma viene descritto come un tumore molto aggressivo e, da questa affermazione, se ne dedurrebbe una crescita particolarmente rapida. Ma, se è vero che dopo che il tumore si è manifestato clinicamente le sopravvivenze sono brevissime (anche se adesso sono aumentate un po’), questo potrebbe dipendere non dall’aggressività naturale di sviluppo delle cellule, ma dal fatto che, quando si giunge alla diagnosi, il mesotelioma è già molto esteso e invasivo».
Per il professor Romano, però, è semplicemente una ipotesi, perché, «in realtà, possiamo dire che non sappiamo nulla del tempo che questo tumore impiega a svilupparsi dalla prima cellula alterata fino alla diagnosi».
Il consulente della difesa insiste sul fatto che «è una neoplasia con ampie fasce di incertezza». Ad esempio, «convivono due fenomeni apparentemente in contrasto: da un lato sono sufficienti livelli bassi o periodi di esposizione anche brevi per sviluppare la malattia; dall’altro, all’aumento dell’esposizione aumenta anche il rischio. Questo, secondo me significa che come agisca l’amianto è in gran parte a oggi ignoto».
Sostiene, dunque, che «non si può costruire un modello biologico plausibile».
Ci sono, però, gli studi epidemiologici. «Non è che le indagini epidemiologiche non servano ai singoli», concede, «ma sono utili in termini di politiche e di normative preventive, non per il caso specifico» insiste. «L’epidemiologia dà risultati statistici» che, a parere del consulente della difesa, «non possono essere usati in termini di causalità per il singolo individuo». Il suo convincimento, cioè, è che i risultati epidemiologici non possano spiegare, «al di là di ogni ragionevole dubbio», quando e come quel soggetto si è ammalato a fronte di una certa esposizione, con determinate caratteristiche di intensità e durata.
Ribadisce: «Dovremmo capire se i soggetti affetti da mesotelioma hanno sviluppato la patologia prima di quanto sarebbe accaduto se non avesse avuto luogo l’attività dell’Eternit tra il 1976 e il 1986», il periodo, cioè, in cui l’imputato ne è stato gestore responsabile.
«La domanda non ha risposte», perché, a suo dire, «risposte non ce ne sono. Magnani ha risposto su basi logiche, non fattuali».
«Sostenere che tutti i casi sono anticipati e che la durata dell’anticipazione è uguale per tutti è una ipotesi che non ha nessun sostegno biologico e neanche epidemiologico» è stata l’inflessibile conclusione del professor Romano.
L’EPIDEMIOLOGIA IN SENTENZA
Già la Corte d’Assise di Novara ha dovuto affrontare la questione. Nelle motivazioni della sentenza, che riempiono oltre un migliaio di pagine, si è pronunciata così: «In caso di mancanza di una legge di copertura universale, che permetta di ricondurre tutti gli eventi di un certo tipo a una determinata causa (evenienza peraltro assai rara), è necessario fare ricorso a una legge di copertura di tipo statistico, in base alla quale certi eventi possano essere rapportati a determinati antecedenti causali con alto grado di probabilità». Fatta questa premessa, i giudici di Novara, nel ritenere «correttamente utilizzabili i modelli derivanti da leggi statistiche quali sono quelle epidemiologiche», hanno affermato che «non si può applicare semplicemente i dati ai singoli casi», ma va riposta «debita attenzione alla presenza di informazioni di ordine biologico che, sinergicamente al dato statistico, pervengano alla spiegazione di quella relazione causale che la stessa epidemiologia ha desunto dalla relazione probabilistica».
DALL’EPIDEMIOLOGIA AL CASO SINGOLO
E questo il professor Magnani ha evidenziato e confermato: nelle relazioni svolte dai consulenti e consegnate ai giudici, le indicazioni fornite dagli studi epidemiologici sono state scrupolosamente applicate ai casi singoli tenendo conto, per ciascuno, delle circostanze di esposizione ad amianto che hanno caratterizzato le vite e le abitudini di quelle esistenze; inoltre, e hanno trovato conferme, alla fine, nella manifestazione e nella evoluzione della patologia descritta nelle cartelle cliniche. Il risultato di questo lavoro peculiare è contenuto nelle rispettive 392 schede. Sono 392 schede che raccontano 392 vite spezzate anzitempo, nomi e cognomi di uomini e donne che hanno perso quindici / vent’anni di affetti, di relazioni, di speranze, di ruoli, di cadute e risalite. Un nastro vitale tranciato spietatamente da fibre invisibili che non avrebbero dovuto circolare in modo così sconsiderato e illecito.
PROSSIME UDIENZE
Mercoledì 26 febbraio, dalle ore 11, termineranno le repliche i magistrati che sostengono l’accusa (Sara Panelli, pg della procura generale, Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare, pm delle procure di Torino e di Vercelli). Mercoledì 5 e mercoledì 19 marzo, dalle 9, si dà spazio alle repliche dei difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva. In giornata, è atteso il verdetto della Corte d’Assise d’Appello, ossia la lettura del dispositivo di sentenza, mentre le motivazioni saranno depositate più avanti.
I FILONI DI CAVAGNOLO E NAPOLI
Intanto, è stata fissata al 21 marzo l’udienza in Cassazione per il filone Eternit Bis di Cavagnolo. L’imputato Schmidheiny è già stato condannato in primo e secondo grado per omicidio colposo: 1 anno e 8 mesi, per la morte, dovuta ad asbestosi, di un operaio. La sentenza d’appello era già arrivata in Cassazione, ma la Suprema Corte aveva disposto un rinvio sollecitando motivazioni più puntuali sul nodo del nesso causale. La seconda Corte d’Appello di Torino ha ribadito in toto l’impianto dei colleghi precedenti, ma l’ha integrato con ulteriori argomentazioni giuridico-scientifiche.
Analogamente è accaduto per il filone Eternit Bis di Napoli. Stephan Schmidiìheiny era stato condannato, per omicidio colposo, a 3 anni e mezzo, riconosciuto colpevole di un caso di morte per mesotelioma. Era invece scattata la prescrizione per sei casi e per uno era stato assolto. La Cassazione, mercoledì 19 febbraio, ha cassato quella sentenza disponendo, anche in questo caso, un rinvio in Corte d’Appello sullo stesso nodo del nesso causale.
Grazie . Non commento . Buona domenica
Grazie a Silvana Mossano per la puntuale presentazione delle fasi del processo. Grazie ai medici scienziati Corrado Magnani, Dario Mirabelli, Benedetto Terracina che hanno resistito per tanti anni alle “divagazioni” dei medici della difesa degli imputati. Dell’ impegno profuso. Che comunque hanno ragioni da vendere ed hanno comunque vinto!!!!
Grazie sempre a Silvana per i suoi resoconti chiari e dettagliati nonostante la difficoltà della materia da esporre . E grazie ai medici e ai professionisti che da anni studiano il triste fenomeno . Ne usciremo ? Senza dubbio già continuare a tenere viva la fiammella della protesta e la richiesta di avere un colpevole è’ già una vittoria . Purtroppo sì continua a morire di mesotelioma ….