SILVANA MOSSANO
Reportage udienza 21 settembre 2022
E’ ricominciato a Novara, dopo la pausa estiva, il processo Eternit Bis nei confronti di Stephan Schmidheiny. Deve rispondere, in Corte d’Assise, dell’omicidio volontario (con dolo eventuale) di 392 casalesi e monferrini morti a causa dell’amianto, diffuso (criminosamente, secondo l‘accusa sostenuta dai pm Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare) dall’Eternit (che impiegava il minerale per produrre lastre e tubi) di cui l’imprenditore è l’ultimo patron in vita.
Nella prima parte dell’udienza di mercoledì 21 settembre sono stati controesaminati i consulenti della difesa Massimo Roncalli, anatomopatologo e professore straordinario dell’Irrcs Humanitas di Milano, e Andrea D’Anna, professore ordinario di Impianti Chimici all’Università di Napoli.
Successivamente, è iniziato l’esame degli esperti Canzio Romano e Claudio Colosio, nominati dai difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva.
Mercoledì è intervenuto soltanto Romano; il completamento della sua esposizione, più quella del collega, avverrà nell’udienza di lunedì 24 ottobre.
CALENDARIO DELLE UDIENZE
Intanto, il presidente della Corte, Gianfranco Pezone, ha ridefinito il calendario: dopo il 24 ottobre, ci saranno udienze il 21 novembre (per il controesame di Romano e Colosio) e il 28 novembre (probabile inizio requisitoria dei pubblici ministeri), il 12 (prosecuzione e conclusioni dei pm) e il 19 dicembre (arringhe dei legali di parte civile).
A gennaio, il 16 e il 30, parleranno i difensori.
E’ probabile che servano ancora una o due udienze per eventuali repliche, prima che la Corte si ritiri in camera di consiglio per decidere il verdetto.
CONTROESAME DEL PROFESSOR MASSIMO RONCALLI
Il consulente della difesa ribadisce il convincimento già esposto nell’illustrazione della sua relazione: «La diagnosi di mesotelioma è molto complessa; per accertarla è imprescindibile utilizzare la tecnica dell’immunoistochimica» che si applica, secondo le precise raccomandazioni condivise dal mondo scientifico, «a partire dal 2007».
E prima? E’ questo il punto: tutte le vittime che hanno avuto una diagnosi precedente è come se vagassero in un limbo diagnostico. Può sembrare un aspetto secondario; in fondo, che importa sapere esattamente di che cosa è morta una persona molto cara, che si è visto soffrire e sopportare dignitosamente il dolore e la paura di doversi distaccare dalla vita, anche in età giovane? La sofferenza non è forse determinata dalla sua perdita, più che dalla causa che l’ha prodotta? Non è così: la certezza di una diagnosi corrisponde alla certezza morale che tutto il meglio, clinicamente e umanamente, è stato tentato, perseguito e adottato. Instillare incertezze, invece, getta chi resta in un profondo sbandamento emotivo.
Ma tant’è, così avviene nei processi: all’imputato è lecito difendersi sollevando dubbi, senza per contro fornire spiegazioni alternative.
La pm Compare, nel controesame, ha richiamato altre tecniche diagnostiche, oltre all’immunoistochimica (soprattutto quando questa tecnica non esisteva, ma già di mesotelioma ci si ammalava, ahimé!), ampiamente usate in passato, specialmente in ospedali in cui, purtroppo, il numero di casi era (ed è) frequente. «La Tac, ad esempio…», Il professor Roncalli la stoppa: «La Tac è il punto di partenza, ma non il punto di arrivo. Tutte le volte che io sono chiamato a fare una diagnosi di mesotelioma, oggi uso l’immunoistochimica». La pm insiste: «Ma c’erano diagnosi certe anche prima dell’avvento dell’immunoistochimica…». Sì, ammette il consulente, «ma la scienza progredisce e i marcatori di oggi sono molto più potenti e specifici». Compare condivide: «Fortunatamente si migliora», ma non arretra: «Ciò non smentisce necessariamente il passato».
Viene da domandarsi se, tra un po’ di anni, nuovi marcatori, si sicuro migliori, smentiranno quelli attuali. E dunque dobbiamo ipotizzare che anche le diagnosi di oggi sono imprecise? Addirittura infondate?
Il problema se l’è posto il pm Colace.
Roncalli, riesaminando le diagnosi di 354 delle 392 vittime citate nel capo di imputazione (tutte, secondo l’accusa, morte di mesotelioma), le ha così riclassificate: 40% certe, 32 % probabili, 28 % possibili.
Il consulente conviene con il pubblico ministero che la maggior parte di quei pazienti («persone in carne e ossa, con una vita, degli affetti…» sottolinea Colace) sono stati curati all’ospedale di Casale dove c’è una certa esperienza di mesotelioma. «Ma allora queste diagnosi non furono corrette? E le cure furono sbagliate? Sono casi di malasanità?» ha domandato il pubblico ministero. E, allora, «che diagnosi alternativa si sarebbe potuta fare, in un paziente con questi sintomi?». Roncalli ha ipotizzato: «Quei segnali ci sono anche in altri tumori, come quello ai polmoni, alla mammella, o urologici…». Il consulente si è sbilanciato: forse «il fatto di essere a Casale ha magari orientato verso quella diagnosi…».
Colace scuote la testa e stigmatizza: «Eh già, hanno un po’ esagerato i medici di Casale… o si sono accontentati senza approfondire…». Però, il pm non si ferma a Casale e fa un salto all’Humanitas, l’autorevole Istituto di Rozzano in cui opera Roncalli da molti anni. «Tra i 392, c’è un caso che fu esaminato proprio all’Humanitas nel 2004. Nel riesame delle diagnosi, illustrato nella sua relazione, oggi è collocato tra i mesoteliomi non certi, cioè classificato come “probabile”. La sua diagnosi di allora, però, professore era mesotelioma. L’avete sbagliata pure all’Humanitas?». Non soltanto i medici casalesi sono stati frettolosi? L’interrogativo rimane sospeso.
Anche l’avvocato Laura D’Amico, tra i legali delle parti civili, ha qualche perplessità da chiarire sulla relazione del professore. In particolare richiama una raffigurazione fotografica che Roncalli ha inserito attribuendola a un caso di mesotelioma epidelioide. «Sì, certo, lo è» afferma il professore.
Ecco, in verità, rileva sommessamente l’avvocata, quella diapositiva era stata utilizzata anni addietro dal professor Mauro Papotti (è consulente al processo Eternit, per conto delle parti civili, ndr), per una lezione ai suoi studenti. colpa veniale non aver citato la fonte, può succedere. Solo che Papotti l’aveva chiaramente usata per spiegare che si trattava di un adenocarcinoma. Quale dei due?
L’anatomopatologo mette le mani avanti: «Non sono immagini mie, le ho prese da internet e le ho considerate affidabili… Internet ci consente di avere un parco di immagini importante… Non mi sono formalizzato troppo… Non sapevo fosse di Papotti…».
«Indubbiamente – commenta D’Amico -, ma perché le ha scaricate da internet e non ha usato una delle sue 2000 diagnosi di mesotelioma che ha dichiarato di aver fatto all’Humanitas nel corso della sua carriera?».
Già: perché?
«Viviamo in un mondo veloce – ha spiegato il professor Roncalli – e internet è una fonte veloce, in un quarto d’ora… Se invece devo andare a consultare i miei casi, ci metto molto di più… Lo faccio anche quando preparo le lezioni per i miei studenti…».
Sì, però, torna a osservare l’avvocata D’Amico, «il professor Papotti già nel 2005 ai suoi studenti mostrava quella immagine come riferita a un adenocarcinoma… e lei oggi l’attribuisce a un mesotelioma epitelioide…». «Questo è curioso» riflette Roncalli. «Sì, è molto curioso» conviene D’Amico.
CONTROESAME PROFESSOR ANDREA D’ANNA
Il professor D’Anna aveva esposto un lungo elenco di aziende casalesi che facevano uso di amianto. A dire che non c’era solo l’Eternit (peraltro l’unica che lo impiegava massicciamente come materia prima, è giusto precisarlo).
Il pubblico ministero Colace domanda dove aveva reperito questi dati a base della sua relazione. «Sia dal Renam (Registro mesoteliomi, ndr) sia guardando in rete, dove ho trovato della documentazione sulle aziende…».
Non stupisca l’insistenza metodica, anche tra gli studiosi, della svelta consultazione di internet. Il verbo «googlare» (derivato dal nome proprio del motore di ricerca Google) è un neologismo accreditato anche dal Dizionario Treccani!
Quindi, googlando, il professor D’Anna ha recuperato dati sulle aziende che impiegavano amianto. Ma ha poi verificato quanto e come veniva usato nei vari settori? No, «non avevo altre informazioni».
D’Anna nel suo lavoro, illustrato nell’udienza del 18 luglio, aveva sostenuto che lo stabilimento Eternit al Ronzone (e così anche l’area ex Piemontese dove, a cielo aperto, si faceva la frantumazione degli scarti di manufatti di amianto) non erano le sole fonti di inquinamento di amianto in città; l’aria, a suo parere, era contaminata parimenti da tutti i siti cittadini in cui erano stati adottati usi impropri, in modo particolare laddove era stato utilizzato il polverino, sia nei battuti di cortili, campi sportivi e strade, sia nei sottotetti come coibente.
Polverino che, ha ribadito ancora nell’udienza del 21 settembre, proveniva sì dall’Eternit (impossibile negarlo), ma «solo fino al 1976, perché da quel momento fu vietato». Vietato dal 1976: l’anno in cui l’imprenditore Schmidheiny aveva assunto la gestione dell’azienda ereditata dal padre. «E dove sta scritto?» ha domandato il pm Colace. «Ho letto in un documento del 1976 del divieto di distribuire materiali di scarto». Colace ha incalzato: «In quale documento?». Il consulente ha insistito convinto: «C’è un documento in cui era scritto…». C’è un documento, ha ripreso il pubblico ministero, «lo conosco bene, ma non è questo il contenuto». E quindi? Il professor D’Anna si è corretto, richiamando, più che un documento, la testimonianza di uno che lo aveva detto.
Non di meno il professor D’Anna si è fidato della testimonianza di un cittadino per affermare, nel suo lavoro tecnico, che tutti i luoghi militari casalesi (caserme, poligono, castello…) erano fortemente contaminati. In due casi, ha riportato con precisione i dati del censimento Arpa da cui emergeva la presenza di polverino, ma per tutti gli altri ha basato le sue deduzioni sulle parole di «una persona intervistata». Ha indicato il nome di un operaio, il quale disse, genericamente, che l’amianto «era dappertutto, e le caserme di Casale avevano amianto ovunque».
Il consulente ha ammesso che «avevamo pochissimi dati per capire la qualità dell’aria che c’era a Casale, ma quelli che ci sono danno l’idea, dice, che «nel centro di Casale l’inquinamento da amianto era inequivocabile».
Fa riferimento a rilievi riportati in studi di Marconi e altri autori, di Chiappino e altri. A questo proposito, Colace gli fa osservare che manca, dalla sua relazione, un picco elevato (che nei monitoraggi degli studi da lui citati erano annotato) di fibre aerodisperse nella zona dei Magazzini Eternit, in piazza d’Armi. Se ne stupisce lo stesso consulente, «posso averlo dimenticato, sì, è un dato elevato, non ho proprio letto questo valore…». Il pm chiosa: «A un suo studente avrebbe dato un brutto voto».
D’Anna, comunque, non si sposta dal proprio convincimento: «L’inquinamento nelle vicinanze dell’Eternit proviene dallo stabilimento, ma nel centro città è causato dagli usi impropri». Osserva il pm: «Mi faccia capire: la frantumazione all’ex Piemontese inquina quanto, o addirittura meno, delle fibre di polverino che escono dai forellini aperti… cito le sue parole… tra le tegole di un tetto?». Il professore annuisce.
Gli viene fatto notare che, però, dopo la chiusura della fabbrica nel 1986, i monitoraggi successivi evidenziarono un miglioramento della qualità dell’aria, benché non fosse ancora avvenuta la maggior parte delle bonifiche dei sottotetti e così via (E molti non sapevano neppure di avere il polverino).
D’Anna lo spiega così: «In quegli anni si era acquisita maggiore consapevolezza». Tanto basta.
ESAME DEL PROFESSOR CANZIO ROMANO
Canzio Romano è esperto in Medicina del Lavoro (professore associato all’Università di Torino), in Malattie dell’apparato respiratorio, oltre che competente in Igiene industriale, nonché «un po’ epidemiologo e tossicologo» (è stato direttore della Scuola di specializzazione in Tossicologia ed Epidemiologia Industriale all’Università degli studi di Torino), ha vasta esperienza come medico competente in svariate aziende e, in 25/30 anni, ha svolto consulenze in cause giudiziarie «sempre per conto delle difese, mai per le procure» ha puntualizzato.
Ha illustrato una prima parte della sua articolata e approfondita relazione.
Più che alla costruzione di una tesi, il professor Romano Canzio si è dedicato meticolosamente a un’opera di smontaggio delle conclusioni esposte dai consulenti della procura Corrado Magnani e Dario Mirabelli.
Uso dei dati epidemiologici
Muove la prima contestazione contro «l’utilizzo dei dati epidemiologici riferiti alla singola persona», perché, dice, «la ricerca epidemiologica quantifica l’incidenza della malattia sulla popolazione, non sul singolo caso». Ma, obietta, «la popolazione è disomogenea, composta da individui uno diverso dall’altro». Pertanto, a parere del professor Romano, «se l’epidemiologia può avere un interesse generale per modificare le abitudini di vita dei singoli individui», i risultati delle indagini epidemiologiche «non possono essere applicati in termini di causalità», cioè a suo giudizio non sono in grado di spiegare la causa specifica della malattia nel singolo individuo.
In merito a un documento in cui l’Associazione Italiana di Epidemiologia evidenzia studi clinici a sostegno «dell’applicabilità delle valutazioni epidemiologiche alla singola persona», Romano dice categorico: «E’ un errore».
Ammette che, nella letteratura scientifica, «il nesso di causa tra esposizione ad amianto e mesotelioma è stato più che sufficientemente dimostrato, ma in questo processo – insiste – l’oggetto della valutazione non è solo, e non è tanto, l’individuazione del fattore causale a cui sono riconducibili le patologie in esame, quanto, soprattutto, le modalità di esposizione per ogni singola persona offesa, oltre ogni ragionevole dubbio».
In altre parole: bisogna provare che la fonte delle fibre di amianto, che ha causato il mesotelioma specificatamente in ognuna di quelle persone, fu con certezza l’Eternit di cui Schmidheiny era a capo. Alla difesa basta inoculare il dubbio.
Mesotelioma e zone d’ombra
Canzio Romano ribadisce che «il mesotelioma maligno rimane a tutt’oggi caratterizzato da amplissime zone d’ombra ed esclude conoscenze precise sulla sua patogenesi (cioè i meccanismi biologici con i quali si sviluppa la malattia): «E’ in gran parte tutt’ora ignoto come agisce l’amianto, su quali geni e con quale scansione temporale». E, una volta diagnosticato il mesotelioma, secondo il consulente non si riesce a risalire al momento in cui ha avuto inizio. Da qui la deduzione difensiva è facile: Schmidheiny non può essere condannato se non si può stabilire che l’origine della malattia sia avvenuto nel periodo in cui lui era responsabile dell’azienda.
«Clearance» e dosi aggiuntive
Altro aspetto affrontato dall’esperto: la cosiddetta «clearance» (cioè depurazione) polmonare delle fibre di amianto inalate e depositate nel polmone, ossia la capacità dell’organismo di liberarsi dei corpi estranei tossici. Secondo la tesi dei consulenti della procura, l’efficacia di questa capacità messa in atto dall’organismo viene annullata dalla continuità dell’esposizione; cioè, se una persona continua a essere esposta all’amianto, l’eliminazione delle fibre è vanificata dall’introduzione di nuove fibre e, quindi, anche il rischio di mesotelioma continua sempre a crescere.
Il punto è, si domanda l’esperto: «Che cosa sappiamo realmente di questa clearance? Della sua entità? Della sua tempistica? Della sua differenza per i diversi tipi di amianto?».
Romano è scettico: cita diversi studi, «ma, al più, sono ipotesi, stime». In una parola: «Incertezza» dice. E conclude affermando che è «ingiustificato» addurre la «clearance» a sostegno della tesi secondo cui il persistere delle esposizioni fa aumentare il rischio di ammalarsi di mesotelioma.
Riflessioni
Smonta, appunto, il professor Romano, ma senza spiegare a sua volta, o ipotizzare, perché così tante vittime di mesotelioma si contano a Casale e dintorni e non in altre città, dove pure si usavano largamente i manufatti di amianto, eccome. Tetti, tubazioni, arredi. La differenza è che altrove non li si produceva.
E il professor Roncalli, da parte sua, dopo aver revisionato i «vetrini» riferiti alla maggior parte dei casi indicati nel capo d’imputazione, afferma che meno della metà erano di sicuro mesoteliomi, mentre gli altri… mah, probabili… possibili… forse erano altro.
Ecco, diciamo che ai casalesi viene difficile convincersi che un numero così elevato di diagnosi (e di morti, concrete e dolorose, con quelle stesse caratteristiche) sia stato il frutto di una esaltazione collettiva dei medici casalesi che si sono lasciati prendere un po’ troppo la mano.
Grazie tante Silvana, grande lavoro con ottima qualità, nella sintesi, nel riportate gli elementi più significativi. Sono anche non trascurate le contraddizioni dei noti prof-consulenti della difesa ( cosa che altre sintesi spesso..trascurano.
Un caro saluto.
Cara Silvana grazie per il reportage..chiaro concreto…sono allibita dalle affermazioni dei difensori e dei tecnici….non ho parole se non dire che sono tanto ma tanto triste…ti abbraccio mia cara
Grazie ancora per la dettagliata sintesi di questa nuova puntata sulla nostra tragedia. Sperare sempre, arrendersi mai.
Grazie Silvana per la tua capacità di esporre gli avvenimenti accaduti con perizia e sentimento; quel sentimento che anela alla giustizia che la nostra comunità pretende.
Sempre più una farsa. Vergogna. Grazie Silvana per la perseveranza nel seguire questo processo.
Bravissoma Silvana ! Sempre molto precisa. Grazie