SILVANA MOSSANO
Delitto di Capodanno a Ovada. I protagonisti di questa tragica storia,tanto incredibile da sembrare più un romanzo giallo-poliziesco che una vicenda vera, sono un uomo di 53 anni e una giovane donna di 26.
Da dove iniziare per raccontarla?
Si potrebbe procedere in ordine cronologico: il mattino del 1° gennaio 2019, dal finestrino di un treno semivuoto, nella prima fredda mattina dell’anno, uno dei pochissimi passeggeri, quasi certamente esente dalla notte di bagordi, nota, in distanza e di sfuggita, qualcosa che assomiglia a un corpo umano riverso sulla terra glabra e gelata di un campo. Cattura l’immagine nel lampo di un’occhiata. Avrà visto giusto? Si stropiccia gli occhi e li strizza come a chiedere soccorso ai meccanismi della memoria istantanea. Potrebbe aver avuto un abbaglio, aver scambiato un’ombra o una macchia per una figura umana; non accade così, spesso, anche osservando le nuvole? Quella sembra un leone, quella pare un cane con due teste, quell’altra…
Invece no, ha visto bene. E’ il cadavere di Massimo Garitta; a Ovada lo conoscono come un perditempo innocuo e buontempone, che si arrangia trafficando un po’ con la droga e chiedendo l’elemosina.
L’incipit, però, potrebbe essere un altro, focalizzando un dettaglio curioso che emerge dall’abbigliamento della vittima: più dei calzoni e delle mutande abbassate, gli investigatori vengono colpiti da una sequenza alfanumerica incisa sul giubbotto. Roba da film poliziesco: su una manica, è rimasto impresso il numero di matricola della marmitta del veicolo che, poche ore prima, gli è passato sopra schiacciandolo. Da quel codice si risale all’auto: una Lancia Y. E dall’auto alla proprietaria o, meglio, alla sua giovane figlia che aveva in uso la vettura: Aurela Perhati, all’epoca ventiquattrenne.
Era lei che guidava la Y la sera del 31 dicembre 2018. Lei che aveva preso a bordo Massimo Garitta, mentre in tanti si affannavano a raggiungere le tavole imbandite per il cenone e il brindisi liberatorio e beneaugurante. E’ lei che, prima dei rintocchi di passaggio dal vecchio al nuovo anno, lo ha investito mortalmente.
Ma l’inizio della narrazione potrebbe essere ancora un altro, sintetizzato in un interrogativo: si conoscevano Massimo Garitta e Aurela Perhati, la vittima e l’assassina? No, mai incontrati di persona prima di quella sera. Forse lei sapeva di questo personaggio strambo, che campava anche di espedienti poco leciti, perché a Ovada in molti lo conoscevano, almeno di vista o di saluto o di furtiva frequentazione da approvvigionamento. E forse lui, qualche volta, aveva visto passare per strada la bella ragazza, laboriosa come tutti i suoi famigliari di origine albanese, in Italia da circa 25 anni: i genitori, che qui si sentono nella loro vera patria di adozione, molto rigorosi nel rispetto delle regole, e tre figli (oltre ad Aurela c’è una sorella e un figlio con seri problemi di disabilità affrontati da tutto il nucleo con impegno e dignità). Di quegli stranieri che dici: “Proprio bene inseriti”.
Aurela – diploma al liceo sociopsicopedagogico e conoscenza di cinque lingue, con un lavoro da commessa all’Outlet di Serravalle, – è una ragazza taciturna, in famiglia sono preoccupati per la sua vulnerabilità psichica, si sono rivolti a specialisti per curarla e per sollevarla da quel torpore malinconico e da quelle stranezze comportamentali che un perito psichiatrico, nominato, durante l’inchiesta, dal gip di Alessandria, Paolo Bargero aveva riconosciuto come grave disturbo schizoaffettivo che limitava “al lumicino” la sua capacità di intendere e di volere, determinando alcuni “deragliamenti logici”.
Avanti con gli interrogativi: perché Aurela ha preso a bordo Massimo Garitta quella sera? I fantasmi che le imbrigliavano l’animo potrebbero essersi manifestati sotto forma di alieni o di suggeritori di quella decisione? Che cosa si sono detti l’uomo e la giovane mentre lei guidava, disinteressata a una meta, fino a raggiungere un campo indurito e appiattivo dal gelo? Chi parlava dei due? Forse lei ha confidato il suo malessere emotivo come accade, inspiegabilmente, di fare con uno sconosciuto? E forse lui, più concreto, ha invece subito materializzato un desiderio che mai, prima, la sua anche più fervida immaginazione gli avesse offerto così a portata di mano?
Quando i carabinieri, coordinati dalla procura di Alessandria, da quella matricola bruciacchiata sulla manica del giubbotto risalirono alla macchina e dalla macchina alla sua guidatrice inchiodandola alla responsabilità dell’investimento mortale, Aurela Perhati fornì risposte contraddittorie e confuse. Ma perché avrebbe voluto uccidere uno sconosciuto con le brache calate? Quell’abbigliamento scomposto sulla nudità dell’uomo non era già un indizio significativo se incastrato nella tessera corrispondente di cui c’era traccia in un certificato medico?
Perché, questa vicenda, si può narrare con un altro incipit. Partendo dal finale, scritto alcuni giorni fa nel verdetto: a distanza di un anno e mezzo dal delitto di Capodanno, Aurela Perhati è stata assolta. Per legittima difesa.
L’imputata era stata in carcere, e poi ai domiciliari in una comunità terapeutica per malati con problemi psichici, in attesa di essere processata per omicidio volontario. Il pubblico ministero che l’aveva incriminata, Eleonora Guerra, ha chiesto al gup Aldo Tirone, chiamato a giudicare la giovane in rito abbreviato (per avere lo sconto di un terzo della pena, in caso di condanna), che le infliggesse otto anni di reclusione. Invece no, ha prevalso la versione che, fin dall’inizio, i difensori Giuseppe Cormaio e Marco Conti avevano indicato come il percorso più lineare e verosimile proprio per via di quei calzoni abbassati che rendevano credibili le pur farfugliate spiegazioni della ragazza: “Voleva violentarmi, l’ho convinto a scendere dalla macchina e io sono scappata”. In che direzione? Per il pubblico ministero quella che mirava dritta a investire volontariamente Massimo Garitta. Da qui la richiesta di pena a otto anni di reclusione, pur tenendo conto della seminfermità mentale dell’imputata, attestata dal perito psichiatrico.
Al contrario, per i difensori la direzione non fu una scelta consapevole, ma era lo spazio che i fari indicavano come unica via di fuga ai suoi occhi annebbiati dal terrore. Il più lontano da lì. Il più in fretta possibile. Per dimenticare al più presto.
Ma non soltanto i calzoni dell’uomo e le sue mutande abbassate erano indicatori del tentativo di violenza lamentato dalla giovane; i difensori Cormaio e Conti hanno posto l’accento sulla corrispondenza intima riscontrata su Aurela al momento in cui, dopo l’arresto successivo al primo interrogatorio, fu condotta in prigione. Nel certificato medico, redatto all’ingresso in carcere a Vercelli, fu annotato che, sulle cosce della ragazza, c’erano segni evidenti dell’aggressione lamentata. Se non fossero stati certificati in quella circostanza, macchie e lividi sarebbero presto svaniti senza lasciare traccia di prova. “Quell’uomo voleva violentarmi, ero spaventata, sono scappata e, scappando…”. Massimo Garitta era in piedi, incredulo, quando il fascio dei fari l’ha investito e la vettura l’ha buttato giù. Quanti istanti è durato il suo stupore? Il medico legale ha accertato la morte pressoché istantanea per l’investimento e lo schiacciamento del torace.
Ma Aurela Perhati non voleva ucciderlo: il giudice ha sentenziato che la sua è stata una reazione di legittima difesa. Lei voleva soltanto mettersi in salvo.
Se non ci fosse riuscita, ci si sarebbe trovati a raccontare un’altra storia: quella di una ragazza di 24 anni stuprata la notte di Capodanno.
Ho letto.Le modalità dell’urto omicida non sono descritte .La fuga in macchina aveva ormai liberato da ogni violenza….Al più colposamente l’imputata era scappata via senza preoccuparsi di ciò che incontrava per strada….Chiusa nella sua vettura in moto non era più vittima….
Tristissima storia di due esseri umani fragili. La difesa di Aurela è stata quella di scappare impulsivamente, e non penso volesse uccidere. Ma solo scappare terrorizzata.