SILVANA MOSSANO
«Sul fronte della sicurezza sul lavoro, siamo tornati al secolo scorso?». La domanda è stata posta da Raffaele Guariniello, pm storico, per molti anni alla Procura di Torino, dove è stato a lungo anche procuratore aggiunto; ha fatto da apripista in numerosi processi sulla sicurezza negli ambienti di lavoro e sulla violazione dei diritti alla salute. L’interrogativo provocatorio ha aperto il suo intervento in occasione del seminario intitolato «Il silenzio dell’amianto», che si è svolto a Torino, con cospicuo pubblico in presenza e una cinquantina di collegamenti online.
E’ stato il giornalista Alberto Gaino, già redattore del quotidiano La Stampa, anima di questo corposo appuntamento, organizzato da Fondazione Vera Nocentini, presieduta da Gianfranco Zabaldano, Centro Studi Sereno Regis, Associazione Italiana Esposti Amianto (Aiea) ed Ecofficina, a «prestare» al convegno la titolazione mutuata dal titolo del suo recente libro-inchiesta (Edito da Rosenberg e Sellier, 2021), incentrato sulle vicende giudiziarie e sugli intrecci tra scienza, giurisprudenza e interessi economici che finiscono per rendere le vittime del lavoro sempre meno visibili.
Carlo Degiacomi, di Ecofficina, e Enzo Ferrara, del Centro per la pace Regis e delegato Aiea, hanno coordinato i lavori della giornata.
La legge ha 30 anni
A trent’anni dalla legge 257 del 1992, che bandì l’amianto in Italia, sono ancora tante, troppe, le vittime dell’amianto. Lo stesso Gaino ha citato alcuni dati: «Sono 4000 all’anno in Italia i casi di malattie amianto-correlate, 255 mila all’anno nel mondo. Tra l’altro – ha ricordato – nei due terzi del pianeta ancora si lavora e si commercializza liberamente l’amianto». La situazione piemontese è stata riassunta da Enrica Migliore, responsabile del Registro regionale dei mesoteliomi: «Dal 1990 al 2019 si sono contati 5793 casi, il 65% uomini e il 35% donne, con un incremento costante fino al quinquennio 2010-2014. Negli ultimi cinque anni si è assistito a un leggero decremento, negli uomini, per le donne no».
A questo proposito, Corrado Magnani, epidemiologo, già professore di Statistica medica e di Epidemiologica dei tumori all’Università del Piemonte Orientale, riassumendo la storia delle indagini epidemiologiche svolte a Casale, ha sottolineato che «le proiezioni, fatte sulla base dell’andamento storico dei consumi di amianto in Italia, ci dicono che siamo alla cima della montagna (il famoso e atteso picco di vittime, ndr) e iniziamo la discesa». Ma il dato va letto con prudenza: «All’inizio sarà una discesa lenta, poi diventerà più rapida».
Il settore edile a rischio
Il settore edile è quello più coinvolto, come hanno evidenziato gli esponenti sindacali Maria Pia Fasciana (Inca Cgil Torino), Chiara Maffé (Feneal Uil regionale) e Aniello D’Auria (Cisl Piemonte), perché, anche se l’amianto è stato bandito nel 1992, il rischio sussiste nei settori della manutenzione e della ristrutturazione, dove è costante l’insidia di manufatti di amianto (tetti, tubi, coibentazioni di sottotetti, materiali friabili in strade e cortili) che vanno trattati con adeguate protezioni e precauzioni.
A proposito del settore edile, l’assessore torinese Gianna Pentenero ha riassunto la situazione cantieristica del capoluogo piemontese, ponendo l’accento specialmente sull’edificio ex sede Rai di via Cernaia che attende ancora un piano di bonifica da parte della società immobiliare straniera che l’ha acquistato dopo tre aste andate deserte.
«Gli infortuni sono una fatalità»?
Torniamo alla domanda iniziale su cui Guariniello, ad alta voce, ha interrogato sé stesso: «Sul fronte della sicurezza sul lavoro stiamo tornando agli anni Settanta del 1900? Mi viene da rispondere: non esageriamo!».
Eppure…, eppure Guariniello ha detto che, da qualche anno, riscontra segnali preoccupanti di ritorno all’epoca in cui in una procura generale espresse questo convincimento: «Gli infortuni sul lavoro sono una fatalità».
Non si facevano processi per malattie professionali, per vittime di tumori. Niente. Poi una nuova generazione di magistrati ha cambiato decisamente l’approccio e ciò ha contribuito fortemente a diffondere e a consolidare una maggiore e più attenta sensibilità. Non si può, non si deve morire di lavoro e sul lavoro!
Il vento della deregolazione e l’oblio
Da un po’, però, «ha ripreso a soffiare il vento della deregolazione». Con la sua consueta puntuale precisione, Guariniello ha richiamato diverse recenti sentenze della Cassazione «che ha cambiato idea rispetto ai vent’anni precedenti». In particolare, il cambio di rotta si riscontra nella «Sezione IV, che è appunto specializzata in sicurezza sul lavoro». E le condanne, pronunciate e motivate in primo e secondo grado, non superano quella barriera. Non si può dimenticare – la cicatrice psicologica non si attenua – la prescrizione del Maxiprocesso Eternit nel 2014. Guariniello ha citato anche altri casi. Addirittura, ha richiamato una motivazione espressa dalla Sezione IV: «Trascorso un certo lasso di tempo dalla commissione del fatto, matura un diritto all’oblio in capo all’autore del reato»! Ma come? Il reato c’è stato, l’autore è stato identificato, ma, dopo un certo numero di anni, ha diritto a essere lasciato in pace. Per i famigliari delle vittime, invece, non si esaurisce e non si prescrive il tempo del dolore, non c’è pace, resta sempre la memoria della sofferenza patita e di quella, unita alla paura di morire, letta nello sguardo dei loro cari condannati da malattie non curabili.
C’è, effettivamente, la possibilità che un procedimento ambientale finisca alla Sezione III della Suprema Corte: in quel caso la mentalità è diversa. «Abbiamo dunque, in Italia, due Cassazioni?» ha domandato con finto stupore Guariniello. Perché può capitare, come ha riferito, che lo stesso imputato, titolare della stessa azienda, venga giudicato per lo stesso reato, ma in processi distinti semplicemente perché riferiti a vittime diverse. In uno dei due processi è stato assolto da una sezione della Cassazione, nell’altro è stato condannato da altra sezione. Che definizione usare? Semplicemente: stortura?
Il senso di giustizia negata
Tutto questo produce «un diffuso senso di impunità, le vittime e i loro famigliari sono frustrati da un drammatico senso di giustizia negata» ha affermato con decisione il magistrato. Come nel caso, documentato dal relatore, in cui, appena accaduto un infortunio, il datore di lavoro modificò la situazione dei luoghi prima dell’arrivo degli ispettori dello Spresal. Quella condotta fu frode processuale? Macché! La Cassazione sostenne che quel datore di lavoro, «siccome sapeva di non essere in regola, si è voluto difendere»!
Altro che sensazione di giustizia negata!
Ma la scienza non è un valido supporto per i giudici? Gli scienziati da che parte stanno?
Scienziati foraggiati dall’industria
Non ha usato mezzi termini Bice Fubini, già professore ordinario di Chimica Generale ed Inorganica, direttore del Centro Scansetti per lo studio degli amianti, Università di Torino: «Ci sono scienziati cosiddetti indipendenti che lavorano in proprio, foraggiati dall’industria dell’amianto per smontare verità scientifiche ormai ampiamente acquisite».
E non ci sono soltanto gli «scienziati indipendenti». Benedetto Terracini, già professore ordinario di Epidemiologia dei Tumori e di Biostatistica, Università di Torino, che diede avvio negli anni Ottanta agli studi epidemiologici a Casale Monferrato con i suoi più giovani colleghi come Corrado Magnani e Dario Mirabelli, ha incalzato: «Nei nostri tribunali, chi sostiene le scorrettezze scientifiche sono anche fior di accademici al servizio degli industriali dell’amianto, consulenti che, a fronte di curriculum altisonanti, sui magistrati esercitano un certo fascino; non hanno problemi a pubblicare su riviste scientifiche legate agli interessi industriali, che tralasciano la rigorosa accuratezza delle verifiche, anche quando certi studi riportano dati estremamente parziali!». Terracini ha parlato di «fragilità del mondo scientifico» e il professor Magnani ha ribadito che ci sono tesi ormai ampiamente acquisite che, soltanto nelle aule giudiziarie, vengono ammantate di dubbi: «Sembra sempre di dover spiegare le cose come se si fosse nel Medio Evo». Ad esempio, si mette in dubbio o si nega che «a un incremento di esposizione alla fibra corrisponda un incremento del rischio di ammalarsi».
L’instillazione del dubbio, senza neppure proporre o provare tesi contrapposte, è ovviamente assai funzionale alla difesa perché un giudice, nell’incertezza, assolve.
Ci si ammala e si muore di amianto e nessuno è responsabile. L’amianto fa male, lo si sa da tanto. Da quanto?
Già i greci sapevano
«Già i greci lo sapevano» ha detto esplicitamente Bice Fubini, tanto è vero che «Plinio il Vecchio suggeriva di non comprare schiavi che avevano lavorato l’amianto perché “tanti di loro – scriveva – muoiono giovani”». Nonostante questo, purtroppo, forse anche perché «dal punto di vista scientifico era difficile concepire che una cosa così inerte potesse poi fare così male», dell’amianto si è fatto per molto tempo larghissimo impiego.
Ne ha illustrato dettagliatamente la diffusione in Piemonte Dario Mirabelli, ricordando le fabbriche della filatura e tessitura di amianto a inizio 800, come l’industria «Candida Lena Perpenti» ha produceva tessuti protettivi per i pompieri, per passare al primo esempio di tessitura industriale, dal 1870, a Grugliasco. La fabbrica si chiamava Sia. Ha raccontato l’ex operaia, Alba Tacchino: «Ci ho lavorato 27 anni. Avevo iniziato da giovane, poi, quando ho avuto i bambini, mi sono licenziata. Successivamente, avevo cercato lavoro in altre ditte, ma nessuna mi prendeva». Perché? «Quando sapevano che avevo lavorato alla Sia, dicevano che mi sarei ammalata presto». E allora? «Eh, allora, sono tornata alla Sia». E adesso? «Ho l’asbestosi con percentuale del 40%. Mi ritengo fortunata».
Si sapeva, altroché se si sapeva che l’amianto fa male!
Il giornale denunciato dall’industria
Sempre Mirabelli ha ricordato che, nel 1906, il settimanale locale «Il Progresso del Canavese» scrisse che la mortalità delle lavoratrici nella sede di Nole della British Asbestos Company era 5 volte superiore a quella delle lavoratrici di altre fabbriche del luogo; la società denunciò il giornale per diffamazione. «Ma il tribunale stabilì che non c’era nessuna diffamazione, era tutto vero» – ha affermato Mirabelli – . Ecco: le malattie amianto correlate furono riconosciute precocemente, ma di fatto poi ignorate».
Perché non c’era alternativa?
Martinite: l’alternativa non cancerogena
C’era sì un’alternativa, almeno per diversi degli impieghi. Si chiamava «martinite». Ne ha parlato ampiamente Alessia Angelini, ingegnere chimico e collaboratrice dell’Istituto per lo studio, la prevenzione e la rete oncologica, Regione Toscana. «Martinite da non confondersi con la marinite – ha precisato Angelini -; la marinite contiene amianto della varietà amosite molto pericolosa». La martinite, invece, era un sottoprodotto della lavorazione della ghisa, la loppa di altoforno. «Alla “Manifatture Martiny”, attiva da fine ‘800 al 1986 – ha spiegato l’ingegnere – si producevano materiali che avevano un grandissimo potere isolante, anche migliore dell’amianto; erano modellabili attorno a tubazioni di qualsiasi diametro, economicamente vantaggiosi e, soprattutto, la martinite non è cancerogena».
Se ne fecero larghi impieghi, come isolante, per esempio all’Ospedale Maggiore di Torino, e su parecchie navi, tra cui la Sidney, una portaerei americana lasciata in Italia e poi riconvertita dalla Flotta Lauro per uso passeggeri. Veniva pubblicizzata così: «Inaffondabile e una delle più sicure perché coibentata con martinite».
La martinite, ha precisato Angelini, non aveva le caratteristiche per essere impiegata in associazione al cemento come l’amianto, ma avrebbe potuto ampiamente sostituirlo in diversi utilizzi. «E si sarebbero salvate molte vite!». Eppure, se ne abbandonò l’uso a fronte della invasione dell’amianto sul mercato dei materiali isolanti.
Indagini epidemiologiche negli anni ‘80
Invece si è dovuto lottare a lungo e con tenacia per fermare l’uso di amianto. «Nel 1981 – ha ricordato Bruno Pesce, che era allora il segretario della Camera del lavoro di Casale – mi venne incontro un insegnante, che aveva perso madre e padre per il mesotelioma, e mi domandò a bruciapelo “Che cosa aspettate a far chiudere l’Eternit?”». Pesce ha ricordato l’importanza delle indagini epidemiologiche svolte da Terracini, Magnani, Mirabelli, insieme ad alcuni medici casalesi (Mancini, Capra, Degiovanni, Botta): «L’assessore regionale alla Sanità, Sante Baiardi, nel 1982 aveva stanziato 200 milioni per gli studi epidemiologici, ma, solo lottando e insistendo, ottenemmo che, nel 1985, finalmente gli studi iniziassero». Studi anche innovativi, come ha ricordato Magnani: oltre alla coorte dei lavoratori Eternit, fu studiata, per la prima volta, quella delle loro mogli evidenziandone la mortalità superiore alla media.
La famosa ordinanza
Pesce ha evocato, poi, le cause per la cosiddetta «rendita di passaggio», quando si dimostrò che all’Eternit di polvere ce n’era ancora, nonostante l’Inail si fosse lasciata convincere dalla società che di fibre, oltre i limiti, non ne circolassero più. Il sindacalista ha infine richiamato l’ordinanza del sindaco Riccardo Coppo, anche in questo caso emessa, nel 1987, con il sostegno del sindacato e dei medici locali (la famosa lettera firmata da 100 di loro): «E’ la coraggiosa ordinanza che vietò qualsiasi impiego dell’amianto a Casale, prima in Italia, e che ha fatto scuola nel mondo!».
E’ stato il fronte unito di istituzioni e associazioni che ha favorito, a Casale, un grado di consapevolezza sull’amianto ben diverso da quanto avvenuto, ad esempio, a Broni (altro sito dove si producevano manufatti di amianto), e in molti altri luoghi.
Dove non c’è l’unione
Alessandra Detotto, figlia di un operaio torinese, morto per mesotelioma, ha raccontato il calvario per ottenere il riconoscimento di malattia professionale per il padre, malato e morente. Affiancata dall’avvocato Laura D’Amico, è andata lei stessa a suonare i campanelli per rintracciare ex colleghi che attestassero le condizioni di lavoro in una determinata fabbrica, in modo da poter dimostrare il nesso causale. E non tutti quei lavoratori accettarono, qualcuno alla fine si tirò indietro. «Gli urlai disperata: “Mio padre per te l’avrebbe fatto”».
Servono nuove norme
Non basta applicare le norme esistenti, occorre correggerle soprattutto nei passaggi che, come si è constatato, non «tengono» nei tribunali. Occorre fornire ai giudici strumenti chiari e dirimenti. Guariniello ha richiamato una proposta di legge, messa a punto dalla Commissione ministeriale Amianto, da lui presieduta, che era stata istituita dal ministro Costa, in cui sono state studiate norme puntuali inerenti il nesso causale, i controlli, le verifiche durante le bonifiche, l’obbligo dei medici di denunciare casi di possibile reato. «La proposta è stata convertita in disegno di legge, ma è fermo. Spero che il nuovo Parlamento porti avanti queste norme».
E’ indispensabile, per sciogliere la cortina di silenzio in cui le vittime e i loro famigliari si muovono smarriti.
NUOVA SPERANZA DI CURA PER I MALATI DI MESOTELIOMA
Uno squarcio di fiducia e di speranza concreta si apre, per la prima volta da quindici anni a questa parte, sul fronte della cura del mesotelioma, il cancro causato dall’amianto (nesso causale scientificamente provato, nonostante, anche su questo aspetto, non manchino scienziati che insistono a instillare dubbi nelle aule giudiziarie).
La nuova immunoterapia è basata sulla combinazione di due farmaci, nivolumab e ipilimumab. L’importante novità, annunciata in questi giorni in una conferenza stampa virtuale, promossa dall’azienda biofarmaceutica Bristol Myers Squibb (la cui mission è la ricerca di farmaci innovativi per malattie molto gravi), è che l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha approvato la rimborsabilità della combinazione nivolumab + ipilimumab come trattamento di prima linea in pazienti non operabili e con un tipo di mesotelioma definito «non epitelioide», cioè la forma più grave, che si riscontra in circa il 25% dei casi, non sensibili alla chemioterapia.
Che cosa significa «prima linea? Significa che è la prima cura che si adotta subito dopo la diagnosi. Fino a oggi, invece, l’unica terapia di prima linea esistente e rimborsata dal Servizio sanitario nazionale era la chemioterapia standard a base di cisplatino o carboplatino in combinazione con pemetrexed.
«Dopo tanti anni di progressi limitati nel trattamento del mesotelioma maligno, abbiamo riscontrato un importante beneficio clinico con nivolumab più ipilimumab nello studio internazionale di fase 3 CheckMate-743, che ha coinvolto oltre 600 pazienti» ha spiegato Michele Maio, presidente Fondazione Nibit (Network Italiano per la Bioterapia e l’Immunoterapia dei Tumori) e direttore della Cattedra di Oncologia dell’Università di Siena e del Centro di Immuno Oncologia (Cio) dell’Azienda ospedaliero-universitaria. Il gruppo di Siena di Maio ha sviluppato, nel 2009, le prime ricerche al mondo di immunoterapia, con anticorpi diretti contro differenti check-point immunologici, proprio nel mesotelioma.
I dati dello studio CheckMate -743 mostrano un aumento della sopravvivenza in tutte le forme istologiche della malattia, con quasi un paziente su 5 vivo a 4 anni dall’inizio del trattamento, rispetto a uno su 10 tra quelli trattati con la chemioterapia standard. Nella forma non epitelioide, la combinazione nivolumab più ipilimumab ha più che raddoppiato la sopravvivenza mediana, che ha raggiunto 18,1 mesi rispetto a 8,8 con la chemioterapia standard. «Sono risultati davvero significativi e inimmaginabili fino a poco tempo fa, visto che si tratta di pazienti con malattia avanzata che non possono essere operati» ha spiegato Federica Grosso, responsabile della Struttura Semplice Dipartimentale Mesotelioma e Tumori Rari dell’Azienda Ospedaliera di Alessandria. «Al dato sulla sopravvivenza – ha detto Grosso – si aggiunge quello, estremamente rilevante per i pazienti, sulla qualità di vita, nettamente a favore della immunoterapia».
«Siamo stati pionieri nello sviluppo di queste terapie e crediamo fortemente nel loro valore – ha dichiarato Cosimo Paga, Executive Country Medical Director della Bristol Myers Squibb Italia -: finalmente è arrivato il tanto atteso rimborso della combinazione di nivolumab e ipilimumab anche nel mesotelioma pleurico non epitelioide». Significa che, a partire dal 16 settembre scorso, questa cura molto costosa, a fronte di una richiesta supportata da specifica documentazione medica, viene rimborsata dal Servizio sanitario nazionale al centro oncologico di cura che ha in carico il paziente. «La combinazione nivolumab più ipilimumab – ha aggiunto Paga – viene rimborsata in Italia per quattro diversi tipi di tumore avanzato in prima linea: mesotelioma pleurico non epitelioide, tumore del polmone non a piccole cellule, melanoma e carcinoma a cellule renali. Inoltre, nivolumab è rimborsato, in seconda linea, nel tumore dell’esofago, del polmone non a piccole cellule e nel carcinoma a cellule renali».
Che cosa significa seconda linea? Significa che si passa alla combinazione nivolumab più ipilimumab solo se la terapia chemioterapica standard non ha funzionato.
Ha concluso il dirigente della Bristol Myers Squibb Italia: «Il nostro obiettivo è estendere l’efficacia dell’immunoncologia».
L’obbiettivo principe è quello di guarire. Molti malati di mesotelioma mirano a questo: i malati che hanno già una diagnosi e quelli inconsapevoli.
Ha commentato Laura Abate-Daga, presidente dell’Associazione tumori toracici rari (Tutor): «Vogliamo far sentire meno soli i pazienti colpiti da un tumore toracico raro, fornendo loro un aiuto concreto. Nel 2017 è stata stipulata un’intesa Stato-Regioni per istituire una rete nazionale di tumori rari affinché tutti i pazienti abbiano diritto al miglior percorso di cura. A livello europeo è operativa “Euracan”, con centri di riferimento in cui sono inclusi anche quelli italiani».
PROCESSO ETERNIT BIS
Lunedì 24 ottobre nuova udienza in Corte d’Assise a Novara per il processo Eternit Bis. Prosegue l’esame dei consulenti della difesa.
Grazie Silvana: grande lavoro e profonde riflessioni! In una grande e preziosissima continuità!
Un caro saluto!
Grazie Silvana …resoconto preciso e preziosissimo….Ho avuto la possibilità di conoscere Terracini, persona meravigliosa..ero una giovane sindacalista e la sua competenzae conoscenza mi diede tanta forza, insieme alla tenacia di Bruno Pesce…mio grande maestro nella mia vita Sindacale….
vivere con tutti compagni e compagne della Cgil di Casale…le lotte per mettere al bando l amianto e dare giustizia a chi con tanto dolore ha sofferto….le Valutazioni di Guariniello mi fanno molto soffrire….ma i fatti e i comportamenti che di rilevano nelle aule dei processi in corso…purtroppo ….mi fa dire che gli allarmismi detti devono essere considerati con attenzione….e noi tutti dobbiamo impedire che si attuano…come sempre grazie per la tua grande capacità di farci sentire impegnati a seguire l evoluzione giudiziaria…un forte abbraccio Marinella
Ancora e sempre grazie per le dettagliate informazioni. Due parole restano impresse nell’anima: giustizia negata. Comunque non bisogna perdere la speranza.
Silvana grazie per questi resoconto così semplice e immediato da capire, ma puntuale ed esaustivo. Nessuno sa trattare questo argomento meglio di te! Questo spazio e’ una testimonianza importante per tutti quelli che la storia non la hanno vissuta in diretta! Grazie davvero
Grazie Silvana . Continua così !
Bravissima Silvana, grazie. Hai reso un resoconto perfetto di quanto accaduto, alternando gli argomenti e rendendo il tuo articolo oltre che molto corretto anche di piacevole lettura!
Un enorme grazie Silvana.
I tuoi resoconti sono insostituibili, davvero
Straordinario resoconto utile a tutti. Come sempre! Grazie! Carlo DEGIACOMI