SILVANA MOSSANO
Reportage del 12 dicembre 2022
Le emissioni di fibre di amianto derivanti dalle estese superfici di tetti d’«eternit» e dai cosiddetti usi impropri (sottotetti col polverino, battuti di cortili, piazze e campi da gioco) a Casale superavano quelle prodotte dallo stabilimento Eternit, nel quartiere Ronzone, e dall’area Ex Piemontese (anche questa al Ronzone) dove avveniva la frantumazione a cielo aperto degli scarti, con l’impiego di un caterpillar. Così hanno sostenuto i consulenti della difesa al processo che si svolge a Novara in Corte d’Assise, dove l’imputato Stephan Schmidheiny è accusato dell’omicidio (con dolo eventuale) di 392 casalesi morti di mesotelioma. I suoi esperti hanno fatto quelle affermazioni basandole sull’applicazione di modelli scientifici e formule matematiche, illustrate nelle passate udienze.
Hanno ragione?
I pubblici ministeri Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare hanno chiesto alla Corte d’Assise di interpellare altri consulenti, in particolare alcuni tecnici dell’Arpa regionale, per valutare il metodo e l’applicazione che dei modelli è stata fatta. Il presidente Gianfranco Pezone, ritenuti utili quegli approfondimenti, ha accolto la richiesta garantendo il confronto tra parti e tesi opposte.
Confronto che è avvenuto all’udienza di lunedì 12 dicembre.
E’ stato esaminato l’ingegner Enrico Brizio, attuale direttore del dipartimento Piemonte sud ovest di Arpa, ed esperto di modellistica sui flussi d’aria e la dispersione di inquinanti nell’atmosfera; insieme ai colleghi Luca Mingozzi e Angelo Salerno (tecnici Arpa e già sentiti come consulenti del pm), ha analizzato il lavoro dell’esperto della difesa Andrea D’Anna, ingegnere, professore ordinario di Impianti Chimici all’Università di Napoli. Lo studio del professore è stato sottoposto a valutazioni tecnico-scientifiche, su metodi e modi che hanno condotto il docente partenopeo alle conclusioni già esposte e poi ribadite nel controesame del 21 settembre. Aveva detto: «L’inquinamento nelle vicinanze dell’Eternit proviene dallo stabilimento, ma nel centro città è causato dagli usi impropri». Alla domanda del pm: «Quindi, secondo lei, la frantumazione all’ex Piemontese (ad alcune decine di metri dallo stabilimento, ndr) inquina quanto, o addirittura meno, delle fibre di polverino che escono dalle fessure tra le tegole di un tetto?». Il professore aveva annuito.
Contestato il metodo
Brizio, innanzi tutto, ha trovato inopportuno che il consulente della difesa abbia usato parametri diversi quando prendeva in considerazione le sorgenti di fibre d’amianto riferite agli usi impropri (sottotetti, battuti, tetti…) e le sorgenti da usi propri (in particolare lo stabilimento Eternit e l’area di frantumazione Ex Piemontese).
Il dirigente dell’Arpa regionale ritiene che, in un range che va da un minimo a un massimo, per gli usi impropri il professore ha massimizzato i parametri, per gli usi propri li ha minimizzati. Cosicché, i risultati ottenuti e sostenuti da D’Anna esprimono, a parere del consulente della procura, «dimensioni incommensurabili. Se avesse scelto parametri anche solo intermedi, ma per entrambi i casi, le emissioni di fibre riferite agli usi impropri sarebbero state di gran lunga inferiori, nell’ordine di centinaia e migliaia di volte, rispetto a quelli degli usi propri». E ancora: «Arpa ha fatto monitoraggi specifici sugli usi impropri, ma ha trovato valori di contaminazione che non sono paragonabili ai risultati del professor D’Anna!». Secondo i tecnici dell’Arpa, «usando i fattori di emissione in maniera più realistica e verosimile, si vedrebbe un rovesciamento dei risultati» indicati dal consulente della difesa.
A proposito dei sottotetti.
Secondo l’ingegner Brizio, l’esperto di Schmidheiny avrebbe fatto i calcoli utilizzando un modello matematico che è specifico per i tetti (più esposti a venti e altri agenti atmosferici), ma inadatto per i sottotetti, dove le condizioni di dispersione sono diverse.
E a proposito dei tetti
Il pm Gianfranco Colace, richiamando uno degli argomenti su cui il consulente della difesa molto aveva insistito (la dispersione di fibre dai tetti delle cinque caserme, in due delle quali c’era pure del polverino) ed evocando un’affermazione da brividi (non di D’Anna, ma di un altro consulente della difesa) secondo cui tutti «i tetti di amianto si degradavano a pochi mesi dall’installazione», ha domandato a Brizio: «Ma queste coperture d’amianto esistevano solo a Casale?». «No, esistevano dappertutto, ed esistono tuttora». E, però, tante vittime così sono a Casale e non altrove. Perché?
Le sorgenti di usi propri
Secondo la valutazione dei tecnici dell’Arpa, nel lavoro del professor D’Anna alcune delle sorgenti di usi propri (cioè i luoghi connessi alla produzione dell’Eternit) non sono state considerate o sono state sottovalutate. Ha preso in esame lo stabilimento di produzione, che sorgeva nel quartiere Ronzone, e il sito di frantumazione, ma ha ignorato i magazzini di piazza d’Armi, la discarica lungo il fiume e la «spiaggetta» sul Po.
I magazzini Eternit
Perché il professor D’Anna non li ha considerati come sorgenti significative di diffusione delle fibre di amianto? Il consulente, che lunedì 12 dicembre era presente al processo, dopo le contestazioni dell’Arpa ha fornito una giustificazione: aveva pensato che i magazzini, citati in studi e rilievi che risalgono a fine anni ottanta, fossero tutti interni allo stabilimento di produzione al Ronzone e quindi ha valutato questo polo nel suo complesso, senza immaginare che ci fossero magazzini anche a chilometri di distanza. Quelli in piazza d’Armi, appunto.
Dovendo ripresentarsi lunedì al processo per il confronto con i tecnici dell’Arpa, D’Anna è andato a vedere bene ed effettivamente ha trovato conferma della loro presenza, ma ha comunque respinto la critica mossa dall’Arpa; secondo l’agenzia piemontese per la protezione ambientale, «i magazzini Eternit, non ancora bonificati nel 1990, costituivano una fonte significativa di dispersione di fibre di amianto nell’aria urbana contribuendo all’innalzamento del valore di fondo». Il professore, invece, ha minimizzato: «In quei magazzini erano allocati i materiali finiti e non veniva effettuata nessuna lavorazione». Cioè: i tetti e sottotetti delle case sono fonte di pesante diffusione di amianto, mentre le cataste di tonnellate manufatti, per nulla sigillate, in una struttura con estesa copertura di «eternit», sarebbero così insignificanti da non essere considerati?
I tempi delle bonifiche
I magazzini in piazza d’Armi erano già stati bonificati negli anni ‘89/’90? «No, non erano ancora stati bonificati» ha affermato Brizio. La bonifica iniziò nel 1995. Assessore all’Ambiente era, all’epoca, Luisa Minazzi, casalese doc, bollata dal mal d’amianto che l’ha stroncata, nel 2010, all’età di 58 anni. Il Comune, nel 1994, aveva acquistato i magazzini e aveva subito predisposto gli interventi di bonifica, ricavando poi una struttura polivalente (esposizioni, cinema e attività commerciali) che fu soprannominata «Lingottino» di Casale.
E’, poi, del 1994 il progetto Urban, predisposto con la partecipazione a un bando europeo, che consentì di reperire finanziamenti finalizzati a diversi filoni di bonifica, tra cui quello dello stabilimento di produzione al Ronzone, l’intervento più impegnativo e complesso, ultimato nel 2006.
La diminuzione delle fibre
«Un monitoraggio compiuto dall’Arpa nel 2007 – ha ricordato l’ingegner Brizio – evidenzia una riduzione di fibre nell’aria della città di Casale, addirittura al di sotto di una fibra per litro». Quindi, dopo la bonifica della fabbrica, l’aria era migliorata, mentre tetti, polverini e battuti erano ancora lì, nella maggior parte. D’Anna, però, ha insistito nel proprio convincimento, ritenendo che il miglioramento dell’aria fosse riconducibile anche a una dismissione degli usi impropri. Come? «La gente – ha ipotizzato – negli spazi privati aveva di sicuro già cominciato a rimuovere i tetti, magari senza aspettare i contributi comunali, e comunque aveva imparato a stare più attenta, tanto più dopo l’ordinanza del sindaco Riccardo Coppo del 1987». E’ l’atto con cui fu vietato l’uso di amianto a Casale, richiamandone il pericolo per la salute. Quindi, secondo l’opinione del professore, la maggior cautela dei cittadini avrebbe limitato la diffusione di fibre d’amianto derivante da quella massa di usi impropri che, a suo dire, sarebbero stata la causa principale dei mesoteliomi.
Chi c’era sa che non è andata proprio così. L’ordinanza firmata dal sindaco Coppo fu un atto molto meditato e sofferto, redatto con scrupolosa attenzione con il sostegno tecnico di medici in prima linea come Angelo Mancini e Giampiero Bertolone, tenendo anche conto delle reazioni che quel divieto avrebbe provocato nella gente. Non bastò l’ordinanza che vietava, per la prima volta in Italia, l’utilizzo di materiali contenenti amianto, anche residuo delle lavorazioni, a convincere la maggioranza dei cittadini che il pericolo riguardava tutti, perché la gente era persuasa che ad ammalarsi fossero «quelli dell’Eternit», che la «puvri», la malapolvere, era lì.
La sensibilizzazione verso tutte le bonifiche fu la conseguenza di uno stillicidio di lutti e di un’opera di sensibilizzazione tenace promossa dalle istituzioni, dall’Afeva (Associazione famigliari e vittime amianto), dai sindacati, dalle scuole. Le bonifiche private arrivarono ben dopo il 1987; quindi, è realistico che il rilevamento dell’Arpa del 2007, che attestava un netto miglioramento dell’aria, avesse risentito positivamente della bonifica dello stabilimento.
Spiaggetta o paludetta?
La «spiaggetta» sul Po, che si estendeva per sessanta/settanta metri, fu bonificata tra il 2000 e il 2001, ha poi ricordato l’ingegner Brizio. Neppure questa era stata considerata dal consulente della difesa come sorgente di diffusione delle fibre di amianto e ha spiegato il perché: era un’area umida a ridosso del Po e si sa che l’umidità abbatte notevolmente la polverosità.
Il pm Colace ha provato a cercare una definizione adeguata: «Era una spiaggetta o una paludetta?». Il professor D’Anna, tenendo il punto sulla tesi dell’umidità, ha replicato: «Anche al mare ci sono le spiagge e sono lambite dall’acqua…». Già. In questo caso dal fiume. D’Anna ha aggiunto che la spiaggetta «a volte veniva anche inondata dalle piene…». Poi, però, spunta il sole, asciuga ben bene e la superficie si sfarina: così avevamo sentito raccontare da più testimoni oculari, quelli che evocavano le allegre domeniche estive trascorse su quella «riviera».
C’era polvere all’ex Piemontese?
Ma c’è da credere ai testimoni? C’è da credere ad esempio quando ricordano tanta polvere che si levava dalla zona di frantumazione all’ex Piemontese?
La Ex Piemontese era un’area così denominata per una precedente proprietà industriale, ad alcune decine di metri di distanza dall’Eternit, che l’aveva acquisita adibendola, appunto, all’attività di frantumazione grezza degli scarti di lavorazione.
Il consulente della difesa ha messo in dubbio l’intensa polverosità in quell’area; le testimoniane non sarebbero sufficienti, perché pare che la percezione visiva della polverosità sia anche conseguenza di un effetto ottico, collegato alla capacità di un materiale di assorbire la luce.
E D’Anna ha pure avanzato dubbi che ci fosse un’attività tanto intensa come è stata descritta dall’accusa. Ma il pubblico ministero Colace ha insistito: «La ruspa era in movimento 24 ore su 24 per frantumare scarti». Perplesso il consulente: «Possibile che lo stabilimento casalese producesse così tanto scarto da giustificare quell’attività giorno e notte?».
Ha perfettamente ragione: esiste in ogni processo produttivo una percentuale fisiologica di scarti, ma così tanti… Infatti, lo stabilimento casalese non produceva affatto tutti quegli scarti. E dunque? La spiegazione era già emersa, ma il professor D’Anna non era stato probabilmente informato: la mole complessiva di detriti veniva fatta convergere da vari stabilimenti Eternit d’Italia concentrando a Casale, in quell’area, tutta l’attività di frantumazione, per la successiva reimmessione, nel ciclo produttivo, del materiale sminuzzato, tramite il mulino Hazemag.
I cassoni di polverino scaricati a Po
A proposito di testimonianze, si dovrebbe mettere in dubbio anche quella di Rosalino Secreto, chiamato a deporre lunedì 12 dicembre?
«Ho lavorato per la ditta di Enrico Bagna tra il 1978 e il 1984/85» ha esordito.
La ditta Bagna, che si occupava in generale di attività di rottamazione, aveva un appalto con la società Eternit per lo smaltimento dei rifiuti della fabbrica. Il titolare lo aveva confermato nel maxiprocesso di Torino.
«Io ero meccanico – ha raccontato Secreto lunedì in Assise -, mi occupavo soprattutto della manutenzione dei mezzi e anche della lavorazione dei rottami di ferro. Ma c’era un collega, sì quel “ragazzo” lì… Bartolo Occhipinti si chiamava, che saranno già quindici anni che è morto…, ecco, lui andava all’Eternit a caricare in un cassone il polverino e gli scarti. E poi li scaricava vicino al Po: c’era una buca, da cui era stata estratta la ghiaia, dicevano fosse profonda trenta metri, e buttava tutto lì dentro. In tanti andavano a scaricare lì, eh… anche gli inerti dei cantieri edili, tutto».
Ha spiegato come avvenivano le operazioni: «Il cassone veniva portato nello stabilimento, riempito, agganciato al camion e Occhipinti, che era addetto a quelle operazioni, lo andava a scaricare nella buca. Mica solo il polverino, anche il fango delle vasche: lo lasciavano asciugare, dopo lo agganciavano col “ragno” e lo portavano via». E i cassoni com’erano? «Coperti di solito e qualche volta no, dipendeva da quanto erano pieni».
Il materiale buttato nella buca vicino a Po veniva trattato? «Trattato, no; ogni tanto arrivava una ruspa e spianava. Spianava tutto».
Questa attività col cassone è andata avanti «fin verso l’83/84, un po’ prima che lo stabilimento fosse chiuso». La fabbrica è stata chiusa nel 1986, con la dichiarazione di fallimento del mese di giugno.
Da quel momento, gli scarti, che prima venivano rovesciati nella buca, dove finivano? «Mah – ha risposto l’ex operaio -, si diceva li portassero in Svizzera, in Francia o in Germania. C’erano voci che li usassero per farci le “prismate” con cui rafforzare gli argini dei fiumi».
Il professor D’Anna, comunque, ha difeso tenacemente il proprio lavoro e ha replicato ai rilievi mossi dai tecnici dell’Arpa insistendo sui dati, richiamando numeri e le proprie conclusioni: e cioè che le sorgenti da cui si è sprigionata la quantità più consistente di fibre a Casale sono stati tetti e usi impropri.
E i venti?
Come hanno inciso i venti e le correnti d’aria sulla dispersione delle fibre?
Il presidente della Corte, interessato a saperlo, ha sollevato la questione: «Per quanto riguarda la variabile del vento – ha domandato Pezone -, è la stessa cosa avere una zona senza ostacoli rispetto a una zona più urbanizzata, caratterizzata dalla presenza di più edifici?».
Il consulente della difesa ha risposto deciso: «Il centro città di Casale non è caratterizzato da palazzi molto elevati e da strade molto strette». Ha ammesso di non esserci mai stato, però ha «fatto passeggiate virtuali utilizzando le mappe di Google, come Street View». E ha visto «palazzi al massimo di due piani… e cascine con abitazione rurale e un grosso cortile, ma non palazzoni che creano correnti preferenziali». Quindi, ha insistito il presidente, ha considerato poco significativa la struttura urbanistica… «Ho immaginato che nella città di Casale, tra gli anni settanta e ottanta, non ci fosse un numero di abitazioni molto elevate e molto addensate da costringere le fibre a rimanere lì ferme» ha insistito il consulente. Il suo convincimento non vacilla: tetti e usi impropri sono i principali colpevoli, e la conformazione urbanistica che si è raffigurato gliene dà conferma.
Ma com’è fatta la città?
Be’, «Street View» è indubbiamente uno strumento interessante, utile e comodo, ma fidarsene ciecamente è un po’ azzardato. Gli occhi avrebbero potuto guidare meglio il professore nel centro di Casale, nel dedalo di vie in cui gli amministratori pubblici hanno dovuto imporre il senso unico proprio per la loro larghezza limitata: il passaggio incrociato di due auto risulterebbe arduo e talora pericoloso. Percorrendo quelle strade, avrebbe potuto ammirare palazzi nobili di tre, quattro, cinque piani a ridosso di vie come – a citare pochissimi esempi – Roma, Mameli, Benvenuto Sangiorgio, Saffi, Liutprando, Lanza, Garibaldi, Paleologi, Canina, corso Trento o Indipendenza o Giovane Italia o Valentino che solo la toponomastica ha aggiornato nel tempo, perché l’impianto urbanistico è intatto da secoli. Nella cintura attorno, poi, le strade si allargano un poco, sì, ma i palazzi si elevano in altezza a sei, sette, otto piani.
Una visita vera Casale la merita, per rendersi conto, senza lenti virtuali, che è una città bella, con antichi e alti palazzi assiepati su vie affascinanti, strette e talora tortuose. Questa è la struttura urbanistica reale. Una bella città, sì, e più sventurata di altre dove, pure lì, i tetti di amianto c’erano e ci sono, ma il mesotelioma – per fortuna – non è affatto così frequente, anzi risulta persino una parola sconosciuta.
Incontrerebbe, il professore, per quelle vie suggestive, tra quei palazzi e sotto i portici, della gente garbata che, con dignità e tenacia, e senza rabbia, invoca soltanto una cura per guarire e il riconoscimento di un torto subito. Per verità, senza nascondimenti e senza vendetta.
PROSSIME UDIENZE
L’ultimo confronto tra consulenti avverrà nell’udienza del 16 gennaio.
Poi, il presidente Pezone potrebbe dichiarare chiusa la fase dibattimentale del processo e aprire la discussione. Il 30 gennaio i pm Colace e Mariagiovanna Compare dovrebbero iniziare la requisitoria.
Grazie come sempre. Buon pomeriggio sera. Paolo
Grazie tante Silvana! Un resoconto veramente molto significativo, che coglie, con efficacie chiarezza, gli aspetti più importanti per ristabilire la verità sull’incidenza delle fonti d’inquinamento.Quindi grazie per aver rilevato e sottolineato, in modo ottimamente comprensibile, le verità emerse dalla consulenza del dirigente ARPA per la Procura. Consulenza esercitata con grande professionalità, esperienza sul campo e coerenza con il proprio ruolo di funzione pubblica per la tutela ambientale.Ecco la verità in luogo delle contraddizioni,
anche clamorose, dei
Prof della difesa.
Ancora grazie!
Per fortuna che ci sei tu a mettere nero su bianco i resoconti dettagliati e facilmente comprensibili. Per noi profani sarebbe difficile districarsi in quel ginepraio. Grazie ancora.
Si potrebbe offrire ai consulenti della difesa una visita guidata in Casale, iniziando dall’Ospice Zaccheo, ammirando le bellezze di questa città unica, e finendo in via Negri. Altro che Street View!
In merito all’esposizione del consulente della difesa, ho osservato che il disvelarsi delle sue discutibili metodologie di calcolo, e la rivelazione della sua assoluta non conoscenza di Casale, lo abbiano indotto in leggero stato confusionale.
Tant’ é che ad un certo punto per suffragare le sue teorie sull’uso improprio del polverino, mi pare abbia rappresentato i Casalesi tutti come miserabili accattoni: “la gente andava (all’eternit ndr) a prendere il polverino per tappare i buchi sulle strade”.
Mi ha fatto male.
Gli concedo l’attenuate dello stato confusionale (anche nella suo lavoro della relazione).
Grazie per l’ articolo così dettagliato . Buona giornata e buon lavoro