SILVANA MOSSANO
CASALE MONFERRATO
L’alluvione del Duemila non avrebbe dovuto esserci. E chi, invece, premoniva che il rischio c’era e c’erano i segnali che si ripetesse il disastro del 1994, fu tacciato di essere una Cassandra, menagramo, portatore di malocchio, fin alla soglia di rischiare una denuncia per procurato allarme. Ciò accadde, nei giorni a scavalco tra settembre e ottobre di quell’anno di inizio millennio, ai due sindaci Paolo Migliavacca di Morano Po e Francesco Bonafè di Balzola, che si erano già bevuti una gran quantità d’acqua sei anni prima ed erano rimasti del tutto inascoltati sulle opere da fare per mettere in sicurezza la loro gente da un possibile infausto replay. Nessuno li ascoltava. Chiamarono la cronista e la portarono sull’argine a vedere: “Guarda, guarda – e si sbracciavano a indicare l’assenza di protezioni strutturali -: qui, se piove un po’ deciso, capita come allora: andiamo di nuovo sotto”.
Un po’, in verità, si sbagliarono; infatti, non capitò soltanto come “allora”, ma peggio.
La cronista pubblicò l’ampio servizio premonitore su “La Stampa” e finì, insieme a loro, nel tritatoio delle accuse. Un paio di settimane dopo, ci fu una ben triste rivincita: i fatti confermarono la premonizione. Purtroppo.
Nel pomeriggio di domenica 15 ottobre, un collega giornalista da Trino avvertiva in una sconsolata telefonata: “Qui siamo già a bagno”. Non fu difficile, per i due sindaci, calcolare entro quante ore l’ondata avrebbe sepolto pure i paesi di Morano e Balzola, anche perché da giorni sorvegliavano gli argini fino a notte fonda, insieme ai loro vigili e tecnici: rispettivamente “il” Lino a Morano, “il” Germano e il geometra Livio a Balzola. I due “sindaci con gli stivali” furono chiamati Migliavacca e Bonafé, perché, per settimane, quei calzari divennero l’emblema della loro divisa, altro che fascia tricolore!
La gente ricordava bene che cosa era avvenuto sei anni prima; qualcuno, pur con la voglia di dimenticare, aveva inciso sul muro un segno, a futura memoria, da mostrare ai nipoti e ai pronipoti. “Vedi? – avrebbero raccontato loro – Qui nel 1994, tanti e tanti anni fa eh, è come se il mare ci fosse entrato in casa…”.
Ne erano passati soltanto sei, di anni, e l’acqua, ora, stava tornando. Ma non avevano detto che, quella del ‘94, era una piena secolare? Che eventi così capitano ogni cento anni?
E, invece, si rinnovava l’evento funesto. Il fiume galoppò, i rii si gonfiarono, i fossi si ingolfarono e le acque strariparono ovunque: nelle campagne e nei cortili, nelle case e nelle fabbriche, nelle botteghe e nelle stalle, nelle chiese e nei cimiteri. Chi, sei anni addietro, aveva segnato il livello dell’acqua a 70 – 80 centimetri, mise al riparo mobilio e beni domestici e affettivi all’altezza di un metro e mezzo, “così questa volta li salviamo”. Ma l’onda fu più alta, più violenta, più immensa. Travolse e superò ogni calcolata misura.
A Casale, in via Crova, era stato aperto il Com perché dalla Protezione civile regionale tutti erano stati messi in guardia. Nello stanzone al primo piano, c’era un andirivieni di gente all’erta: sindaci e amministratori pubblici, consiglieri comunali, tecnici e funzionari, vigili e pompieri, poliziotti e carabinieri, volontari e radioamatori, medici e assistenti sociali. Tutti con le facce smorte e tetre. Fino a notte il contatto con Morano fu tenuto attivo con qualche telefono: quello, ad esempio, del sindaco Migliavacca, che stava in municipio con i suoi, dopo essersi accertato che la popolazione fosse il più possibile al sicuro, o quello di Mauro Oglietti riparato nella casa di riposo del paese dove lavorava la moglie e dove si era fatto il possibile per proteggere al meglio gli anziani. Ma l’energia elettrica era saltata e i cellulari, senza possibilità di ricarica, nella notte ammutolirono; così, il paese rimase isolato.
All’alba del 16 ottobre, all’aeroporto Cappa di Casale si posò un elicottero che il presidente della Provincia di Alessandria, Paolo Filippi, era riuscito, in qualche modo, a reperire e noleggiare. Salì a bordo, seduto dietro al pilota.
“Posso venire anch’io?”. I cronisti sono fatti così, si intrufolano ovunque con l’obbiettivo di andare vedere con i propri occhi e sentire dal vivo ciò che poi racconteranno, testimoniando ai lettori la verità insieme alla loro emozione.
“Sali!”. E, così, anch’io salii e mi sistemai al suo fianco, il taccuino in tasca e la macchina fotografica al collo.
Il portellone fu chiuso e la libellula si alzò in volo. Dentro la cabina, il rumore era assordante e faceva rullare lo stomaco; e, tuttavia, prevaleva un’irreale sensazione di immobilità e di assenza di suono che si levava dalla distesa sotto di noi, di un color caffelatte sbiadito, interrotta qua e là dalle sagome geometriche dei tetti o dalle chiome per lo più spelate degli alberi. Sepolte le strade, azzerato ogni movimento vitale. Una Pompei sommersa dall’acqua anziché dalla lava. In un sogno o in un incubo, te l’eri raffigurata così la fine del mondo: muta e immota.
Non un lamento, non un grido d’aiuto, non un fazzoletto bianco a sventolare, non una mano alzata. Eppure, sotto quei tetti, lo sapevamo, ne eravamo certi, c’era la vita, tante vite.
Noi volavamo là sopra e guardavamo impotenti, respirando piano, con il freddo dentro.
“Possiamo tentare di atterrare lì” annunciò il pilota. Filippi disse sì, di provare a scendere. Vicino allo stabilimento della Holcim, affiorava una superficie di cemento di poco sopraelevata. L’elicottero si appoggiò adagio e si zittì. Scendemmo. La distruzione appariva ancora più desolante e tangibile. Ci guardavamo attorno straniti, senza poter muovere che pochi passi, immersi in un silenzio surreale, eccetto il fruscio di uno sciabordio sinistro dell’acqua che, scossa da un filo d’aria, disegnava, lemme, ampi archi. Mi sorpresi a osservare le scarpe del presidente: zuppe di pioggia, avevano cambiato colore, erano buone da buttare. Che strano, in certi momenti terribili la mente aggancia pensieri ridicoli.
Sembravamo tre superstiti su un’isola grande come una stanza. Rimanemmo lì a lungo, a frullare la mente che non produceva nessuna soluzione. Finché, udimmo un rumore sordo e ci voltammo in quella direzione, un caterpillar si muoveva goffo e lento come un enorme animale preistorico. Ci appassionammo a quel rumore vitale, il sangue riprese vigore. Indossavo un piumino di colore arancione, ero la più visibile, così cominciai a sbracciarmi e a urlare. E tutti urlavamo, ma il caterpillar proseguì diritto, ignorandoci, e uscì dal nostro campo visivo. Avevamo sfiorato un contatto, ma era scivolato, ci sentivamo frustrati. Finché il pachiderma ricomparve e ripresi a sbracciarmi e ricominciammo a urlare. E, questa volta, chi lo guidava ci vide. Con non poca fatica, piegò nella nostra direzione e si fermò, finalmente, a portata di voce.
Nelle ore a seguire, la benna fu utilizzata per portare via dalle case le persone che si trovavano in maggiore difficoltà, facendole arrivare fino all’elicottero che, poco alla volta, li trasferiva all’aeroporto o ai pulmini posizionati nella prima fascia fuori paese all’asciutto, per poi disporne il ricovero in ospedale o l’accoglienza in qualche luogo sicuro.
Si fece trasportare dalla benna del caterpillar anche il commissario capo Alberto Bonzano; lo accompagnarono fin davanti al municipio per parlare con il sindaco. Migliavacca si affacciò alla finestra del piano superiore, la parte sottostante del palazzo era sott’acqua. Il commissario, sollevato dalla benna, si rivolse al sindaco: “Evacuiamo il paese – suggerì -, ci organizziamo per portare via tutte le persone”. Il sindaco si guardò intorno e immaginò, dentro le case, le donne e gli uomini e i bambini che conosceva a uno a uno, che chiamava per nome. Allontanarli significava strapparli. Una lacerazione insopportabile per quella gente. “No – disse qualche istante dopo -, non evacuiamo”.
Nelle ore e nei giorni a seguire, a Morano tornai a bordo di un fuoristrada della polizia. Arrivai in municipio e incontrai il sindaco Migliavacca, con addosso gli stivaloni, il volto stropicciato e triste: “Ci avevano accusato di essere allarmisti…”. Gli occhi erano pieni della sofferenza per la sua gente. E gli altri, lì con lui, erano curvi per lo stesso dolore.
Poi l’acqua cominciò a defluire, lasciando esposta alla vista un’opaca patina appiccicaticcia e, diffuso, un odore acre. A poco a poco, si accumularono, oltre le porte, sui marciapiedi e al ciglio delle strade, montagne di masserizie. Tracce di esistenze perse per sempre: fotografie, oggetti, mobilio, abiti, intimità mescolate alla poltiglia.
E, allora sì, esplose la rabbia. Perché con qualcuno te la devi prendere per trovare la forza di sopportare e reagire. Quando il deputato monferrino Angelo Muzio fece arrivare il ministro dei Lavori pubblici Nerio Nesi, gli alluvionati, che mal sopportavano in quei giorni qualunque passerella politica, si raggrupparono sull’angolo del curvone ben decisi a tirar fuori la loro indignazione, mentre lo guardavano a distanza, protetto da una cintura di forze dell’ordine. Ma Nesi, inaspettatamente, mollò lì quelli della scorta e del codazzo, e si avvicinò ai moranesi che, di colpo, si sentirono un po’ rincuorati da quella vicinanza istituzionale e umana, rassicurante e pragmatica al contempo.
Un giorno, in uno di quei giorni, quando già si stringevano tra le mani pale e scope quali strumenti di rinascita, arrivò in paese la macchina di “Specchio dei Tempi” mandata dal quotidiano “La Stampa”: l’obbiettivo era consegnare un assegno a tutti, senza distinzione, per far fronte ai bisogni immediati, comprare il cibo, i medicinali, una felpa. Ma anche i buoni propositi, talora, nascondono insidie: ci furono attimi di tensione, perché la vettura di “Specchio dei Tempi” fu presa d’assalto dai molti che temevano di rimanere esclusi da quell’inatteso beneficio e rischiò di essere ribaltata.
Passarono settimane e venne dicembre. Dalla “Stampa” arrivò Babbo Natale. Gli diedi appuntamento a Morano, poco distante dalla scuola, in un posto un po’ riparato dalla vista dei bambini, per dar modo al collega torinese Angelo Conti di dismettere l’abito del cronista per indossare quello rosso e sistemarsi sul viso una folta barba bianca di cotonina. Trascinava un grande sacco di giocattoli per quei piccoli emozionati ma ancora spaventati, che, piangendo tra le braccia dei genitori, faticavano ad addormentarsi la sera.
Anche il paese di Balzola era rimasto imprigionato dalle acque dell’insidiosa e imprevedibile Stura e di una somma di rii e rigagnoli che vomitavano melma. Rimase più a lungo isolato. Era spuntato uno sbiadito sole quando riuscii, finalmente, ad arrivarci. L’avevo già visto, conciato così, il paese, appunto sei anni prima. E il disastro, anche peggiore, si era ripetuto.
Parcheggiai sotto il municipio.
“Il sindaco?” domandai.
Il tale cui mi ero rivolta alzò la testa puntando il mento verso la cima dello scalone. Da lì mi arrivarono, dure, le parole di Bonafè, ancora fuori dalla mia vista: “Non voglio vedere nessuno! – tuonava – Quello che avevo da dire l’ho detto e non sono stato ascoltato”. Qualche giorno prima, nonostante le accuse dopo l’articolo sulla Stampa, era tornato a insistere, con preoccupazione e lungimiranza: “Le falde non ricevono più, i campi non sono più in grado di assorbire, sta per succedere qualcosa di brutto!”. Tutti sordi.
Adesso era furibondo: “Tutti fuori dai piedi!”, arrabbiato e sfinito, ben diverso dal suo stile moderato e comprensivo.
Cominciai a salire un gradino dopo l’altro, un po’ titubante.
“Ho detto niente giornalisti” ripeté rivolgendosi a qualcuno che tentava di passargli una telefonata da una non meglio precisata redazione di qualche testata.
Continuai a salire, ma, quando incrociai il suo sguardo, mi fermai, aspettando che mi cacciasse. “No – disse, ammorbidendosi subito e abbozzando un sorriso -, lei no, lei può venire”. Ci abbracciamo: “Qui sei la benvenuta”.
Fu un incontro struggente. “E’ peggio dell’altra volta” mormorò.
“Ho provato a chiamare, ma è tutto bloccato…” accennai.
“Il cellulare mi è cascato nell’acqua mentre, con un’imbarcazione di fortuna, cercavo di raggiungere la casa di riposo. Ero tanto preoccupato per gli anziani, hanno bisogno di essere rassicurati” spiegò. La struttura sorge vicino all’insidiosissima Stura che tanto ha fatto dannare, anche negli anni a venire.
“Per fortuna sono arrivati i tedeschi” disse qualche giorno dopo. Un’efficientissima colonna della protezione civile, giunta dalla Germania, la Thw, si prese cura di Balzola e dei balzolesi, con competenza e umanità esemplari. “Furono loro a bonificare la riseria Vignola allagata – ricorda Bonafé –, perché nessuno voleva entrarci per timore dei velenosi gas di fermentazione”. E non di meno furono attivi e solerti i vigili del fuoco, provenienti da diverse città. Uno di loro era un ragazzo, allora; adesso guida il distaccamento di Casale.
Nei primissimi giorni della piena, prima dell’arrivo degli aiuti, i balzolesi, che erano stati allontanati dalle case più a rischio e trasferiti nelle scuole adibite a centri di accoglienza, furono sfamati con i cibi preparati per una festa che si sarebbe dovuta svolgere dopo la corsa sportiva organizzata per domenica 15 ottobre e che, invece, Bonafè, nel timore della piena, aveva sospeso, tirandosi addosso, a tutto subito, non poche contumelie.
Anche Terranova e Casale Popolo si ritrovarono a bagno come sei anni prima. Camminavo nell’acqua alta fino alla cintola, avevo la macchina fotografica al collo, ma ero costretta a sollevarla a mani unite, altrimenti sarebbe andata a mollo. Avanzando, ogni tanto spaventavo alcune bisce che affioravano in superficie. All’inizio, io ero più spaventata di loro, ma poi avevo finito per non farci più caso.
In molti mi fermavano: “Viene da me a scattare qualche foto?”. Io li seguivo. E domandavo: “Com’è casa sua? Ha perso tutto?”. La risposta: “Non lo so, non ci sono ancora stato, ci vengo ora con lei”. Avevano bisogno di non essere soli a condividere l’angoscia per quel che avrebbero trovato. A volte era difficile spingere la porta, bloccata da masserizie accatastate all’interno; altre volte, era tutto spalancato, con un flusso comunicante di cose zuppe che galleggiavano: pentole, medicinali, carte, documenti.
Una signora anziana, per strada, mi confidò che aveva bisogno di tornare a casa perché doveva prendere con urgenza le pastiglie “per il polistirolo”. Un’altra era preoccupata per le galline. C’era chi portava fuori materassi e coperte, con l’illusione che il poco sole che aveva finalmente squarciato le nuvole potesse fare qualche miracolo.
E c’erano facce arrabbiate di chi mal sopportava l’andirivieni “di quelli che arrivano da fuori e vanno su e giù in macchina a fare i turisti: sono curiosi di vedere in che stato siamo! Se ne tornino a casa oppure vengano ad aiutarci”.
A Villanova e anche a Coniolo la piena aveva travolto soprattutto le fabbriche, un disastro da cui alcune aziende non si sollevarono più.
Anche nel quartiere Nuova Casale, praticamente in affaccio sul Po, la botta fu più secca che sei anni prima. Delle casette ben allineate spuntavano il piano superiore e il tetto; e, sotto l’acqua immobile, si evocava il ricordo dei piccoli orti ben curati.
La novità Duemila fu l’allagamento di una grossa fetta del rione di Oltreponte, ingresso a Nord nella città di Casale Monferrato. E, per fortuna, molti cittadini erano stati allontanati prima che la piena arrivasse. I vigili, mandati dal sindaco Paolo Mascarino, dal vice Ettore Coppo e da Salvatore Sanzone, erano passati di casa in casa: “Via, via, via, fuori, fuori, fuori, qui non potete stare!”: il tono era talora brusco, per essere più convincente in quelle ore concitate. E li facevano salire sui pullman arancione dell’Amc.
Il Comune aveva allestito i centri di accoglienza nelle scuole, distese di lettini in cui condividere, in promiscuità, la desolazione, la tristezza per aver dovuto abbandonare la casa, ma, allo stesso tempo, il sollievo dello scampato pericolo personale.
Una montagna di farmaci distrutti fu accatastata davanti alla farmacia che, pochi giorni dopo, riprese a lavorare in un container. Disperati i ristoratori che avevano appena inaugurato il locale rinnovato, sulla cui misera fine sarebbe continuato a gravare, implacabile, il mutuo. In lacrime un uomo con i baffi, la moglie ricoverata in ospedale e lui a cercare invano i resti delle fotografie dei figli al battesimo e alla prima comunione, e la raccolta di videocassette con i film di Alberto Sordi, “ci tenevo tanto!”. Una giovane donna convinse una squadra di vigili del fuoco a farsi accompagnare, su un canotto, fino alla sua casa ancora allagata e irraggiungibile: trovò la gatta Virgola, viva e raggomitolata al centro del letto, assediato tutt’intorno dall’acqua che, però, non aveva superato il livello delle coperte. Per ore e ore, sulla melma fangosa e giallastra, diluita al letame di un grande allevamento, galleggiarono le sagome immobili di mucche e vitelli, che poi vennero portate via. Un cane, invece, rimase impiccato con il suo collare al ramo di un albero, nell’istintivo tentativo di sfuggire al disastro.
L’instancabile fotoreporter Federica Castellana fissò e documentò in una mole immensa ed efficacissima di immagini quel che la collega cronista riusciva soltanto a fotografare con gli occhi e archiviare nella memoria.
Poi, ovunque, salì il livello di rabbia, come necessaria valvola di sfogo. Una domenica mattina, ci fu anche un’affollata manifestazione da via Adam verso la città: con qualcuno bisognava prendersela e la sede della municipalità pareva un buon bersaglio. Una fiumana di gente era decisa a raggiungere il palazzo del Comune, in via Mameli. La polizia sorvegliava, ma la gente arrabbiata sfondò il blocco istituito in assetto antisommossa e continuò ad avanzare fino a occupare il ponte sul Po: massaie, pensionati, impiegati, operai determinati a non muoversi di lì, molti seduti sull’asfalto, nonostante la fatica a tirarsi di nuovo in piedi. I poliziotti, impegnati nel servizio d’ordine – alcuni di loro pure alluvionati – usarono la pazienza e l’affetto che un figlio ha per i genitori, un nipote per i nonni, un padre per i figli. E li convinsero a tornare indietro, per non rischiare denunce. Tutto questo caos solidale era commovente. Un ricordo da custodire caro.
Il passaggio successivo fu la nascita dei comitati spontanei di cittadini che chiedevano giustizia, che pretendevano con buon diritto e con urgenza i denari per rimettere in sesto le case gravemente danneggiate e spogliate di arredi, che insistevano soprattutto per l’immediata messa in sicurezza dei territori. Si aveva fretta di tornare a com’era prima: per cancellare l’incubo, per ottenere la certezza che non sarebbe capitato mai più e, nell’imminenza, per affrontare l’autunno e l’inverno, talvolta senza neppure poter contare su una coperta o un giubbotto pesante perché tutto s’era perduto.
Ricordo, ad esempio, il comitato Calca di Oltreponte con Massimo Debernardi e Gianni Battezzati, il comitato di Balzola con Gianfranco Bergoglio. Ognuno aveva un portavoce, finché tutti i portavoce cercarono di unirsi in una sola voce, perché ogni luogo, indipendentemente dai confini geografico-amministrativi, era disastrato allo stesso modo. Con una particolarità: fu coniata la definizione di “bialluvionati” (la prima volta la sentii pronunciare dal vicepresidente provinciale Daniele Borioli), cioè sfigati due volte, sia nel 1994 sia nel 2000.
Finché, a poco a poco, l’acqua si ritirò; i campi e le case, sole dopo sole, si asciugarono; la tinteggiatura, pennellata su pennellata, ricoprì, sui muri, i segni e la “fioretta” lasciati dall’umidità.
Un po’ di opere di protezione del territorio, anche grazie alle tenaci insistenze di sindaci e assessori e dei comitati (o di chi è rimasto in piedi di quelle formazioni iniziali), si sono fatte, ma non tutte. Si era persino affacciata, con una certa insistenza, l’ipotesi che diventasse obbligatoria per legge la stipula di un’assicurazione privata anti-alluvione. Fu fortemente osteggiata: “In questo modo, lo Stato rinuncerebbe a realizzare le opere di sicurezza! Il rischio e i danni ricadrebbero solo sui cittadini”.
E, intanto, sono passati vent’anni. Ma, a ogni autunno e primavera, anche se il tempo è galantuomo e attenua l’urto dei brutti ricordi, la paura riaffiora impetuosa ogni volta che piove. Povera pioggia, tanto benefica quanto incriminata e spaventevole, non per colpa sua, ma per l’arroganza di chi, irrispettoso e indifferente, ha sfidato troppo a lungo la natura e ha temerariamente martoriato la terra!
Cara Silvana il tuo testo è terribilmente commovente. Hai saputo raccontare la verità con la poesia delle tue parole, trasformandola in una storia che fa sentire la profondità del mito.
Bel racconto Silvana! Bello e triste ricordando quei momenti.. Speriamo e lottiamo affinché non si ripetano più questi fatti. Il C. AL.CA. è ancora presente! Un abbraccio. Massimo De Bernardi
È sempre bello leggere gli articoli di una grande cronista. Leggi la notizia ed il sentimento con il quale scrive
Bellissimo lavoro…istruttivo ed educativo Grazie Boc
Non ho parole per descrivere la sensazione di profonda tristezza nel ricordare – grazie alla tua testimonianza – quei terribili fatti. Sei sempre stata la voce cruda ma veritiera nel raccontare le cose belle e le tragedie della nostra città. Grazie.
Grazie Silvana per il il tuo puntuale preciso e vero racconto dell’alluvione . Auguriamoci che non succeda più e che finalmente su completino tutto i lavori allora preventivati ma soprattutto si correggano i “colmi “ di piena . Grazie come sempre da un grande tuo estimatore e come persona e come giornalista!Paolo ex Sindaco alluvioni 1994-2000.
Un racconto toccante…e vero…..un modo emozionante di scrivere una cronaca. Una cronista non cacciata ma abbracciata e sempre accolta perché umana.
Grande Silvana hai saputo raccontare gli stati d’animo e le forti emozioni di quei giorni di chi ha sopportato e di chi ha supportato per prevedibile seconda questa alluvione. Ancora oggi a distanza di anni tra ottobre e novembre quando piove mi viene sempre un po’ d’ansia. Un abbraccio dal tuo fratellone Terry.
Cara Silvana, da giornalista “col cuore” quale sei, ci hai riportati come in un film a quei terribili momenti, alla disperazione di tante povere famiglie che hanno perso tutto, ai sacrifici, ai sogni di tanti, miseramente “annegati” e portati via dall’acqua. Auguriamoci che l’uomo sappia trarre insegnamenti validi da ciò che è accaduto, perché la natura non sempre è “matrigna”.
Ogni tuo articolo è un romanzo breve, ispirato a storie reali, popolato di persone che sembra di vedere e sentire mentre leggiamo. La tua non è mai solo la penna di una cronista frettolosa. Ma quella di una professionista che cerca di mettere per iscritto i Sentimenti: quelli degli altri ma anche, con grande discrezione generosità e umiltà, i propri. Grazie sempre per tutto
Brava Silvana, come altre volte hai commentato una brutta pagina di cronica della nostra zona che però ci saremmo potuti evitare. Ancora brava!
Grazie Silvana per tenere viva la memoria ! Sta piovendo e anche bene.. dovremo essere al sicuro ma ancora molto deve essere fatto! Ma non voglio più portare “ gramo”. Dove sono le promesse “ vasche di laminazione” e mi fermo …