Phileo: amo. Antropos: uomo. La filantropia è «la disposizione d’animo e lo sforzo operoso a promuovere la felicità e il benessere degli altri» (Vocabolario Treccani). Signor Schmidheiny, lei che si dice molto sensibile a questa predisposizione filantropica, non pensa sia arrivato il momento di promuovere il benessere delle migliaia di persone che si ammalano di mesotelioma e che anelano a guarire? Lo faccia, signor Schmidheiny: si metta a capo della ricerca, la guidi e la finanzi. E’ la miglior dimostrazione filantropica possibile.
REPORTAGE UDIENZA 8 GENNAIO 2025
Non finirà il 17 febbraio il processo Eternit Bis di secondo grado che si celebra davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino nei confronti dell’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, accusato dell’omicidio volontario (con dolo eventuale) di 392 casalesi, morti a causa dell’amianto, impiegato nello stabilimento Eternit di Casale Monferrato. L’imputato ne fu a capo dal 1976 al 1986.
Sono state aggiunte altre due udienze.
Ecco il nuovo calendario: lunedì 10 febbraio, si completano le repliche di procura (pg Sara Panelli, pm Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare) e parti civili (iniziate mercoledì 8 gennaio); lunedì 17 febbraio, iniziano le repliche dei difensori (Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva) che concludono mercoledì 5 marzo. E’ prematuro dire se, nella stessa data, la Corte, presieduta da Cristina Domaneschi, (affiancata da Eleonora Gallino e dai giudici popolari) entrerà in camera di consiglio per decidere già il verdetto.
In primo grado, la Corte d’Assise di Novara, a giugno 2023, aveva riqualificato il reato da omicidio doloso a colposo e condannato Schmidheiny a 12 anni di reclusione per 147 vittime, assolto per 46 vittime e dichiarata la prescrizione per 199.
SOMMARIO
Le repliche di procura e parti civili (prima parte; concludono il 10 febbraio 2025)
Uso controllato
– «L’imputato era convinto di poter fare un uso controllato dell’amianto»: è credibile questa affermazione della difesa? Procura e parti civili dicono no.
– Che cosa sapeva Schmidheiny sull’amianto e la sua nocività
– Che «uso controllato» ha fatto realmente
– «Questi morti non sono colpa del Governo italiano»
Dolo o «svista» colposa?
– Come provare il dolo: nelle azioni durante e dopo
– La disinformazione e il nascondimento progettato e attuato dal comunicatore Guido Bellodi
– Per l’omicidio doloso non è necessario conoscere l’identità delle vittime
Il lascito di Schmidheiny al Comune di Casale
– Lo stabilimento abbandonato
Nesso causale
– Attenzione alle tesi di certi consulenti
– Epidemiologia non è una scienza puramente accademica (applicazione dal gruppo al singolo individuo)
Che cosa avrebbe dovuto fare?
– «Doveva smettere di usare l’amianto»
Filone Cavagnolo: la recente sentenza d’Appello
– Le motivazioni in 80 pagine
Morto il belga Eric Jonckheere
– Stroncato dal mesotelioma, il 13 dicembre, il presidente dell’Associazione belga delle vittime dell’amianto (Abeva). Aveva 66 anni. Il cordoglio dell’Afeva di Casale.
Sopralluogo nella fabbrica abbandonata
– Dall’archivio storico de «La Stampa», l’articolo con il resoconto di una visita che effettuai nella fabbrica a gennaio 1996
PUNTO PER PUNTO
USO CONTROLLATO
Stephan Schmidheiny, che nel 1976 ha assunto la gestione dell’Eternit, «non si era avveduto che non era possibile produrre usando l’amianto senza causare quegli effetti (le morti, ndr). E’ vero, ha sbagliato, ma con la convinzione che non si sarebbe arrivati a una tragedia di queste proporzioni! Un errore, sì, ora lo sappiamo, ma frutto di una sottovalutazione, basata sulle conoscenze dell’epoca come peraltro è avvenuto in tutto il mondo!». Con queste parole si era conclusa, l’11 dicembre scorso, l’arringa dell’avvocato Guido Carlo Alleva, codifensore dell’imputato insieme al collega Astolfo Di Amato.
E’ da lì che ha ripreso il bandolo la sostituta della Procura Generale Sara Panelli per il primo intervento di replica. Recupera le stesse parole e osserva: «Abbiamo sentito dire alla difesa che l’imputato ha fatto una scelta industriale che solo più tardi si è rivelata sbagliata (cioè di usare l’amianto in modo controllato, ndr), ma non pensava di arrivare a un disastro di simili proporzioni».
Qualche attimo di sosta, poi con lo sguardo puntato ai giudici della Corte: «Forse pensava a un disastro più piccolo? O a un morto soltanto?».
Sapeva o non sapeva (e quanto sapeva), Schmidheiny, della pericolosità dell’amianto nel 1976, quando assunse la gestione dell’Eternit che durò dieci anni fino a giugno 1986?
«Schmidheiny sapeva tutto quello che si poteva sapere in tema di mesotelioma e cancerogenicità». Lo sapeva davvero? Panelli è tranciante: «Lo ha detto lui stesso a Neuss: “Io so tutto”».
Nel 1976, al Convegno di Neuss, cui egli stesso ha convocato i 35 massimi dirigenti dei suoi stabilimenti Eternit nel mondo, «dà conto di sapere quali malattie provoca l’amianto, a partire dal mesotelioma; conosce gli studi di Wagner; gli atti della Conferenza di New York del 1964 con l’appello di Selikoff e dove fu presentato anche lo studio dello scienziato Enrico Vigliani (autorevole medico del lavoro italiano, direttore della Clinica del lavoro di Milano e più volte presidente della Società italiana di Medicina del lavoro, ndr); le risultanze del “Convegno sulla patologia da Asbesto”, del giugno 1968 a Torino, in cui fu ribadita la pericolosità di tutti i tipi di amianto e di alcuni, come la crocidolite, molto più di altri».
La procura è convinta che, essendo l’imputato a capo di un gruppo mondiale, conosceva bene tutti i risultati degli studi scientifici e sapeva anche che cosa accadeva negli altri Paesi, dove, proprio in virtù dell’acquisito sapere dell’epoca, le normative erano più stringenti rispetto all’Italia e la crocidolite era stata bandita; sapeva altresì che erano stati varati regolamenti contenenti la descrizione precisa dei comportamenti da adottare sull’abbattimento della polverosità, sulle condotte di prevenzione nei confronti dei lavoratori, su trasporti, lavaggi, pulizia.
«L’imputato – insiste Panelli – sapeva tutto questo. Lo dice. E conosceva anche la situazione “catastrofale” dello stabilimento di Casale».
Ma mettiamo, ipotizza la pg, di seguire il ragionamento della difesa: Schmidheiny era convinto di poter continuare a produrre facendo un uso controllato dell’amianto.
«E come lo ha attuato questo uso controllato? Ha rispettato le normative dell’epoca?» s’interroga Panelli.
Tanto per cominciare, «informa i lavoratori sui rischi cancerogeni dell’amianto? No, anzi li disinforma». Cita il famoso bollettino sul rischio del fumo allegato a una busta paga nel 1976. E poi richiama le parole di Ezio Bontempelli, responsabile del Sil (Servizio Igiene del Lavoro, istituito internamente dall’Eternit): «Per la mia precedente esperienza di lavoro– disse l’igienista, quando fu interrogato –, ero già a conoscenza di malattie causate dall’asbesto, ma venni mandato a Neuss per essere indottrinato… Seppi solo da Robock (direttore del Centro di Neuss, ndr) che c’era un tipo specifico di tumore polmonare sicuramente correlato alla crocidolite». E all’Eternit si usava la crocidolite? Sì, ma Bontempelli non informò i lavoratori, «non era compito mio». Però, per sua precauzione personale, notando che, davanti a casa propria, c’era un marciapiede contenente amianto, lo fece cementare. Giusto per…
A proposito di disinformazione, Sara Panelli richiama anche le affermazioni di un altro dirigente, il dottor Costa, che, nel 1979, a una conviviale del Rotary di Casale, affermò: «La crocidolite tutto sommato non è cancerogena». Già, tutto sommato, conviene negare.
E, sempre per fare un uso controllato, i regolamenti vigenti impongono di spostare in reparti meno polverosi un lavoratore con patologie già in atto. All’Eternit, veniva fatto? No. Anche qui Panelli legge una precisa testimonianza dell’operaio Paolo Bernardi, padre e fratello morti di mesotelioma. Quando gli diagnosticarono l’asbestosi, si presentò al responsabile del personale e gli chiese, «visto che ho due bambini piccoli e vorrei vederli crescere…», di essere spostato in un reparto meno gravato da polvere. La risposta? «Bernardi? La vede la porta?». Paolo Bernardi morì anche lui di mesotelioma.
«Ma che uso controllato ha fatto, Schmidheiny?». Panelli ripete la domanda come un mantra. «Ha sversato nel Po tonnellate di amianto, non ha adottato precauzioni nei trasporti per la città diffondendo polvere d’amianto, ha fatto macinare scarti a cielo aperto… Queste sono azioni che denoterebbero un semplice errore di prospettiva nella politica industriale? Uno sbaglio imprenditoriale? Una colpa non intenzionale? No – scandisce -: la sua è stata una scelta che ha privilegiato il profitto rispetto alla salute delle persone». A parere della pg «la documentazione, sequestrata a sorpresa dalla procura nello Studio di Comunicazione Bellodi a Milano, è la prova del 9: è, cioè, la spiegazione del comportamento di chi si deve e si vuole difendere, inquina le prove per non essere coinvolto».
Riflette la pg: «Questo è un uso controllato dell’amianto? Un comportamento che, tutt’al più, è stato indotto da colposa trascuratezza? Oppure è una mistificazione, un inganno fatto anche a voi, giudici della Corte, che dovete decidere?».
La strategia richiesta dall’imprenditore svizzero, affidata e attuata dal professionista Guido Bellodi prevedeva di «tenere la questione a cosiddetto livello 1, cioè un basso profilo, al massimo da coinvolgere amministratori e dirigenti locali; al più si poteva rischiare il cosiddetto livello 2 (quello che riguardava la società svizzera in cui non appariva direttamente la famiglia Schmidheiny), ma non si doveva arrivare a sfiorare il livello 3 (la società di famiglia) e mai e poi mai il cosiddetto livello 4 (che equivaleva a Schmidheiny in persona). Questa strategia – dice Panelli -, ha funzionato per anni: infatti, sotto processo ci sono finiti per anni solo amministratori e dirigenti locali!».
Forse perché non è provato che Schmidheiny aveva ruolo di garanzia all’Eternit? Ruolo di gestione che le difese contestano.
La pg richiama la sentenza di Cassazione del filone Cavagnolo del processo Eternit Bis in cui invece questo ruolo è stato riconosciuto e ormai confermato in modo definitivo.
Ma non ha finito, Panelli; punta il dito contro l’affermazione della difesa che ha chiamato in causa le autorità italiane per non aver messo al bando l’amianto fino alla legge del 1992.
«Non si può sentire in quest’aula che la responsabilità è di altri: non si può sentir dire che è stata colpa del Governo! Anzi, quanti profitti ha fatto Schmidheiny tra quando sapeva (e tutto quanto sapeva su ciò che provoca l’amianto) e la legge del ‘92? Non sono brava in matematica, ma è un calcolo con molti zeri…».
DOLO O «SVISTA» COLPOSA?
A proposito del bando italiano dell’amianto nel ’92, interviene anche l’avvocato Maurizio Riverditi, di parte civile. «Facciamo un esempio – esordisce semplificando -: io costruisco un ordigno micidiale mai fabbricato prima. Le sue potenzialità non sono conosciute, quindi non c’è una legge che lo vieti, perché nessuno immagina ancora che si possa realizzare un meccanismo letale come quello, ma io lo so che può produrre una strage, lo so perfettamente perché ne conosco le caratteristiche. Bene, se lo utilizzo e compio una strage, che cos’è: una colpa, una semplice svista? Oppure è dolo?».
Si ritorna sempre al punto di partenza: Schmidheiny sapeva molto sulla nocività mortale dell’amianto, ma l’ha impiegato comunque. Pensando di farne un uso controllato, come dice, ma senza curarsi di ottemperare alle regole basiche dell’epoca?
Di nuovo Riverditi: «Secondo la difesa, tutti sapevano che l’amianto fa male, ma non si sapeva come fare a gestirlo». E dunque? «L’imputato sa che l’amianto è cancerogeno, lo sa perché è presente in tutti i consessi mondiali, e che fa? Continua a usarlo? Ci gioca?». Si rivolge ai giudici, li guarda a uno a uno, e domanda con un sospiro: «Se la pelle fosse stata la nostra, gli avremmo detto di continuare a usarlo perché non c’era una legge che lo vietava?».
L’avvocato incalza: «Schmidheiny sapeva di avere in mano un ordigno micidiale».
Ma la difesa ha posto una domanda pregnante: «Possiamo pensare che l’imputato avesse previsto, cioè voluto, la morte di tutte quelle persone?». La risposta della difesa è «no» e quindi la sua conclusione è che «non può essere dolo».
«E’ una risposta suggestiva – rileva Riverditi -, ma attenzione: l’identità delle vittime non entra nella fattispecie incriminatrice. Nel Codice penale, c’è scritto “chiunque cagiona la morte di un uomo”, indipendentemente dal suo nome e cognome».
Ma come provare il dolo?
Il legale di parte civile ribadisce argomenti già esposti: «Bisogna osservare i segni esteriori dell’agire: che cosa ha fatto in concomitanza e come si è comportato subito dopo».
E, in tal senso, Schmidheiny come si è regolato? «Il suo comportamento “parla” – afferma Riverditi -: si è nascosto e ha depistato con la disinformazione architettata da Bellodi».
Ancora una considerazione sul dolo: «Conta il fattore tempo: si può sbagliare per trascuratezza, imperizia, insipienza, per un breve periodo perché non ci si era accorti di essere nell’errore. Ma l’imputato, dopo essere stato addestrato a svolgere quel ruolo, ha gestito l’amianto per 10 anni, ben sapendo che era cancerogeno!».
Sul dolo incalza l’avvocato Laura D’Amico: «Se si leggono gli atti contenuti nel fascicolo del processo, ci sono tutte le prove del comportamento dell’imputato: fu dolo e non colpa. Altro che svista!».
E ancora: «Come pensa di convincerci la difesa che Schmidheiny aveva scelto di procedere con la produzione dell’amianto facendone un uso controllato, se manco ha dotato lo stabilimento delle precauzioni basiche: la lavanderia, gli spogliatoi diversificati per abiti da lavoro e abiti civili, la mensa? Fino all’82, gli operai mangiavano un panino seduti sui sacchi d’amianto in reparto! Fino all’84 uscivano dal lavoro con le tute impolverate e spargevano fibre per la città».
Eppure le norme c’erano, «leggi italiane di cui andare orgogliosi, già nel 1955 e 1956. Lo gridano quintali di prove: l’imputato non ha rispettato le norme dell’epoca» che «imponevano di catturare le polveri alla fonte… la legge non dice “polveri nocive”, dice semplicemente “polveri”, tutte cioè». Aggiunge D’Amico: «Che importa se ci fosse una legge che vietava o no l’amianto? C’erano leggi che indicavano che cosa si doveva fare per non correre rischi per la salute e per la vita dei lavoratori e dei cittadini».
E Schmidheiny non si è attenuto a quelle norme e non ha rispettato neppure la Costituzione italiana, dice D’Amico, «che certamente sancisce il principio secondo cui l’iniziativa economica privata è libera, ma, all’articolo 41, afferma lapidariamente che questa non può venire esercitata in modo da creare un danno per la salute e per l’ambiente. La Costituzione è chiarissima: sul diritto dell’imprenditore prevale il diritto alla vita delle persone. Piuttosto sostituisci la lavorazione o cambi attività».
Per D’Amico, l’imputato «ha fatto una scelta di campo dolosamente voluta». E, oltre alle «numerose testimonianze», lo dimostrano anche le immagini.
L’avvocata chiede di mostrare un filmato dell’Archivio Storico Luce. «Sì, è vero, è datato 1928 – chiarisce subito, invitando i giudici a osservare le immagini in bianco e nero che scorrono sugli schermi -, guardate, guardate… tutta quella polvere… quali aspiratori? quali mascherine? E le 300, 400 donne che lavoravano a cottimo, quindi più in fretta, con meno riguardi… Ma che c’entrano queste immagini con il periodo di cui risponde Schmidheiny? C’entrano, c’entrano, perché, tra le condizioni del 1928 e quelle del 1976-1986 è cambiato ben poco sulla polverosità, sul contenimento delle polveri alla fonte, sull’utilizzo di eventuali dispositivi individuali, be’, qualche intervento è stato fatto, ma è cambiato ben poco».
Soldi, però, l’imprenditore svizzero ne ha spesi in Italia. «Sì – ammette D’Amico -; nel 1977, decide di utilizzare gli scarti di lavorazione nel ciclo di produzione e spende per realizzare il mulino Hazemag, ma quegli scarti, provenienti da più stabilimenti d’Italia e non solo, vengono prefrantumati a cielo aperto, in un’area tre le case del quartiere, e chi fa muovere la ruspa, 24 ore su 24, non ha neppure una mascherina basica! Nel 1978, poi, fa un altro investimento in Italia: compra la cava di Balangero per avere l’approvvigionamento di amianto a portata di mano».
E dopo? Dopo si sono proprio azzerati anche i motivi a spendere per migliorare le condizioni dello stabilimento Eternit più vetusto d’Italia, visto che «già nel 1983, a Zurigo, aveva deciso che la società sarebbe stata fatta fallire perché non rendeva più tenerla in attività».
IL LASCITO DI SCHMIDHEINY
«Se si osservano le fotografie che documentano in che condizioni fosse lo stabilimento nel 1986, quando venne chiuso, si intuisce che, rispetto alle vecchie immagini che abbiamo visto scorrere nel filmato Luce, non molte devono essere state le migliorie apportate dall’imputato nel suo periodo di garanzia!». L’avvocato Esther Gatti, parte civile per il Comune di Casale (oltre che per altri Comuni del circondario), invita i giudici a recuperare e osservare le fotografie che aveva prodotto, nel processo, la responsabile dell’Ufficio Ambiente casalese e anche a leggere gli esiti della consulenza del dottor Mengozzi (sacchi d’amianto strappati, finestre rotte, polvere ovunque).
«E’ così che l’imputato ha abbandonato lo stabilimento. Sì, abbandonato. Senza mai informare neppure i sindaci della città sulla pericolosità dell’amianto di cui lui aveva precisa contezza. E senza mai rendersi disponibile a provvedere o contribuire alla bonifica. Ecco il lascito di Schmidheiny al Comune di Casale, ci sono le prove documentali e le testimonianze di chi ha visto quei luoghi».
[Più sotto, è riportato un articolo, pubblicato su La Stampa del 23 gennaio 1996, a seguito di un sopralluogo cui presi parte nella fabbrica che il Comune aveva acquisito dal fallimento nel 1995].
NESSO CAUSALE
La premessa fondamentale: nel processo Eternit Bis, la scienza ha un ruolo preponderante per stabilire il nesso causale, cioè il collegamento di causalità tra l’amianto, il mesotelioma e ogni caso di morte indicato nel capo d’imputazione (sono 392 nomi, ovviamente soltanto un «campione» del numero reale di vittime dell’amianto, che, purtroppo, continuano).
L’avvocato Riverditi osserva che «la Corte, però, non può decidere quale sia la scienza migliore». Allora, va individuata la cosiddetta «legge scientifica di copertura maggiormente accolta dalla comunità scientifica».
E’ severa, su questo punto, l’avvocata Laura Mara nei confronti di «singoli consulenti tecnici della difesa che provano a rovesciare lo stato dell’arte in materia di amianto, rispetto a quanto è condiviso e cristallizzato dalle varie Consensus Conference». E spiega in modo chiaro: «Conferenza di consenso vuol dire che i massimi esperti concordano… con-cor-da-no… su determinate tematiche scientifiche».
Richiama, per quanto riguarda il mesotelioma, la Conferenza di Consenso di Orbassano-Torino del 2011, quella di Bari del 2015, e il Quaderno 15 del Ministero della Salute, stilato a seguito della Conferenza Governativa di Venezia, che era stata convocata nel 2012 dall’allora ministro della Salute Renato Balduzzi.
«Sulla base delle maggiori conoscenze scientifiche, nazionali e internazionali – prosegue Mara – viene avallato e confermato che il mesotelioma è una patologia dose-dipendente che segue un percorso multistadiale. Quindi, è confermata la validità della teoria multistadio: cioè contano tutti i periodi di esposizione all’amianto (sebbene abbiano un peso più rilevante le prime esposizioni), ma tutti incidono, compreso il decennio tra il 1976 e il 1986. E’ fuori di ogni logica pensare che quei dieci anni non abbiano inciso sulla patologia!». Ancora: «Non c’è una soglia minima al di sotto della quale si è sicuri di non ammalarsi, ma le probabilità aumentano se crescono intensità e durata dell’esposizione. E nella teoria multistadiale, aggiunge l’avvocata, si inserisce la riduzione del periodo di latenza e l’accelerazione della manifestazione della malattia, cioè si muore prima».
Alza la voce, Laura Mara: «E’ falso che la teoria multistadio è stata abbandonata dalla comunità scientifica, anzi è stata confermata anche dall’Associazione Italiana di Epidemiologia, con una pubblicazione specifica sull’autorevole rivista Epidemiologia&Prevenzione».
Insiste: «E’ falso ciò che hanno cercato di far credere alcuni consulenti della difesa». Cita i riferimenti dei difensori alle tesi dei professori Pira, La Vecchia, Boffetta, consulenti che, stigmatizza Laura Mara, sono stati anche oggetto di presa di distanza e di critica in sentenze processuali (ad esempio, quella dei giudici di Mantova nel procedimento sul Petrolchimico).
L’avvocata ribadisce la validità dell’epidemiologia così come riconosciuta dalla più autorevole comunità scientifica: «Non è una scienza puramente accademica, come si è cercato di farci credere. Il suo contributo è fondamentale: studia la popolazione per applicare gli effetti del gruppo ai singoli, proprio come avviene quando si testano i farmaci. Certo non ci può essere scienza testata sul singolo, lo diceva già Aristotele!» chiosa. In questo processo, spiega la legale di parte civile, «si tratta di applicare la legge di copertura epidemiologica ai singoli casi, esaminando i vari parametri riscontrati in ognuno: intensità e durata dell’esposizione, data della diagnosi, tempo di sopravvivenza, data del decesso e così via. Emergono gruppi omogenei da cui deriva la veridicità della legge scientifica: e, tanto più perché applicata in modo retrospettivo, dimostra come si sia effettivamente inverata».
Aggiunge l’avvocato Riverditi: «Ma in questo processo, per queste morti, c’è una spiegazione causale ragionevole diversa da quella indicata? L’unica teoria accreditata è l’esposizione prolungata all’amianto (diffuso dentro e fuori dallo stabilimento nelle varie modalità che sono state illustrate), che incide sulla evoluzione della patologia».
CHE COSA AVREBBE DOVUTO FARE?
C’è un passaggio, nella recente sentenza pronunciata dalla IV Corte d’Appello di Torino [nel filone Eternit Bis di Cavagnolo, si veda poco sotto sotto l’esito] che, a fronte della documentata situazione di inquinamento da amianto, indica in modo lapidario quale avrebbe dovuto essere il comportamento cui era doverosamente tenuto l’industriale svizzero. Vale premettere che «l’imputato – si legge nel testo delle motivazioni – era un imprenditore di primaria importanza nel settore dell’amianto e aveva dimostrato (…) di essere perfettamente consapevole della pericolosità delle fibre di asbesto (…)». In aggiunta, «egli – la sua famiglia, le società che alla medesima facevano capo – aveva immense risorse economiche che da un lato gli consentivano di valersi dell’apporto conoscitivo di professionisti qualificati, dall’altro gli consentivano di adottare in concreto le misure cautelari idonee».
Pertanto, «pur non sussistendo un obbligo di abbandonare l’uso dell’amianto (non c’era ancora la legge della messa al bando, ndr), a ciò Schmidheiny avrebbe dovuto determinarsi laddove tale abbandono avesse rappresentato l’unica soluzione accettabile (…), nel caso di ritenuta antieconomicità di tutte le misure (semplici e complesse) tecnologicamente disponibili, atte a prevenire il rischio che i lavoratori inalassero in modo significativo, e dunque certamente pericoloso, fibre nocive».
La traduzione, dal giuridichese alla semplicità di linguaggio chiara a tutti, l’ha sintetizzata l’avvocata Esther Gatti mercoledì a Torino: «Su tutto prevale il diritto alla vita. Schmidheiny aveva quelle conoscenze precise sulla grave nocività dell’amianto, è fuor di dubbio. E, allora, c’era un obbligo di natura giuridica: cessare. Sì, bisognava cessare e non, invece, come ha fatto, tentare di cancellare qualsiasi indizio e affermazione che potessero ricondursi alle sue responsabilità».
FILONE CAVAGNOLO
Il filone Eternit Bis relativo alle morti di Cavagnolo (dove operava lo stabilimento Saca, satellite dell’Eternit di Casale) è stato sottoposto a un nuovo giudizio in Corte d’Appello a Torino, in particolare avanti alla IV Sezione, presieduta da Gianni Filippo Reynaud, affiancato da Marco Dovesi e da Desiré Perego. La sentenza nei confronti dell’imputato Stephan Schmidheiny, in quella sede chiamato a rispondere di omicidio colposo, è stata pronunciata il 18 dicembre scorso; le motivazioni, articolate in ottanta pagine, sono state depositate il 2 gennaio scorso.
Un breve riassunto. Nel fascicolo iniziale dell’Eternit Bis, la procura di Torino contestava a Schmidheiny il reato di omicidio doloso per i morti da amianto di Casale, Cavagnolo, Bagnoli di Napoli e Rubiera dell’Emilia. Il gup di Torino aveva riqualificato il reato da omicidio doloso in colposo; di conseguenza, il fascicolo era stato «spacchettato» e scisso in quattro filoni: 1) filone per 2 vittime di Cavagnolo, rimasto a Torino, per omicidio colposo; 2) filone per i morti di Casale, finito a Vercelli, dove quella procura aveva rinnovato la contestazione di omicidio doloso; a conclusione del processo in Assise, la Corte di Novara ha riqualificato in colposo. Ora è in corso l’Assise d’Appello a Torino; 3) filone per i morti di Bagnoli di Napoli; anche qui, quella procura aveva ribadito la contestazione dell’omicidio doloso, poi riqualificato, in sentenza, in colposo; 4) filone per i morti di Rubiera, con archiviazione del fascicolo.
Torniamo a Cavagnolo; due le vittime: un ex lavoratore, morto di asbestosi e una abitante del luogo, morta di mesotelioma. Il Tribunale, in primo grado, il 23 maggio 2019 aveva condannato Schmidheiny a 4 anni; la Corte d’Appello di Torino, il 16 febbraio 2023, aveva assolto l’imputato per la vittima di mesotelioma e l’aveva condannato a 1 anno e 8 mesi di reclusione per la vittima di asbestosi. La Corte di Cassazione, il 9 maggio 2024, aveva annullato quella sentenza di secondo grado con rinvio, ritenendola lacunosa sul punto del nesso causale, cioè il collegamento tra la condotta dell’imputato (accusato della massiccia e incontrollata aerodispersione di fibre d’amianto) e la morte dell’ex lavoratore.
Nella sentenza ora pronunciata dalla Corte d’Appello di Torino, i giudici (diversi da quelli precedenti) ribadiscono il nesso causale, argomentandolo e motivandolo con maggiore rigore e profondità. Viene, tra l’altro, richiamato lo studio presentato dal professor Corrado Magnani (di cui si sottolineano «importanza e rilevanza scientifica») da cui emerge che «nella popolazione già esposta ad amianto, l’esposizione cumulativa determina un marcato aumento di mortalità».
MORTO ERIC JONCKHEERE
Eric Jonckheere, presidente dell’Associazione belga delle vittime dell’amianto (Abeva), è morto venerdì sera, 13 dicembre, di mesotelioma. Aveva 66 anni.
La sua malattia è stata causata dall’amianto a cui era stato esposto da giovane nei pressi delle fabbriche Eternit a Kapelle-op-den-Bos. Altri quattro membri della sua famiglia sono già morti per le stesse cause. E’ l’annuncio diramato dall’Associazione famigliari e vittime amianto di Casale. «L’Abeva – si legge nel comunicato diramato da Afeva Casale – è sprofondata nella tristezza. Per quattro anni, Eric ha resistito alla malattia con ammirevole coraggio e tenacia, assumendo con energia particolarmente positiva i suoi doveri e la nostra lotta a favore delle vittime dell’amianto.
Eric ci ha ripetuto di recente di non essere mosso da un sentimento di vendetta, ma soprattutto dall’urgente bisogno di giustizia, di riconoscimento delle colpe e di un giusto risarcimento per le vittime da parte dei responsabili delle loro malattie.
Questo è anche il senso della sua lotta – la nostra lotta – per impedire che simili tragedie si ripetano in futuro, rimuovendo l’amianto da tutti i luoghi che possono ancora generare pericoli».
SOPRALLUOGO NELLA FABBRICA ABBANDONATA
Quello che segue è un articolo che pubblicai su «La Stampa», il 23 gennaio 1996. Documenta un sopralluogo cui partecipai nello stabilimento Eternit di Casale Monferrato. L’amministrazione comunale l’aveva acquisito nel 1995 con l’intenzione di bonificarlo come avvenne (ovviamente a proprie spese, cioè a spese della comunità). Ora, su quell’area, sorge il Parco Eternot.
IN VISITA CON GLI ESPERTI NELL’ETERNIT DA BONIFICARE
Casale, lo stabilimento è in attesa di essere abbattuto Nella fabbrica della morte con i tecnici nei locali in rovina, tra sacchi di amianto e buche. «Mai visto un simile disastro». «Qui dentro c’è tutta una vita e una morte operaia»
La fabbrica della morte, in un cupo pomeriggio d’inverno, che la pioggia mista a neve rende ancora più gelido e umido, ha un aspetto sinistro. All’immenso capannone che per decenni ha «alimentato» le sue vittime con la micidiale fibra d’amianto, si accede attraverso una porta a vetri. Una comitiva di esperti, su richiesta del consigliere Renato Gagliardini, di Rifondazione Comunista, ha accolto l’invito a compiere un sopralluogo nell’ex stabilimento di via Oggero, che il Comune ha acquistato alcuni mesi fa dal fallimento per cento milioni. Lo scopo è quello di bonificarlo e poi realizzare al suo posto una grande area verde. Non per dimenticare, perché centinaia di «morti bianche» non si possono cancellare da una città, ma, al contrario, per dare un segno tangibile della determinazione ad uscire da quel pezzo tragico di storia durato ottant’anni. Per adesso è un’immensa distesa polverosa, illuminata a malapena dai finestrini quadrati inseriti nel soffitto; da quelli infranti passa la pioggia, che forma grandi pozzanghere di acqua mista a polvere di amianto. La comitiva è formata dall’ingegner Roberto Carrara, consulente di Protezione ambiente di Milano, dal dottor Mario Trincheri, dell’Usi 26 di Melegnano, dal dottor Luigi Mara, esperto di problemi ambientali di Medicina democratica e dal dottor Fulvio Aurora, presidente dei Medicina democratica, accompagnati da esponenti di Rifondazione e dal geometra Giovanni Mombello, del Comune. Muniti di mascherine, sovrascarpe e torce elettriche si parte per attraversare il piano terreno dello stabilimento che ha causato uno dei maggiori disastri ambientali al mondo collegati ad un luogo di lavoro. Una zona è più illuminata delle altre perché, alcuni giorni fa, un pezzo di tetto – fatto naturalmente in onduline di Eternit – è crollato, provocando un grande squarcio. Il Comune ha provveduto a isolare l’area con una sorta di involucro di cellophane. Si prosegue adagio, stando attenti a non finire nelle buche che si sono formate nel pavimento. Nei punti dove un tempo erano collocati i macchinari di lavorazione, rimangono ora delle fosse, coperte da teli di nylon pesante. In un angolo sono ammucchiati grandi sacchi semiaperti che contengono polvere d’amianto. Poco distante, un altro mucchio di rottami di parti elettriche, e, ancora dopo, cataste di enormi cilindri che servivano da stampo per realizzare i tubi di eternit. Qualcuno solleva lo sguardo verso l’alto: improvvisamente parte una ventola che funziona meccanicamente. «Ferma, lì non si può proseguire»: il funzionario del Comune blocca la comitiva e precisa: «C’è un ammasso di polvere d’amianto. Meglio tornare indietro». I tecnici convocati da Rifondazione, che ha incontrato ampia disponibilità da parte del Comune per poter accedere allo stabilimento, sono sconcertati. Hanno una vasta esperienza di inquinamento ambientale e di bonifiche, ma, afferma Mario Trincheri, «uno spettacolo così, di queste proporzioni, non l’ho mai visto». Aggiunge Mara scuotendo il capo: «Qui dentro c’è tutta una vita e una morte operaia. Povera gente. Ma quanti erano?». Risponde uno degli ex operai dell’Eternit: «Siamo arrivati fino a millequattrocento tra uomini e donne».
Silvana Mossano
Immagini dalla fabbrica delle morti «bianche». Da sinistra l’interno dello stabilimento, dove sono depositati ancora sacchi di micidiale polvere d’amianto, i tetti, naturalmente in eternit e, a destra, l’ingresso di via Oggero
LaStampa 23/01/1996 – numero 22 pagina 40
NOTA: Aggiungo che di quella delegazione faceva parte anche l’allora presidente dell’Afeva Romana Blasotti Pavesi, la quale volle vedere da vicino i luoghi precisi dove aveva lavorato suo marito, Mario Pavesi, morto di mesotelioma nel 1983. Ne rimase turbata, ammutolita. Poi, «la» Romana, a causa della stessa malattia, ha perso anche la sorella Libera, due nipoti e la figlia cinquantenne Maria Rosa.
Resoconto dell’udienza finora più pregnante del processo di Appello. A mio parere sia la Procura sia la Difesa hanno saputo esprimere con convinzione e passione gli aspetti fondamentali che mettono in evidenza la responsabilità indiscutibile di Schmidheiny nella vicenda Eternit. Mi auguro soltanto che tutto non venga bloccato da qualche cavillo formale. Dal punto di vista sostanziale, questo è ciò che è successo. Non c’è niente da aggiungere. Grazie, Silvana
Encomiabile la tua perseveranza e puntualità nell’aggiornamento del processo che non ha mai fine … Grazie Silvana
Mi è piaciuto molto il”pezzo”,dalla premessa nella quale mi identifico da sempre,all esposizione lucida e sintetica di una giornata,nella quale tutti noi ci siamo identificati nel dire di PM e Legali.Poi……Romana ed Eric x i nostri cuori.