Signor Stephan Schmidheiny, il suo avvocato ha affermato, con molta onestà, che la comunità casalese, esemplare e moralmente integra, ha subito e sta subendo una tragedia. Non pensa, signor Schmidheiny, che sia giunto il momento, indifferibile, di assumere direttamente e personalmente, da imprenditore filantropo, il coordinamento e il finanziamento di una ricerca seria ed efficace che produca al più presto una cura per guarire tutti i malati di mesotelioma del mondo?
REPORTAGE udienza 4 dicembre 2024
PARLA LA DIFESA
RIEPILOGO
* Tragedia con migliaia di morti
* Le forzature non producono giustizia
* La consapevolezza
* Investimenti e interventi
* Responsabilità del vertice e manutenzione carente
* La città «imbottita» di amianto: polverino e battuti
* Ma perché l’Eternit fallisce?
* Nascondimento del massimo livello
* Unico processo penale al mondo
PUNTO PER PUNTO
TRAGEDIA CON MIGLIAIA DI MORTI
«Quella che ha colpito la città di Casale è una tragedia per le migliaia di morti determinate da una malattia terribile. Terribile, sì, si muore soffocati. Questa tragedia ha colpito una comunità esemplare. E’ una ventina d’anni (a partire dall’inchiesta del Maxiprocesso Eternit 1, ndr) che li incontriamo e l’unica esternazione nei nostri confronti è la manifestazione di rispetto per il ruolo che svolgiamo. Una comunità il cui denominatore comune è quello della integrità morale. Quando, in quest’aula, è stata ricordata la signora Romana, be’, sono orgoglioso di averla conosciuta».
Ha iniziato così l’avvocato Astolfo Di Amato, difensore, insieme al collega Guido Carlo Alleva, dell’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, chiamato a rispondere, davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino, dell’omicidio volontario (con dolo eventuale) di 392 casalesi morti di mesotelioma, il mal d’amianto.
Dopo le requisitorie dei pubblici ministeri (Sara Panelli, Gianfranco Colace, Mariagiovanna Compare) e gli interventi dei legali di parte civile (tra gli altri, Laura D’Amico, Maurizio Riverditi, Giacomo Mattalia, Esther Gatti, Laura Mara, Alberto Vella, Alessandro Mattioda), ora tocca alle difese.
Avevano iniziato già il 27 novembre, con alcune considerazioni preliminari. Nell’udienza di mercoledì 4 dicembre, sono passati a esaminare le questioni di merito. La prima parte è stata svolta dall’avvocato Di Amato; mercoledì 11 dicembre, completerà l’avvocato Alleva.
Dunque, una tragedia. Non c’è su questo punto – e non potrebbe esserci – contrapposizione di vedute tra le parti: lo stillicidio terribile e doloroso di morti di mesotelioma è cominciato molti anni fa e continua.
E anche la considerazione successiva è ampiamente condivisa: «Una tragedia che colpisce una comunità dall’integrità esemplare necessita di giustizia» ha affermato Di Amato.
LE FORZATURE NON PRODUCONO GIUSTIZIA
Ma, «nel dare una risposta di giustizia, bisogna fare attenzione alle forzature; altrimenti che giustizia è?». Il senso di questa domanda per il legale si traduce così: volere a tutti i costi la condanna dell’imputato Stephan Schmidheiny è una vera risposta di giustizia? Domanda retorica che, per la difesa, racchiude già la risposta: no. E perché? La spiegazione è sintetizzata nel passaggio finale dell’arringa dell’avvocato Di Amato: «Schmidheiny non è un mascalzone. Schmidheiny è “figlio” di quel tempo (40-50 anni fa: fu a capo dell’Eternit tra il 1976 e il 1986, ndr). Attenendosi al sapere e al supporto tecnico dell’epoca, era fiducioso di poter utilizzare l’amianto in modo controllato. Poi, sì, è stato smentito, perché le morti sono continuate, ma le conoscenze di allora non consentivano ancora di sapere che non c’è soglia minima che elimini il rischio di ammalarsi di mesotelioma. Si è saputo soltanto negli anni Novanta». Ha insistito il difensore: «La condotta dell’imputato non ha violato le norme». Tanto più, ha rimarcato, che «il territorio casalese era letteralmente “imbottito” di amianto, ma non per colpa di Schmidheiny; era accaduto prima del suo arrivo nel 1976».
E da questo punto in poi le argomentazioni divergono rispetto a quelle della procura e delle parti civili, ma anche della sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Novara, che ha condannato l’imputato a 12 anni di reclusione per l’omicidio colposo (e non doloso come sostengono i pm) di 147 vittime, ha prescritto per 199 casi e ha assolto per 46.
LA CONSAPEVOLEZZA
La difesa non nega che l’imputato conoscesse i rischi dell’amianto, ma non nella gravità con cui si è imparato a conoscerli successivamente al 1986 e, ancor più, negli anni Novanta.
Però, ci sono i verbali del Convengo di Neuss, da cui emerge la precisa consapevolezza dell’imputato di come e quanto l’amianto fosse nocivo. E ci sono le dichiarazioni virgolettate di Schmidheiny. «To be or not to be?» fu la domanda amletica che si pose, a dire «bisogna continuare a usarlo o smettere del tutto», sapendo che causa il mesotelioma? Scelse «to be», cioè continuare. E, ancora, è sempre Schmidheiny a parlare: «Dobbiamo ottenere il miglior risultato con il minimo sforzo». Secondo l’accusa è una affermazione indicativa della volontà di sfruttare l’attività il più possibile spendendo il meno possibile in sicurezza. Per la difesa, invece, la posizione dell’imputato all’epoca era questa: «E’ importante che subentri un cambiamento di mentalità di tutti. La stella polare dell’attività non può essere solo la produttività, ma anche il rispetto della salute e dell’ambiente». Era dunque questa l’intenzione di Schmidheiny al convegno di Neuss, e, soprattutto, pochi mesi dopo, quando diramò il manuale Auls cui attenersi scrupolosamente nel dare informazioni sull’amianto (ai lavoratori, ai loro famigliari, a sindacalisti, giornalisti, amministratori pubblici)? Come disse l’avvocato Maurizio Riverditi, di parte civile, «non si può entrare nella testa dell’imputato; per capire che cosa aveva in mente bisogna analizzare i fatti». Per il difensore Di Amato questa analisi dei fatti è riconducibile all’intenzione di «rispettare le regole, se qualcuno si lamenta fatelo parlare con i lavoratori e, se non è comunque convinto, date le risposte indicate in Auls». Anche perché, osserva Di Amato, «per dare un’informazione corretta non è obbligatorio choccare!». Vocabolo che era emerso proprio nei verbali di Neuss, documentando qual era stata la reazione dei 35 massimi dirigenti convocati dall’imprenditore svizzero quando aveva illustrato nocività e rischi mortali dell’amianto: erano rimasti «choccati».
Dismettere l’amianto era comunque difficile. Il difensore ha sottolineato che, nel 1982, non si era ancora pronti a sostituirlo ad esempio nella fabbricazione dei tubi per le condotte perché non c’erano altri materiali che «potessero reggere la pressione». Inoltre, Di Amato ha richiamato la posizione di Irving Selikoff, che alla Conferenza internazionale di New York nel 1964 aveva lanciato l’allarme sulla pericolosità dell’amianto, causa del mesotelioma non soltanto per chi lo lavorava. Ma, ha evidenziato il legale, «in un’intervista rilasciata al New York Times nel 1976, lo scienziato affermava che “il divieto dell’amianto non è necessario”», cioè, riassume il difensore, «se ne poteva fare un uso controllato».
Questa era, dunque, secondo la difesa, la reale consapevolezza dell’imputato tra il 1976 e il 1986. E, anzi, poiché negli stabilimenti italiani l’approccio agli adempimenti tecnici, certo, di sicurezza era carente rispetto a quello che già avveniva negli stabilimenti svizzeri, Schmidheiny mise a disposizione il laboratorio di Neuss diretto da Robock per addestrare il personale»: Robock che, per la procura, è uno scienziato al soldo dell’industria, mentre Di Amato ne rimarca «la serietà nello studio delle polveri e l’autorevolezza dei suoi lavori scientifici ancora oggi consultati e considerati punto di riferimento». All’attività di formazione del personale, si affiancò la creazione di organismi interni di controllo, come il Sil e il Copae. Anche qui due visioni diverse: per l’accusa i rilievi e i dati del Sil erano «inadeguati e inaffidabili», per la difesa, invece, erano fondati: «Certo – ha commentato Di Amato -, si potevano fare in modo diverso, ma con il sapere di vent’anni dopo!».
INVESTIMENTI E INTERVENTI
Lo ha detto chiaramente l’avvocato Di Amato: «Servono gli interventi tecnici, ma necessitano anche quelli economici».
Qui si inserisce il controverso capitolo degli investimenti e dei flussi di denaro arrivati dalla Svizzera verso la Eternit italiana: tanti, pochi, adeguati, insufficienti? La procura, principalmente sulla base della ricostruzione del consulente Paolo Rivella, che ha esaminato e studiato la documentazione reperita, ritiene che gli investimenti siano stati insufficienti a voler rispettare le norme dell’epoca, e, comunque, ha lamentato dati diversi, confusi e contrastanti forniti dalla difesa, tra un processo e l’altro, sui reali importi. Il difensore attribuisce la causa dell’imprecisione delle cifre al fatto «che la documentazione di questo procedimento penale sarà ampia, come dice il pubblico ministero, ma è monca, perché una grossa parte è andata distrutta nell’alluvione avvenuta a Genova (dove c’era la sede legale di Eternit, e poi l’amministrazione controllata, da metà degli anni Ottanta fino al fallimento del 1986, ndr)». Il difensore insiste comunque sulla cifra di 33 miliardi di lire spesi in interventi destinati alla sicurezza, dati contestati invece dalla procura (che evidenzia come credibile unicamente un foglio trovato nella famosa «stanzetta segreta» dello stabilimento casalese, sul quale erano annotati interventi per soli 4 miliardi di lire). Ma a questo punto, Di Amato contesta, a sua volta, l’operato di Rivella. A suo parere potrebbe addirittura aver taciuto dei dati perché l’esito della consulenza fosse funzionale alla tesi del pm.
In realtà, l’attacco è più esteso ai consulenti della procura. Il difensore prende spunto da una affermazione contenuta nella sentenza della Corte d’Assise di Novara secondo la quale i consulenti del pubblico ministero sarebbero più affidabili di quelli della difesa, in quanto questi ultimi vengono pagati per portare prove a favore dell’imputato. «Non è accettabile questa affermazione!» ha detto Di Amato.
Ha contestato sia Rivella sia Irma Dianzani. L’attacco a Rivella riguarda specialmente il capitolo degli investimenti; quello a Dianzani si riferisce a una risposta reputata imprecisa data dalla consulente a una domanda dei difensori; per inciso, la domanda di argomento epidemiologico è stata rivolta a una scienziata che è invece genetista.
Il difensore ha insistito comunque sul fatto che interventi ne sono stati fatti e, a sostegno della sua argomentazione, ha letto stralci di una relazione dell’Ispettorato del Lavoro, datata 1987, in cui è scritto che «all’inizio del 1974, anche a seguito di una variazione societaria (gli svizzeri acquisiscono quote dai belgi e assumono la maggioranza, ndr), l’azienda ha avviato un vasto piano di ammodernamento», per esempio trasformando il processo produttivo «da secco a umido». Ha letto anche un passaggio della relazione del commissario giudiziale Carlo Castelli, scritta nell’ambito della procedura di amministrazione controllata cui la Eternit era stata ammessa dal 1983: «Sono stati fatti investimenti al limite massimo tecnicamente ottenibile».
RESPONSABILITA’ DEL VERTICE E MANUTEZIONE CARENTE
«Allora era tutto perfetto?»: l’interrogativo, in forma retorica, lo solleva lo stesso Di Amato. No; un grosso impatto, nella diffusione delle polveri, viene attribuito dalla difesa alla manutenzione carente: «Se, ad esempio, un filtro intasato non veniva sostituito…». Di questo tipo di inadempienza, però, dice il legale, non può certo rispondere Schmidheiny che era al vertice «del grande gruppo svizzero di cui facevano parte mille società (una era la Swatch degli orologi); tra queste, c’era il gruppo del cemento amianto che contava 60 stabilimenti nel mondo, nel cui contesto, a sua volta, c’era il gruppo italiano con 5 stabilimenti. E poteva sapere se il filtro si intasava?».
Al vertice di un gruppo di queste dimensioni si deve chiedere conto, caso mai, delle scelte strategiche, degli investimenti, della gestione, delle metodologie produttive, degli interventi di prevenzione e sicurezza.
LA CITTA’ «IMBOTTITA» DI AMIANTO: POLVERINO E BATTUTI
Tra le indicazioni strategiche arrivate dall’alto, la difesa cita il divieto, imposto da Schmidheiny nel 1976 quando assunse la guida del settore amianto (per inciso, l’avvocato di parte civile Esther Gatti affermò che dell’ordine di questo divieto non si è trovata traccia), di distribuire all’esterno scarti di lavorazione (polverino e rottami), che in precedenza, ha rimarcato Di Amato, erano invece ceduti per coibentare i sottotetti, per fare i battuti di cortili, campi da gioco, strade. E questo che cosa ha determinato? «Che la città era “imbottita” di amianto» a causa dei cosiddetti «usi impropri».
Forse, essendo a conoscenza di questa pericolosa pratica diffusa, Stephan Schmidheiny avrebbe dovuto informare le autorità pubbliche del grave rischio che i cittadini correvano. Invece no.
Proprio sugli «usi impropri», il professor Andrea D’Anna, consulente della difesa, aveva fatto una relazione, partendo dall’esame dei dati dell’Arpa Piemonte dai quali emergeva la situazione riassunta dal legale dell’imputato: «815 mila metri quadrati di coperture usurate, 4635 metri quadri di pannelli (feltri) di amianto, 11mila metri quadri di superficie coperta da polverino nei sottotetti, 28 mila metri quadrati di battuto con la presenza di polverino. Dati che un altro consulente della difesa, Canzio Romano, ha incrociato anche con le residenze delle vittime». La Corte d’Assise di Novara, però, non ha tenuto in grande considerazione la consulenza del professor D’Anna, evidenziando che lo studio era stato condotto senza mai andare sul posto.
Effettivamente, ricordiamo la descrizione della città di Casale fatta dal professore, descrizione, diremo così, piuttosto sorprendente per i casalesi: una distesa di case basse circondate da campi? Una rappresentazione assai poco realistica della antica città, capitale storica del Monferrato!
Di Amato, invece, ha rimarcato il rilievo della consulenza D’Anna, per sottolineare la presenza massiccia di amianto a causa degli usi impropri nel territorio («concessi in epoca precedente a Schmidheiny»), fonte di pesante diffusione di fibre.
Gli impieghi impropri dell’amianto in città e nei paesi circostanti sono un fatto innegabile; le riserve, nei confronti del professor D’Anna, avevano però riguardato sia il fatto di aver osservato la città (ai fini di una consulenza così importante) soltanto tramite Google Maps, sia l’aver pressoché equiparato, se non addirittura indicato come prevalente l’inquinamento da usi impropri rispetto a quello determinato dallo stabilimento e dai luoghi di pertinenza dell’Eternit.
Tra gli altri, la famosa area ex Piemontese, tra le case del Ronzone, dove avveniva la frantumazione a cielo aperto degli scarti, pratica per la quale, come ha con precisione ricordato Di Amato, lo stesso Robock, dopo una visita a Casale tra il 27 e il 28 marzo 1980, aveva espresso contrarietà: «Non dovrebbe essere consentito frantumare i cascami in spazio aperto senza uso di acqua»: questo scrisse nel suo report.
La pratica, che si svolgeva 24 ore su 24, con una ruspa che passava avanti e indietro sui rottami, era iniziata proprio dopo il 1976, nell’epoca di gestione di Schmidheiny, quando era stato costruito il Mulino Hazemag, per utilizzare una parte degli scarti nel processo di lavorazione. A chi spettò e chi prese la decisione strategica di realizzare il Mulino Hazemag e di utilizzare i cascami fatti arrivare, tra l’altro, non solo da Casale, ma anche da altri stabilimenti?
E questa sorgente di inquinamento – frantumazione H24, senza protezioni – sarebbe stata davvero meno importante di un sottotetto con il polverino, come ebbe a ipotizzare il professor D’Anna?
MA PERCHE’ L’ETERNIT FALLISCE?
Il difensore ha, poi, dato voce a una domanda che la sua puntuale e chiara illustrazione dello svolgimento dei fatti e descrizione dei luoghi, fa sorgere spontanea: «Come ha fatto, allora, un’impresa gestita bene, con flussi di denaro continui e con supporti tecnologici adeguati all’epoca, continuare a perdere fino a fallire?».
La risposta è stata attinta dalla relazione del già citato dottor Castelli, che scrisse: «L’impresa Eternit ha fatto investimenti, ma i concorrenti più piccoli non hanno fatto altrettanto per risanare l’ambiente di lavoro. Il Governo italiano – ammonì Castelli – dovrebbe adottare al più presto la direttiva dell’Unione Europea affinché tutti i produttori siano tenuti a rispettare norme e limiti». Qui, ha spiegato Di Amato, sta la spiegazione dell’epilogo fallimentare: «L’Eternit si è caricata di costi maggiori e, quindi, è risultata meno competitiva sul mercato», fino a non poter più reggere.
Il fallimento è del giugno 1986, ma la società aveva già deciso il percorso di chiusura nel 1983 a Zurigo.
NASCONDIMENTO
In quell’anno, fu ingaggiato Guido Bellodi, accreditato professionista milanese della comunicazione. Gli venne affidato il compito «di gestire uno scandalo finanziario», appunto in vista del preordinato fallimento di Eternit. Lo ha spiegato, in modo esplicito, l’avvocato Di Amato: «Gli Schmidheiny sono una famiglia di spicco in Europa, con un elevato potere economico. Soprattutto in quell’epoca, a far fallire una propria società ci si perdeva la faccia». Ecco che cosa doveva fare Bellodi: gestire l’immagine collegata al fallimento di una società dell’importante gruppo Schmidheiny. Ma in questo, secondo la difesa, non c’è nessun tentativo di nascondimento. A tal proposito, il legale ha portato un esempio: la lettera che il sindaco dell’epoca Riccardo Coppo aveva scritto nel 1985; indirizzata a chi? «A Stephan Schmidheiny, a Niederurnen, e, per conoscenza, al prefetto e ai sindacati. Quindi, si sapeva chi era Schmidheiny, qual era il suo ruolo e non era affatto nascosto!».
Il richiamo a quella lettera, tra l’altro, evoca la precisa testimonianza di Coppo quando fu sentito nel maxiprocesso Eternit 1. Fu lui stesso a produrne copia, il cui originale è custodito nell’archivio del Comune di Casale. Perché l’aveva scritta? Spiegò così: «Avevamo ricevuto dalla società molte e reiterate promesse che si sarebbe costruito uno stabilimento nuovo più sicuro (il pm Colace ha parlato di “Chimera Casale 3”, ndr)». Ma dalle parole non si passava mai ai fatti. E intanto i malati e i morti crescevano. Da qui la lettera dai toni decisi che, come ha precisato il difensore, è del 1985. Intanto, a Zurigo, già due anni prima, era stata presa la decisione di far fallire l’azienda. Che valore avevano, allora, le reiterate promesse (quanto meno quelle tra il 1983 e il 1985) di costruire uno stabilimento nuovo che avrebbe consentito di superare i problemi ambientali della vecchia fabbrica realizzata nel 1906? Una risposta l’aveva data Coppo: «Avevamo capito che ci prendevano in giro». E, come ebbe a dire un altro teste di spicco, Bruno Pesce, «si è spremuto il limone finché si è potuto».
UNICO PROCESSO PENALE AL MONDO
«I problemi derivanti dall’amianto – ha evidenziato infine il difensore – non riguardano soltanto l’Italia, è una tragedia globale. Però – ha stigmatizzato Di Amato – l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui si celebrano processi penali per l’amianto, anche oggi. C’è stato un tentativo in Francia, qualche anno fa, ma il fascicolo è stato archiviato».
Effettivamente, nelle altre parti del mondo, si procede direttamente con cause civili finalizzate alla richiesta di risarcimenti economici a favore di chi ha subito malattie (o decessi) di origine professionale e ambientale.
E’ stato citato proprio in questo processo d’appello il caso della Johns Manville americana che, negli anni Ottanta, era stata travolta e sommersa da 16.500 cause civili.
Recentissima, poi, è la sentenza in Francia nei confronti della società CMMP, emessa mercoledì 27 novembre: la Corte d’Appello di Parigi ha condannato la Comptoir de minéraux et matières premières, che ha macinato amianto dal 1938 al 1975 nello stabilimento nel centro di Aulnay-sous-Bois (Senna-Saint-Denis), a pagare al Comune quasi 14 milioni di euro. Secondo i giudici questo è il risarcimento dovuto per la bonifica del sito che, nel corso dei decenni, ha causato migliaia di vittime, tra cui i bambini che, per 37 anni, avevano frequentato le scuole nei dintorni.
In Italia, dove l’azione penale è obbligatoria, la procura si è impegnata, invece, a valutare e accertare se sia stata una specifica condotta personale a causare tutti quei morti.
La collettività casalese, esemplare e moralmente integra, ha subito un torto grave, è fuor di dubbio. C’è bisogno di capire se qualcuno, e chi, lo ha commesso.
Per la difesa, dal momento che «non c’è un signor Eternit», non è Stephan Schmidheiny il responsabile.
La procura è convinta del contrario.
Un giudizio di primo grado è già stato espresso. Non resta che attendere il verdetto della Corte d’Assise d’Appello, il prossimo anno.
Grazie!
Tanti troppi morti a cui va il nostro perenne ricordo fiumi di parole moltissimi soldi spesi tantissima ricerca ….. e avanti così ma dove è di casa la Giustizia?!? Auguriamoci arrivi quando no si sa . Ma Giusta Sia ! Grazie Silvana grande “ Portavoce” dei fatti !
Silva leggerti fa sembrare di essere lì … in aula … ad ascoltare, sono sicura che ho provato le stesse emozioni che hai provato tu che ascoltavi. Grazie per questa cronaca lucida e attenta, grazie per questo resoconto così prezioso.