Signor Schmidheiny, non pensa sia giunto il momento di impegnarsi personalmente, direttamente e finanziariamente, nella ricerca di una cura per curare tutti i malati di mesotelioma? Per lei sarebbe una seria scelta filantropica e una formidabile svolta di immagine. Per migliaia di persone nel mondo sarebbe la guarigione e la vita!
REPORTAGE UDIENZA ETERNIT BIS 27 NOVEMBRE 2024
Si è svolta mercoledì 27 novembre, nell’aula «Giuseppe Casalbore» del Palazzo di Giustizia di Torino, la terza udienza del processo Eternit Bis davanti alla Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Cristina Domaneschi, affiancata da Eleonora Gallino e dai giudici popolari. Nella mattinata, hanno parlato gli avvocati che rappresentano le parti civili. Nel pomeriggio, hanno iniziato la loro esposizione i difensori dell’imputato Stephan Schmidheiny, condannato dalla Corte d’Assise di primo grado a 12 anni di reclusione per omicidio colposo aggravato (la Corte di Novara ha anche dichiarato la prescrizione per 199 casi e l’ha assolto per 46 casi). La sentenza è stata impugnata dalla Procura (che ha anche chiesto la rinnovazione del dibattimento, la Corte d’Assise non si è ancora pronunciata) e dalla Difesa.
La prossima udienza è fissata per mercoledì 4 dicembre: parleranno i difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva che proseguiranno mercoledì 11 dicembre. E’ prevista anche un’udienza il 18 dicembre, ma la presidente valuterà se mantenerla o se fissare nuove date a gennaio.
[In apertura, foto di gruppo di premiati e organizzatori alla cerimonia di consegna del Premio Ambientalista dell’Anno – Luisa Minazzi, che si è svolta a Casale]
RIEPILOGO
A – I LEGALI CHE TUTELANO LE PARTI CIVILI (istituzioni, associazioni, sindacati e singoli cittadini) ribadiscono la richiesta di riconoscimento di responsabilità nei confronti dell’imputato in ordine al reato di omicidio doloso (con dolo eventuale) per tutte le 392 vittime indicate nel capo di imputazione e contestano le assoluzioni riferite a 46 casi di morte.
1- Il dolo attraverso l’analisi di 3 elementi di condotta:
x – all’epoca dei fatti (cioè durante il decennio in cui Stephan Schmidheiny è stato a capo di Eternit)
x – dopo i fatti (cioè nel periodo successivo alla chiusura dello stabilimento)
x – storia personale dell’imputato
2 – Ribadita la validità delle diagnosi, che sono il frutto di una disamina condivisa tra più specialisti (anatomopatologi, radiologi, oncologi, chirurghi toracici etc)
3 – La posizione degli enti (Comune, Provincia, Regione, Stato)
B – I DIFENSORI hanno affrontato, anzi ribadito, alcune questioni preliminari.
4 – Traduzione degli atti nella lingua dell’imputato
5 – Accesso ai «vetrini»
6 – Ne bis in idem
7 – La decisione del gup di Torino: ripercussione sugli altri filoni del processo
C – FLASH MOB FUORI DAL TRIBUNALE: «In nome del popolo inquinato»
D – «AMBIENTALISTA DELL’ANNO»: Premio Luisa Minazzi, cerimonia a Casale
APPROFONDIMENTI PUNTO PER PUNTO
A – I LEGALI CHE TUTELANO LE PARTI CIVILI
1 – Il dolo attraverso l’analisi della condotta
«So che non è facile immaginare di emettere una condanna per un reato doloso nei confronti di “colletti bianchi” di portata mondiale, come lo è l’imputato. Anche per questo è un unicum questo processo: è di portata unica per il numero delle vittime, per la mole di materiale che la procura ha pazientemente raccolto (documenti, testimonianze, consulenze) e che ha una “madre”: il Maxiprocesso Eternit 1, diverso per l’imputazione; là si contestava il disastro ambientale doloso, qui l’omicidio di singole persone. 392 persone. 392 morti». Ha esordito così l’avvocata Laura D’Amico, storico legale di parte civile in tutte le vicende processuali riguardanti l’Eternit.
Per appurare la reale consapevolezza dell’imputato, si è analizzata la condotta nel decennio tra il 1976 e il 1986, quando era a capo di Eternit, ma non solo: anche in quello che ha fatto dopo sono stati individuati indicatori della sua personalità che aiutano, secondo i legali, a comprendere il motivo delle decisioni nel «prima». E, non di meno, si è focalizzata la sua storia personale.
Chi è, chi era Stephan Schmidheiny? «Un brillante studente e poi laureato in Giurisprudenza che, pertanto, aveva conoscenza delle norme» ha spiegato D’Amico. «Una persona erudita – ha aggiunto Maurizio Riverditi -, che, in più, è seduto ai tavoli internazionali dove si sa bene perché e in quali Paesi l’amianto è vietato o più contrastato». Ancora: «E’ cresciuto in una famiglia – ha incalzato D’Amico – di milionari… o forse non basta… come si dice? bilionari? Be’, comunque, in una famiglia in cui, già da ragazzo, anche a tavola, sente parlare del mondo industriale gestito a livello internazionale». In Italia, controllava i due terzi del mercato amiantifero.
Con questo bagaglio di conoscenze, anche sperimentate sul campo (è stato direttore vendite delle aziende di famiglia e ha fatto gavetta in stabilimenti Eternit in America Latina, prima del 1976, dal momento che era destinato a lui il comparto dell’amianto, mentre il fratello Thomas avrebbe ereditato il settore del cemento), Stephan Schmidheiny convoca, a giugno 1976, «quel famoso, orribile convegno di Neuss», così lo definisce Riverditi, dove, dopo aver illustrato ai massimi dirigenti del gruppo che cosa si sa scientificamente dell’amianto, della sua nocività e del cancro che sviluppa, «tocca l’eterno dilemma esistenziale, ossia l’interrogativo shakespeariano “To be or not To be”» ha ricordato Riverditi. Esistere o non esistere. Continuare a produrre con l’amianto (impedendo che i rischi siano conosciuti dai lavoratori e dalle popolazioni perché questo porterebbe alla chiusura delle fabbriche) o cessare l’attività che impiega la fibra.
Schmidheiny non cessa. E qui si inserisce l’interrogativo sollevato dal legale di parte civile: «Possiamo chiedere ai giudici di valutare come dolosa la morte di tutte quelle persone?». Riverditi ha spiegato: «Siamo abituati a ragionare sul caso più frequente di omicidio: prendo un’arma, sparo a una persona e la uccido. Ma ci sono altre modalità per configurare l’omicidio doloso (cioè volontario, ndr): se ho il dubbio che il mio comportamento, quale che sia, può cagionare la morte (o più morti) e comunque vado avanti, anche in questo caso c’è il dolo. Non importa – ha precisato – che si siano viste in faccia, a una a una, quelle persone (qui 392): con il mio comportamento, voluto, ho cagionato la morte di esseri umani, poco conta il viso, l’identità».
Sì, va bene, ma come si fa a provare il dolo, cioè «entrare nella testa dell’imputato per sapere se Schmidheiny ha agito col dubbio di provocare quelle morti?».
Da qui l’analisi meticolosa della condotta.
Anche perché non va dimenticato che fino al 1992 l’impiego dell’amianto era consentito dalla legge. «Sì, nessuno dice il contrario – ha stoppato Laura D’Amico –, ma non poteva lavorarlo così!» redarguisce.
C’erano regole ben precise cui attenersi. «Ad esempio, i Dpr 547 del 1955 e Dpr 303 del 1956, che ruotavano intorno a tre figure centrali: il datore di lavoro, il lavoratore e quello che all’epoca si chiamava medico di fabbrica. Era un sistema perfetto già negli anni Cinquanta» ha spiegato l’avvocata D’Amico. E che cosa prevedeva? «Il datore di lavoro doveva prestare la massima attenzione alle misure di protezione; in questo caso specifico primaria protezione dalla polverosità d’amianto, e imponeva l’abbattimento, alla fonte, del rischio. Solo quando, ricorrendo ai più efficienti strumenti tecnologici si fossero raggiunti i maggiori risultati possibili di abbattimento delle polveri, in caso di minimo residuo di polverosità si ricorreva ai “mezzi sussidiari”, ad esempio le mascherine». Quelle adottate da un certo momento in poi all’Eternit, in verità, a detta dello stesso Robock (lo scienziato di Schmidheiny), non erano protettive ma avevano «soltanto un effetto psicologico», cioè l’illusione di proteggersi.
Inoltre, «il datore di lavoro doveva informare adeguatamente i lavoratori sui rischi cui erano esposti e su come prevenirli. Non un’informazione generica! Non il bollettino infilato nella busta paga in cui si richiama, in neretto, il pericolo del fumo, tacendo o minimizzando quello vero della associazione con la polvere d’amianto!».
E sempre quelle normative di oltre sessant’anni fa prevedevano «l’obbligo della prevenzione sanitaria: il datore di lavoro – ha spiegato D’Amico – doveva sempre tenere sotto controllo le condizioni di salute dei lavoratori». Di più: «La Cassazione è sempre stata categorica: in un’azienda o si adottano provvedimenti precisi per eliminare il rischio o si chiude. Non si può mettere in pericolo la vita dei lavoratori».
L’avvocata ha richiamato il convegno di Neuss, considerato un evento cruciale nella condotta dell’imputato: «Schmidheiny, già nel 1976, ha spiegato compiutamente tutte le potenzialità lesive e i rischi dell’amianto, con le previsioni di incremento di mesoteliomi, ha citato gli studi condotti negli anni Cinquanta e Sessanta e ha concluso sottolineando che occorreva attenzione nel lavorare l’amianto». Voleva dire che si sarebbe impegnato per interpretare al massimo livello quelle norme dei Dpr 547 e 303?
«Macché. Parole false. Pochi mesi dopo è stato prodotto Auls 76, il vademecum emanato dall’alto con l’indicazione di tutti i comportamenti da tenere per evitare che si diffondesse la conoscenza di quei rischi». Laura D’Amico inserisce un interrogativo: «E’ forse per imperizia (… non era altezza…), imprudenza (…è stato incauto…), negligenza (… non aveva voglia…), cioè gli elementi che caratterizzano l’omicidio colposo, che ha agito? No! Schmidheiny sapeva».
Un richiamo è stato fatto alle «266 prescrizioni da parte dell’Ispettorato del Lavoro di cui 67 per la polverosità: ogni prescrizione – ha ricordato l’avvocata – è una violazione della legge e ogni violazione della legge è un reato. Siamo a livelli inimmaginabili!».
E dopo? Dopo che l’Eternit fallisce nel 1986 (evento deciso segretamente e preordinato già nel 1983 a Zurigo, perché il settore stava progressivamente perdendo appeal) qual è stata la condotta dell’imprenditore svizzero? E’ stata analizzata per ricavare prove sull’elemento soggettivo dell’imputato: «Se il comportamento successivo è di mistificazione e di nascondimento cercato ad arte (con il ricorso al comunicatore Guido Bellodi), allora quella condotta successiva ha un significato per valutare anche quella tenuta tra il 1976 e il 1986 (il periodo di cui si occupa il processo Eternit Bis, ndr) ».
«Nel timore che si potessero scoprire le conseguenze del suo comportamento durante il lungo periodo del decennio, si è adoperato per mettersi al riparo in modo che quegli eventi non fossero collegati a lui» ha puntualizzato Riverditi. «Dopo circa un anno e mezzo che lo stabilimento è stato chiuso, ha messo dei soldi per una transazione». Con che vincoli? «Nella transazione è scritto chiaramente: che fosse messa la parola fine rispetto a qualsiasi azione legale non solo derivante dal danno subito, ma anche dalle modalità di produzione e dal materiale impiegato». In altre parole: «Lascia lo stabilimento in condizioni disastrose, abbandona i luoghi al proprio destino in modo consapevole, ma, affinché non si risalga a lui, paga qualcuno che lo scolleghi da quei fatti. Schmidheiny è scappato e si è nascosto. Ebbene, il “dopo” dice molto sul comportamento del “prima”!». La conclusione del legale di parte civile è che «l’imputato ha compiuto una scelta razionale: si è confrontato con quel dubbio, l’ha visto in faccia e, nonostante questo, ha agito cercando di nascondere la realtà. Ma – ha concluso con fiducia – quel che non è riuscito a nascondere è la verità!».
2 – La validità delle diagnosi
L’avvocato Giacomo Mattalia è partito da considerazioni sulle «linee guida» in tema di diagnosi del mesotelioma, elaborate da esperti e accreditate dalla letteratura scientifica, che, però, «sono inevitabilmente soggette ad aggiornamenti». Per questo, le linee guida non sono imposte, ma «raccomandate», lasciando spazio alla valutazione dell’anatomopatologo.
E veniamo, nello specifico, all’immunoistochimica, «una tecnica introdotta dall’inizio degli anni Novanta», e progressivamente affinata con nuovi marcatori.
«E prima? – si è interrogato Mattalia – Prima le diagnosi non si facevano? O non erano corrette? E, quindi, tutto quello che è stato fatto in precedenza cade nel nulla? Inclusi, ad esempio, gli studi di Wagner e di Selikoff, perché sarebbero basati su diagnosi non valide?».
Ha parlato delle modalità con cui viene fatta a livello ospedaliero una diagnosi di mesotelioma, frutto di un accurato approccio multidisciplinare. «Non c’è un unico specialista che es
amina il materiale biologico al microscopio! Si confrontano l’oncologo, il radiologo, l’anatomopatologo, il chirurgo toracico e altri, considerando tutti gli esami disponibili: lastre, vetrini, biopsia». Con quale scopo? «Formulare una diagnosi precisa a fini terapeutici. E quella diagnosi, ritenuta validissima per curare una persona, oggi in tribunale viene messa in discussione!». Analoga considerazione era stata espressa dalla pm Mariagiovanna Compare. Nel processo, le 392 diagnosi, frutto di indagini prima ospedaliere, sono state ancora riviste e aggiornate dai consulenti della procura, per arrivare a valutazioni di certezza o probabilità, ma «la probabilità è stata valutata nel complesso del quadro clinico. Non ci si è fermati a una risposta di accademica incertezza!».
«Saremmo contenti noi casalesi che quelle diagnosi fossero state sbagliate, che non fossero stati mesoteliomi – ha chiosato l’avvocata Esther Gatti -, perché ci sarebbe stata più speranza di vivere!».
3 – La posizione degli enti
Il Comune di Casale Monferrato. La Corte d’Assise di primo grado ha condannato l’imputato a pagare una provvisionale di 50 milioni di euro. Che i legali di Schmidheiny contestano. E l’avvocato di parte civile Esther Gatti difende.
Per inciso, tra i comportamenti dell’imputato stigmatizzati dall’avvocata Laura D’Amico, uno riguarda anche i risarcimenti alle vittime: «La Corte d’Assise di Novara lo ha condannato a pagare alle parti civili delle provvisionali (una sorta di acconto) che sono immediatamente esecutive, cioè l’imputato condannato era obbligato a pagarle. Ebbene, non l’ha fatto, non ha neppure osservato la sentenza della Corte!».
Riprende l’avvocata Gatti: «Delle 392 vittime del processo, 330 sono esposti ambientali: persone che nello stabilimento non hanno mai messo piede, ma si sono ammalate e sono morte per il mesotelioma causato dall’amianto». E’ stato possibile perché «la commistione tra stabilimento e territorio cittadino era costante». E perché, secondo l’
accusa e le parti civili, proprio le mancate precauzioni adottate dal datore di lavoro hanno avuto gravi ripercussioni anche all’esterno. Tra i vari argomenti, si insiste su quello degli indumenti da lavoro impolverati indossati e portati fuori dalla fabbrica, mancando all’interno una lavanderia o anche solo degli armadietti in cui separare abiti civili da quelli di lavoro, che quindi venivano poi lavati a casa: «Una pratica terribile – ha commentato l’avvocata Gatti -, che ha mandato a morte molte donne e famigliari degli operai!». Quanto al polverino, «abbiamo sentito dire che con l’avvento di Schmidheiny c’era stata una diffida a distribuirlo all’esterno. A parte che di questa diffida non si è trovata traccia documentale, ma si sono fatti controlli perché l’ordine fosse rispettato? E qualcuno ha informato le autorità cittadine perché attivassero un’attività di controllo e prevenzione? No, le autorità non sapevano nulla». E quando poi lo stabilimento e altri siti sono stati abbandonati in quello stato, «il Comune di Casale ha dovuto sopperire alla inattività dell’imputato, bonificando i luoghi per cercare di salvaguardare le vite umane».
Quanto alla costituzione di parte civile da parte di altri Comuni del circondario, Esther Gatti ha ricordato «il rischio di esposizione evidenziato dai consulenti della procura fino a un raggio di 11 chilometri»
La Provincia di Alessandria. L’avvocato Alberto Vella ha richiamato la mission dell’ente: «Promuovere la qualità della vita delle persone. Qui è stata addirittura tolta la vita, è stato compromesso, cioè, quel bene primario che la Provincia deve salvaguardare».
La Regione Piemonte. L’avvocato Alessandro Mattioda ha chiesto che la Corte d’Assise confermi la condanna inflitta in
primo grado all’imputato a risarcire all’ente i danni, patrimoniali e no, da liquidare in separata sede.
L’Avvocatura dello Stato, per conto della Presidenza del Consiglio dei ministri: «I cittadini morivano mentre l’imputato si arricchiva. Se non è questa una sofferenza per il territorio che lo Stato deve tutelare!».
B – I DIFENSORI
4 – La trascrizione degli atti
L’avvocato Alleva ha ribadito un tema già affrontato in altre sedi, tra le questioni preliminari: la corretta traduzione degli atti nella lingua dell’imputato che, a parere della difesa, non è stata rispettata. «La traduzione del capo di imputazione è incomprensibile e pure monca in una parte importante che riguarda il dolo».
5 – Accesso ai vetrini
Il difensore ha evidenziato le difficoltà di accesso ai vetrini in cui sono conservati i campioni di tessuto biologico delle vittime, vetrini che, «in questo processo – ha sottolineato Alleva -, rappresentano il corpo del reato e sono indispensabili per svolgere l’attività di controllo delle diagnosi, tanto più che, secondo alcuni scienziati, il mesotelioma è un “tumore camaleonte”, cioè imita altri tumori. Quindi era giusto e indispensabile poter svolgere una accurata verifica in ambito anatomopatologico alla luce degli innovativi criteri diagnostici». Compito che la difesa ha affidato all’anatomopatologo Massimo Roncalli. I tempi incidentati e lunghi di accesso, però, sanati poi dalla Corte d’Assise di primo grado, hanno rappresentato, secondo Alleva, «una violazione del diritto di difesa».
6 – Ne bis in idem
Non si può giudicare due volte un imputato per lo stesso fatto. Sulla questione del «ne bis in idem» è intervenuto l’avvocato Di Amato, richiamando in particolare i casi di vittime che sono elencati tra i 392 di questo processo ma erano già contenuti nel capo di imputazione del Maxiprocesso Eternit 1. La Corte Costituzionale, già interpellata a suo tempo, aveva superato la questione escludendo l’impasse. Ma «quella decisione non ci convince – ha detto il difensore –. Pensate quale sarebbe il principio della libera circolazione europea se ogni giudice desse una propria interpretazione del “bis in idem”!». Da qui la richiesta di «sottoporre la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, altrimenti non c’è rispetto del diritto» ha ammonito.
7 – La decisione del gup di Torino
«L’imputato aveva diritto a essere processato da un giudice di Vercelli e invece è stato giudicato dalla Corte d’Assise a Novara», a dire che doveva essere giudicato per omicidio colposo e non volontario (con dolo eventuale). Qual è il significato di questa affermazione del difensore Di Amato? La genesi del tema risale all’udienza preliminare di Torino, al termine della quale il gup Federica Bompieri aveva riqualificato il reato da omicidio doloso (contestato dalla procura) in colposo aggravato; come conseguenza, il fascicolo, che riguardava vittime di Casale, di Cavagnolo, di Bagnoli, di Rubiera dell’Emilia era stato spacchettato in quattro filoni. Ciascuno era stato inviato alla magistratura competente per territorio. Il filone casalese era finito alla procura di Vercelli che (come anche quella di Napoli per i morti di Bagnoli) aveva svolto ulteriori indagini e rinnovato al gup di Vercelli la richiesta di rinvio a giudizio di Schmidheiny per omicidio doloso (richiesta che il gup aveva accolto, mandando a processo l’imprenditore svizzero in Corte d’Assise a Novara). Secondo l’avvocato Di Amato non lo poteva fare: «A nostro parere, era precluso al pm di Vercelli modificare il capo di imputazione, disattendendo la decisione di un giudice precedente, cioè il gup di Torino che aveva sentenziato la riqualificazione del reato da doloso a colposo». La Corte d’Assise di Novara aveva già replicato a questa eccezione, riconoscendo la libertà del nuovo pm di procedere come ha fatto, integrando l’attività investigativa con nuove indagini. Invece, il difensore Di Amato nega questa totale libertà di manovra e insiste: «Il pubblico ministero aveva due possibilità: poteva chiedere l’archiviazione oppure doveva mantenere la stessa impostazione del giudice Bompieri».
C – FLASH MOB FUORI DAL TRIBUNALE
«Ecogiustizia subito: in nome del popolo inquinato»: è il titolo della campagna nazionale promossa da Acli, Agesci, Arci, Azione Cattolica Italiana, Legambiente e Libera, cui si è unita Afeva, finalizzata a riaccendere l’attenzione su luoghi simbolo dell’inquinamento e dell’ingiustizia ambientale. L’avvio della campagna si è concentrato sul «caso Casale», con due eventi che si sono svolti mercoledì 29 novembre. Al mattino, un flash mob davanti al Palazzo di giustizia di Torino, dove era in corso la terza udienza del processo Eternit Bis in Corte d’Assise d’Appello: un gruppo di attivisti dell’«Associazione famigliari e vittime amianto», tra cui diversi famigliari dei morti di mesotelioma, ha preso parte alla manifestazione. Nel pomeriggio, al salone Tartara di Casale si è svolta un’assemblea pubblica al termine della quale è stato siglato un Patto di Comunità per l’Ecogiustizia nel «Sin (Sito d’interesse nazionale) di Casale Monferrato», contenente proposte per sollecitare gli interventi che ancora mancano, verificarne l’attuazione e incentivare la partecipazione attiva delle popolazioni ai progetti di transizione ecologica del territorio. Piero Comba, tra i maggiori esperti italiani sugli impatti sanitari dell’amianto, ha proposto un gemellaggio tra Casale Monferrato e Sibatè, una cittadina di 38 mila abitanti, a una trentina di chilometri circa da Bogotà, in Colombia, dove uno studio internazionale ha identificato un’area ad alta incidenza di inquinamento da amianto e di malati di mesotelioma pleurico.
D – «AMBIENTALISTA DELL’ANNO»
È stato assegnato a Cecilia Di Lieto, storica voce di Radio Popolare, il Premio «Luisa Minazzi – Ambientalista dell’anno», alla XV edizione. La cerimonia di consegna del Premio – promosso da Legambiente e dalla rivista La Nuova Ecologia insieme al Comitato organizzatore che unisce numerose realtà casalesi, all’Ente di Gestione delle Aree Protette del Po piemontese e al Comune monferrino – si è svolta venerdì 29 novembre nella sala consiliare di Palazzo Sangiorgio, a Casale Monferrato. In tanti anni di passione e lavoro a Radio Popolare, Cecilia Di Lieto si è occupata di numerose tematiche. Dal 2014, dal lunedì al venerdì va in onda, dalle 12,45 alle 13,15, con il programma radiofonico «Considera l’armadillo», che racconta l’affascinante e complesso rapporto tra l’uomo e gli altri animali. Di Lieto è anche autrice del libro «Me l’ha detto l’armadillo. Storie di passione tra noi e altri animali», Altreconomia editore.
Il Premio, che dal 2012 è intitolato a Luisa Minazzi, morta nel 2010 di mesotelioma a soli 57 anni, dopo una vita spesa in trincea a difesa dell’ambiente come direttrice didattica, attivista e amministratrice comunale, punta a valorizzare persone impegnate per il benessere della comunità, la diffusione del messaggio ambientale, l’innovazione d’impresa, la salvaguardia del territorio. Questa XV edizione del Premio ha accomunato al nome di Luisa Minazzi anche quello di Romana Blasotti Pavesi, storica presidente, per trent’anni, dell’associazione Afeva, morta a settembre all’età di 95 anni.
Oltre a Cecilia Di Leo, gli altri testimoni di quell’Italia preziosa delle virtù civiche della XV edizione del Premio Ambientalista dell’Anno sono stati: Acs, che opera in vari paesi per lo sviluppo sostenibile, l’abbattimento delle diseguaglianze e l’equità di genere e che ha ideato GazaWeb per attivare sistemi di comunicazione stabile a Gaza; Fiorella Belpoggi, biologa, emerita direttrice scientifica dell’Istituto Ramazzini di Bologna fondato nell’87 dal professor Maltoni, oncologo di fama mondiale; Giovanni Chimienti, biologo marino, ricercatore in Ecologia all’Università di Bari e National Geographic explorer; Igor D’India, videomaker specializzato in spedizioni avventurose e tematiche ambientali che ha documentato la presenza di grandi quantità di rifiuti sui fondali dello Stretto di Messina; Giuseppe Giovì Monteleone, sindaco di Carini (Palermo) che si è battuto per le demolizioni delle ville abusive che hanno dato il via al risanamento della fascia costiera.
Brava Silvana che documenti e informi su questa sacrosanta battaglia contro i responsabili della pestilenza da amianto.Grazie davvero.
Grazie Silvana. Purtroppo assistiamo ad un film già rivisto. Speriamo cambi il finale !
Grazie Slvana, un riassunto delle espressioni più significative delle Parti Civili veramente molto ben fatto! La verità è dalla nostra parte!
Ci auguriamo che così sia anche nelle conclusioni, sarebbe finalmente ora!!!
Grazie Silvana per il tuo impegno nella lucida cronaca del processo. Leggerti ci porta in aula! Un solo commento: che si impegni per aiutarci a trovare la cura. Solo così avremo pace