“Un ragazzo normale”, autore Lorenzo Marone, edito da Feltrinelli, 2018, pp. 283.
In una frase: un affascinante romanzo di formazione.
Con “Un ragazzo normale”, Marone racconta fatti immaginari, mescolati a vicende realmente accadute a Napoli nell’anno 1985. Voce narrante e protagonista è Mimì Russo, allora dodicenne, di famiglia modesta, composta da “sette individui: mio padre, che di nome fa Rosario e all’epoca era il portiere dello stabile del Vomero nel quale abitavamo, mia mamma Loredana (…) mia sorella Bea (di quasi sei anni più grande di me) (…) nonno Gennaro e nonna Maria, e Beethoven, che non era il musicista, ma un cane arrivato da poco. E poi c’ero io. Vivevamo in un bilocale con cucina abitabile al pianterreno, e siccome di spazio in casa non ce n’era poi tanto io dormivo nella stanza con i miei, in una brandina che papà si era fatto regalare da un condomino. Beatrice, invece, dormiva in soggiorno, in un’altra branda che durante il giorno riposava piegata dietro la porta, mentre i nonni la sera erano costretti ad aprire il divano letto. Non era una vita comoda la nostra, eppure nessuno di noi sembrava davvero soffrirne, anche perché con il tempo i nostri movimenti si erano sincronizzati e perfino gli accessi al bagno erano regolati con ordine certosino dalle donne di casa”. (pp 19/20).
Il migliore amico di Mimì è Sasà, esuberante e prepotente, mentre Mimì è pacato e tende ad adattarsi al volere degli altri: “Non che avessi una personalità debole, è che non trovavo interessante perdere del tempo dietro a questioni inutili (…) il calcio non mi appassionava più di tanto, non di certo come al nonno, a papà e a tutti i maschi che mi circondavano (nel mese di luglio del 1984 il Napoli Calcio aveva ingaggiato il campione argentino Diego Armando Maradona n.d.r.), nondimeno trascorrevo ogni pomeriggio con Sasà per strada dietro un pallone, perché avere un amico come lui, che sapeva come difendersi e non si faceva metter i piedi in testa da nessuno, era per me motivo di orgoglio (…) eravamo più simili di quanto credessimo, e a unirci in quel contesto per lo più borghese erano proprio le nostre famiglie ‘popolari’. Ci accomunava, insomma, lo stesso passato e l’uguale presente, con pochi spiccioli nelle tasche ed esigua attenzione da parte degli adulti. Erano gli altri coetanei della strada a essere molto diversi da noi.” (pp 28/29).
Comunanza sociale e differenze d’animo profonde: Sasà è fortemente attratto dalla ricchezza e dal lusso sfoggiato dai ragazzi di famiglie più abbienti, i giochi elettronici, le grosse moto, le auto sportive, Mimì, al contrario, ha la “fissa” dei romanzi e dei supereroi che sogna di emulare. I romanzi se li era trovati in casa, perché l’avvocato presso il quale mamma Loredana lavorava aveva deciso di sfoltire la sua imponente biblioteca, cominciando a regalare alla sua segretaria, ad ogni festa, uno tra i tanti volumi posseduti; Mimì, a dodici anni, ne aveva già letti molti (…). “Il problema è che fra un regalo e l’altro passavano mesi, perciò avevo il tempo di rileggere la stessa storia più volte” e a furia di leggere “nella vita di tutti i giorni parlavo in modo forbito, utilizzando spesso paroloni assurdi che andavo a cercare sul dizionario credendo così di fare bella figura (…); invece papà mi guardava come se fossi un pazzo e Bea una volta mi aveva bloccato per un braccio dicendo ‘Tu non scoperai mai, fattene una ragione’. Ma io non l’avevo ascoltata (); quei libri sono stati il mio primo mattone, la struttura sulla quale ho poggiato la costruzione della mia vita, la mia pietra angolare”. (p. 22).
Un altro, più curioso, “mattone” dell’adolescenza di Mimì è la collezione dei manifesti funebri; la nonna ne aveva scoperti sotto la branda del ragazzo, che quella sera stessa è chiamato a spiegarsi dinanzi l’intera famiglia.
“Perché, Mimì? Perché fai così?
“Nulla … quando trovo un manifesto che mi piace, lo scollo dal muro con una spugnetta e una spatola”
“Ma che te ne fai?”, chiede la madre con le lacrime agli occhi, e la sentenza arriva dalla sorella Bea: “E’ un disadattato, mà, questo da grande diventa un serial killer”.
La mamma, più dolce: “Ti attraggono i morti?”.
La risposta: “Non provo alcuna attrazione morbosa verso i defunti e i cimiteri (…), mi piacciono semplicemente i soprannomi che avevano in vita queste persone. Li trovo istruttivi, perché i dialetti e i detti popolari ci aiutano a comprendere meglio la nostra storia, il nostro passato”.
Per dare sostanza alle sue affermazioni Mimì corre in camera da letto, prende i manifesti, e, rientrato al consesso famigliare, inizia a esibire la sua collezione, ma nonno Gennaro, fino a quel momento silente, si ribella: “Mimì, chiudi chella cosa, che porta male!”, facendo le corna, al che la nonna reagisce: “Gennà, non fare quel gesto in casa, che il Signore si stizza”, e poi inizia a sgranare il rosario con basso mormorio.
“Presentai gli annunci uno dopo l’altro con un sorriso compiaciuto. I morti avevano i soprannomi più assurdi: Antonio detto Mustafà, Pasquale detto Hitler, Salvatore detto Cap’e vacca, e poi, ancora ‘o Cinese, ‘a Zitella, Marlon Brando e via così.
Bea fu la prima a scoppiare a ridere (e la cosa mi lasciò interdetto, perché a me non facevano ridere per niente e di certo non li collezionavo per scopi di pura attualità, ma scientifici) mentre il nonno cedette al terzo manifesto. ‘A paposcia!’ ripeteva dalla sua poltrona mentre indicava l’ultimo nomignolo della serie. Il gesto fece da apripista perché anche papà si sentì in diritto di farsi contagiare dall’allegria generale è commentò: ‘L’altro giorno ho visto una che si chiamava ‘a chiatta!’.
Mamma fu l’ultima a mollare la presa e in breve tutti ridevano come i matti, tutti tranne me, che assistevo alla scena ammutolito, e la nonna, che li guardava come se fossero dei diavoli appena spuntati nella sua cucina. Appoggiata al lavello, con gli occhi di fuori e la mano al rosario, ripeteva senza sosta quest’unica frase: ‘Gesù, perdonali, non sanno quello che fanno’ ” (pp. 27/28).
A dodici anni Mimì si sente smarrito, fuori posto: non incontra supereroi, e neppure un maestro che lo aiuti davvero a tirar fuori le sue qualità, non individua esempi, punti di riferimento da imitare, tranne Giancarlo.
E qui che lo scrittore intreccia la narrazione di fantasia con la Storia vera: Giancarlo Siani (1959-1985) era un cronista del quotidiano “Il Mattino”, fu assassinato dalla camorra il 23 settembre 1985, e nella finzione letteraria vive nello stesso stabile dove abita Mimì con la sua famiglia.
Nel gennaio del 1985, qualche giorno successivo a una storica nevicata, è proprio Sasà a parlarne con Mimì: “ (…) ci eravamo imbattuti in lui, dicendomi che quel giovane era ‘uno con le palle’, testuali parole, perché non aveva paura di lottare contro i camorristi, ‘che sono i più forti di tutti’. Avevo trovato il mio esempio da seguire”. (p. 24).
Giancarlo aiuterà davvero Mimì a crescere (il percorso brutto anatroccolo – cigno funzionerà anche per questo adolescente in una Napoli così difficile?), qualche buon indizio c’è, vale la pena approfondire!
Le vicende sono intriganti, la descrizione dei personaggi ricca di umanità e coinvolgente: un romanzo adatto a tutti.
Finale: Prima di “Un ragazzo normale” non avevo ancora letto nulla di Lorenzo Marone, scrittore di notevole successo (tra gli altri riconoscimenti, nel 2015 vinse il Premio Strega con “La tentazione di essere felici”): penso che sarà piacevole colmare questa lacuna.