Questa storia è totalmente inventata, scaturita dalla mescolanza di vecchi ricordi, ispirati a uomini e luoghi che non esistono più, e comunque totalmente trasfigurati dalla macina della fantasia. «E’ un po’ triste», mi ha detto Filippo Pietro mentre gliela raccontavo per dargli gli spunti da cui ricavare l’illustrazione. Sì, è un po’ triste, perché ci sono giorni un po’ così, in cui nascono StOriE, un po’ CoSì. Ma, poiché, comunque, «na storia béla fa piasì cüntela», io la racconto. Nel diffuso frastuono rabbioso e ostile, abbiamo un gran bisogno di storie che non fanno arrabbiare, che contengono un senso di giustizia e lasciano aperta la fessura della speranza. Tra cronaca e romanzo, hanno un posto ideale le «StOriE CoSì», racconti verosimili con i connotati della verità autentica e possibile. Buona lettura e appuntamento a lunedì prossimo con un’altra «béla storia». Ciau!
[Il disegno del fioraio è opera di Filippo Pietro, 8 anni. Il sole luminoso, in alto a sinistra, così come gli spontanei fiori in cima al cappello sono un soffio genuino di speranza]
La bottega dei fiori era un cubo di lamiera, meno di due metri per due, smaltato di verde. Su tre lati era cieco, mentre il quarto era occupato interamente da una serranda avvolgibile che veniva tirata su al mattino di buon’ora e abbassata alla sera. Dall’estremità superiore scorreva in avanti una tenda a righe che serviva a proteggere, dal troppo sole o dalla pioggia insistente, le scaffalature espositive di assi grezze poggiate sopra telai di metallo, in precario equilibrio sulla pavimentazione in porfido. Sul palchetto a destra erano disposte piante in vaso in un caleidoscopio di tonalità verdi che sfumavano nei gialli, negli arancioni e nei rossi a seconda delle stagioni. Sul lato opposto, erano allineati con precisione maniacale vasi colorati di forme e dimensioni diverse contenenti i fiori recisi. Al centro, su un tavolino rotondo sorretto da una gamba centrale, erano ammonticchiati dei libri; le copertine consunte e spiegazzate lasciavano intravedere i titoli: «Piante d’appartamento», «Fiori e leggende», «Le rose», «I tulipani», «Il linguaggio segreto dei fiori». E altri ancora.
Il primo cliente della giornata era il dottor Pierluigi Tibaldi, l’inflessibile presidente del Tribunale.
Si fermava davanti alla botteguccia, secco secco, immancabilmente in grisaglia, scarpe nere lucidissime, una borsa di pelle marrone, gonfia e consunta sui bordi. Sistemava la Umberto Dei con freni a bacchetta, nera e lucida, sul cavalletto e si avvicinava, la schiena lievemente piegata in avanti, gli occhiali a metà del naso per mimetizzare un’accentuata curva aquilina.
«Buongiorno, signor Annibale» borbottava sfiorando la tesa del cappello e, dopo qualche silenzioso minuto di concentrazione, allungava una mano indicando un fiore.
«Il tulipano rosso, signor giudice?» bofonchiava Annibale.
«Mhm» assentiva l’uomo in grisaglia.
«Mhm» grufolava l’altro di rimando.
Il giudice sarebbe passato a ritirare il fiore, ben confezionato, appena terminato l’orario mattutino. Non c’era altro da aggiungere; voltava le spalle e attraversava la piazza in diagonale a pedalate ben distese. Saliva tre gradini di pietra e scompariva oltre il portone del Palazzo di Giustizia.
L’altro, leggermente claudicante, proseguiva con metodo e scrupolo le mansioni quotidiane: innaffiava, cavava foglie secche qua e là, ravvivava mazzi e spostava le infiorescenze, avvicinandone alcune e allontanandone altre alla ricerca ostinata dell’armonia perfetta di colori e di profumi.
Così tutti i giorni. Non faceva ferie, “ne ho già fatte troppe, porca malùra” brontolava, “e tutte in un colpo, che valgono per una vita intera”.
E il giudice, anche di festa, prima di andare a messa passava a scegliere un fiore. Mai lo stesso due volte di seguito, ogni giorno diverso.
Annibale sapeva a chi era destinato.
Il fioraio abitava in una vecchia casa del centro storico, due stanze, una cucina che faceva anche da sala e il gabinetto con un finestrotto in alto e un pavimento di piastrelle scure sfumate di bianco, che pareva cosparso di piume. Viveva lì da che si ricordava, per molti anni insieme a sua madre, Antonietta, finché un «colpo» se l’era presa, mentre lui non c’era, perché non poteva esserci.
Per il funerale sì, aveva ottenuto il permesso, gli era stato concesso senza tante storie, ed era rimasto seduto vicino alla bara con la testa incassata tra le spalle a singhiozzare. Era la prima volta che sentiva un disperato bisogno di piangere. Non ricordava di esserselo concesso neppure da bambino, era un «duro», lui. Le lacrime erano “roba da donnette”, si diceva, e, tra quelle “donnette”, c’era sua madre che ogni tanto la sentiva tirare su col naso, povera donna ghermita dalla ruggine di una vita grama. Si era trovata sola a tirare su un figlio, perché il marito se n’era andato, dall’oggi al domani. Forse per mare. Forse a cercare l’America. Un giorno, dalla buca delle lettere era spuntata fuori una busta contenente un certificato di morte. Antonietta aveva alzato le spalle, “che il demonio abbia pietà di lui”.
Si era rimboccata le maniche e aveva messo insieme il pranzo con la cena facendo quello che aveva imparato a fare fin da bambina: accudire i fiori. Tanto aveva brigato fino a ottenere la licenza per sistemare un chiosco nella piazza al centro della città, da dove vedeva il campanile della cattedrale, la torre con l’orologio, i palazzi nobili con gli uffici pubblici, i portici con i negozi e uno scorcio del tribunale. Era soddisfatta: «Proprio una buona sistemazione».
L’orologio della torre segnava le 13. Il giudice Tibaldi si fermò a ritirare il tulipano rosso, avvolto in cellophane trasparente, legato con un nastrino lucido dello stesso colore del fiore. Pagò, conosceva l’importo, non c’era bisogno di resto.
«A domani» borbottò Annibale, ma più per dare suono all’aria, che tutti e due sapevano che si sarebbero rivisti il giorno dopo. Tutte le mattine, con ogni tempo e in ogni stagione.
Annibale Giraudo e Pierluigi Tibaldi erano coscritti. Avevano compiuto 61 anni, in piena estate, a distanza di un giorno l’uno dall’altro. Alle elementari, erano stati nella stessa aula e nello stesso banco. E pure alle medie. Si integravano bene: Pierluigi, il “Pigi”, era magrolone, diafano, timido; Annibale, il “Niba”, era muscoloso, vispo ed energico. Pigi era il primo della classe, ma non sapeva tirare al pallone, anche se gli sarebbe piaciuto molto. Niba dribblava come una biscia e non sbagliava un colpo in porta. Pigi veniva preso in giro, Niba era temuto.
Il Pigi prese ad aiutare il Niba nelle faccende scolastiche: si sedevano su uno scalino e studiavano la storia, la geografia, l’antologia, i compiti li faceva il Pigi per entrambi; per le poesie, interveniva Maria Stella, che era bravissima a declamare in versi. Ma, soprattutto, era bellissima: aveva la pelle vellutata e rosea come buccia di pesca, gli occhi verdi e cristallini come un lago di montagna e i capelli lunghi e mossi in cui intrecciava, per vezzo, una margherita o una violetta, raccolta lì per lì.
Il Niba, dal canto suo, prese il Pigi sotto la sua protezione così che nessuno si permetteva più di alzare anche soltanto un sopracciglio contro il “violino” della classe.
Poi, ognuno imboccò il proprio destino: Pigi il liceo e Niba la strada.
La palestra della strada ti allena a smaliziarti presto, ma i metodi sono spesso ispirati a scorciatoie che ti portano financo a orridi perniciosi.
Annibale per un po’ aiutò la madre al chiosco dei fiori, e sapeva farci, ma sognava scenari più grandi, in cui sfrecciano macchine sportive, gli abiti di lusso ti calzano a pennello, le femmes fatales ti seguono seducenti in hotel da film per nottate da estasi. Voleva la ricchezza e il lusso come emblema di potere e di un (illusorio) rispetto: una casa con tre bagni e non un bugigattolo di cesso, un soggiorno grande come una sala da ballo, un letto immenso con il baldacchino anziché una branda cigolante. Sperimentò la vocazione alla marioleria, rubacchiando qua e là per avere qualche soldo in tasca con cui fare il gradasso con gli amici e le ragazze.
Finché gli capitò l’occasione: fu ingaggiato da quelli che “il rischio è il mio mestiere”, che “basta un colpo e ti sistemi per tutta la vita”. Non andò, però, come previsto: la “rapina del secolo”, come l’avevano battezzata spavaldi, fallì e, nello scontro a fuoco con i caramba, lui rimase sull’erba con una gamba trafitta da una P38. I complici si dileguarono.
Al processo, soltanto Annibale Giraudo fu incriminato per rapina a mano armata.
«Se confessa i nomi dei suoi sodali, il giudice potrebbe tenere conto del comportamento collaborativo. Altrimenti la condanna sarà pesante» spiegò il pubblico ministero. Ed esortò: «Faccia i nomi dei complici!».
«Nessuno, ero solo» rispose.
«Lei ha fatto da palo, lo ammetta! Le menti, i veri esecutori erano altri, perdio! Chi? Chi? Chi?» incalzò il pm esausto.
«Nessuno».
Non era credibile. Soprattutto uno, in quell’aula, non gli credeva.
«Non può aver fatto tutto da solo» sbottò il giudice, convinto che l’imputato mentisse. «Signor Giraudo, lei copre qualcuno! Perché? Vuole pagare per quella gentaglia da cui avrebbe dovuto tenersi alla larga e che, invece, l’ha tirata in mezzo lasciandola nei guai?». L’improvvisa reazione del magistrato paralizzò l’aria per poi sfumare in un silenzio anomalo.
«Non faccio la spia» borbottò Annibale, ma solo il Pigi comprese quel borboglio a fior di labbra.
“Già” ammise il giudice penetrando con gli occhi quelli dell’imputato che sostenne imperturbabile lo sguardo.
* * *
Un capannello di avvocati si era fermato in una geometria d’ombra disegnata dal chiosco dei fiori.
«Quel giudice? Peggio non ci poteva capitare. Capace, eh, non c’è che dire, preparatissimo e integerrimo. Però…» attaccò uno, allentando la cravatta per liberare il collo sacrificato.
«Perché dice così, avvocato?» domandò un altro aggrottando la fronte preoccupato.
«Perché pianta delle botte… è il magistrato più severo che…».
«Di’ pure il più stronzo» riassunse un collega e altri annuirono ridacchiando.
«E’ il più giusto» intervenne Annibale cercando di mantenere l’equilibrio tra le gambe disallineate. Li fissava con lo sguardo cupo e i pugni tesi sui fianchi. «E’ giusto» ripetè, «non si lascia prendere per il naso da…».
Il crocchio si spostò verso i portici, intimidito da quell’uomo sciancato che li sfidava con lo sguardo e la voce rauca.
Sì, era stato giusto il giudice. Anche con lui.
Certo che lo aveva condannato: una pena giusta per la correità nella rapina, ma con attenuanti proporzionate, convinto, oltre ogni ragionevole dubbio, che l’imputato avesse fatto soltanto da “palo” e non avesse svelato i nomi dei complici perché “il Niba subisce, ma non tradisce, manigoldo per avverso destino, ma leale”.
Annibale si era preso tutta la colpa e, per il «galateo» della galera, quel silenzio era meritevole di rispetto.
Una volta al mese, Antonietta appiccicava un rettangolo di cartone sulla serranda del chiosco con su scritto: «Oggi chiuso. Riapro domani». E prendeva il treno per le Vallette.
Uscito di prigione, Annibale aveva trovato la casa vuota. Era deciso a rigare dritto, perché l’aveva promesso a sua madre, a ogni colloquio mensile. «Giuramelo sulla Madonna» pretendeva lei, tirando fuori dalla borsa un fazzolettino candido che aveva fatto immergere nell’acqua santa&benedetta alla Grotta di Lourdes.
Ma per uno che si fa dentro più di quattro anni è difficile trovare un lavoro onesto e regolare. In un cantiere, con quella gamba che era rimasta offesa nell’«infortunio», niente da fare. Da imbianchino non era ben visto sui pioli di una scala, sempre per via della fragilità fisica. Da elettricista «non hai l’esperienza». Da netturbino «giocoforza, con la tua infermità, sei troppo lento».
Il chiosco era arrugginito, ma la concessione non era scaduta. Lo scrostò, lo riverniciò e lo riempì di piante e fiori. Alzava gli occhi e vedeva lo scorcio del palazzo del tribunale, sollevava lo sguardo al cielo e sentiva le ammonizioni di quella santa donna di sua madre: tutto insieme un monito severo a non sgarrare più.
Donne, niente. Ne aveva amata una, “ma io non ero alla sua altezza”. E tuttavia non gli era mancata la compagnia. Prima.
Ma, adesso, chi lo prende un ex galeotto, per di più sciancato, burbero e pure un po’ misantropo?
Non si sentiva solo, però: a poco a poco, aveva imparato il linguaggio dei fiori e questi, a loro maniera, gli rispondevano.
Il chiosco, rimesso a nuovo, divenne la sua tana. Quando terminava tutte le incombenze che le creature botaniche, in quanto vive e vegete, reclamano, si sedeva su una sedia impagliata accanto al tavolino a sfogliare i libri di fiori studiandone attentamente le immagini e a leggere, anzi a rileggere, le nozioni, i suggerimenti, le storie fantastiche. La clientela si fidava dei suoi appropriati se pur scarni suggerimenti: consigliava le rose o i tulipani, i ciclamini o i garofani come messaggio d’amore e passione; il giacinto o il mughetto come espressione di amicizia; la dalia come segno di gratitudine; il vischio come portafortuna; la zinnia per nostalgia e la gerbera in un’esplosione di vivacità. Accostava i colori non soltanto per estetica, ma per ciò che lasciavano intendere.
Un giorno, il giudice si era presentato a comprare un fiore. E il giorno appresso un altro. Ogni mattina sceglieva e, dopo, passava a ritirare.
Non si erano mai più incontrati da «allora». E, invece, da quel momento in poi, anno dopo anno, fiore dopo fiore, si erano visti invecchiare insieme.
Fino al mattino in cui Annibale attese inutilmente il giudice. Prese a guardare l’orologio ossessivamente, anzi, gli orologi: quello che aveva al polso e quello della torre. Spaccavano il minuto, ma i minuti passavano e del giudice non c’era ombra.
A un tratto, giunse, a passo lesto, uno degli uscieri del Tribunale.
«Mi hanno detto di darle questa» disse e, in cima alla pila di libri dei fiori, posò una busta lunga e stretta. Sopra, la scritta a mano in inchiostro blu: «Consegnare al Signor Annibale Giraudo – Stim. mo Fioraio, piazza Centrale. Spm».
Ci sono lettere che aspetti e che non arrivano mai.
Ci sono lettere che non ti aspetti e non avresti mai voluto veder arrivare.
Sono fatte allo stesso modo: busta normale, bianca, incollata sul retro. Destinatario e mittente scritti in modo chiaro. Niente che lasci trapelare il contenuto. Eppure ne senti il peso, per via di un’aura indefinibile, indifferente al tatto e alla vista, ma percepita da un istintivo sesto senso.
Annibale soppesò la busta, la osservò in bianca e volta, la sventolò anche nell’aria, la posò nuovamente sul tavolino dei libri e fece un giro tra le piante per vedere se non avesse dimenticato qualcosa da fare: innaffiare o mondare qualche foglia secca.
«Ha sentito che cosa è successo?» domandò una cliente cui dava le spalle.
Il fioraio si voltò. La domanda era stampata negli occhi.
«E’ morto il giudice. Un “colpo”. Stanotte. In casa. Pover’uomo. Certo, a parlarne da vivo, era un tipo duro, eh, non risparmiava nessuno…».
«Era un uomo giusto» replicò Annibale e ignorò la donna che rimase impalata per qualche minuto, poi se ne andò.
Si lasciò andare sulla sedia impagliata. Infilò l’indice in una piccola fessura della busta, ne strappò il bordo ed estrasse un foglio scritto in grafia elegante.
In alto a destra, la data di alcuni mesi prima.
«Caro Niba», lesse e tirò su gli occhiali che pendevano dal cordino fin sul petto, «non so quando riceverai questa mia, forse tra un anno o chissà. Spero il più tardi possibile o mai. Ma c’è Chi, al di sopra di noi, decide il nostro destino. Fin da quando veniamo al mondo. Metti, ad esempio, te e me: quanto erano diverse le nostre radici! E, tuttavia, benedico il Cielo per averle fatte incrociare come fossimo fratelli».
Il fioraio raschiò la gola per cacciar giù un grumo di muco che gli ostruiva il respiro.
«Non ti ho mai ringraziato abbastanza per avermi protetto: non so, da ragazzo, come avrei saputo sbrigarmela da solo. Io, purtroppo, non sono stato in grado di fare altrettanto per te, non riesco a perdonarmelo, Niba, mi dispiace profondamente. Scusami, fratello mio!».
Annibale batté un pugno sul tavolino e soffocò un singulto; un libro, in precario equilibrio, scivolò a terra. “Ma che dici, Pigi? Io ero un chiodo storto, porca malùra, e tu hai fatto di tutto per raddrizzarmi” imprecò tra sé. “Da qui guardavo la finestra d’angolo del tribunale e sapevo che eri là, a sorvegliarmi. Mi hai protetto eccome!”.
Calò di nuovo gli occhi sul foglio, il fiato in affanno.
«Tu lo sai bene a chi è destinato il fiore che scelgo ogni giorno: sì, a lei. Così bella e sempre più fragile».
Annibale tirò su col naso, poi ci premette sopra un fazzoletto stazzonato cavato fuori dalla tasca dei calzoni.
«Alcuni anni fa, le hanno diagnosticato una malattia invalidante e degenerativa, che riduce fortemente le capacità di movimento e procura un progressivo deterioramento fisico. Eppure, credimi, nonostante tutto io continuo a vederla bellissima!».
Il fioraio abbassò le palpebre e le strinse forte catturando un’immagine lontana, ma vivida. “Aveva la pelle vellutata come buccia di pesca, e gli occhi cristallini come un lago di montagna”.
Riaprì gli occhi e lasciò che si perdessero nel vuoto, pervaso da un’incontenibile inquietudine. Riprese a leggere. «Ciò che la rasserena è il fiore che le porto a casa ogni giorno: tremante, se lo infila tra i capelli o lo appunta sul petto. Lo aspetta, contenta e radiosa, e la sua felicità annulla ogni difetto e ogni ombra».
«Scusi, fioraio, potrebbe…» attaccò un cliente che si era avvicinato al chiosco.
«Non ci sono!» lo interruppe sgarbato Annibale, accompagnando la replica con un gesto secco della mano. L’altro intimidito si allontanò a passi indietro.
«Fino a ora sono bastato per entrambi, ma, da qualche tempo, il mio cuore ha cominciato a fare le bizze. Sai com’è, è un muscolo malandrino… Per lei, non ci sono problemi di assistenza: ho assunto persone fidate che la accudiscono con cura fino a che Dio lo vorrà. Ma, se la mia pompa dovesse incepparsi di colpo, chi le porterà ogni giorno un fiore, il più bello e speciale, sua fonte di gioia? Chi lo sceglierà? La risposta è una sola: Niba, l’unico che può farlo sei tu.
So che posso contare su di te, ora come sempre.
Grato per l’eternità.
Tuo devoto, Pigi».
Il fioraio abbassò lentamente le mani fin sulle gambe, con la lettera stretta tra le dita. Attese a lungo che si attenuasse lo stordimento che lo ingabbiava selvaggio. A fatica si alzò ed entrò nell’ombra del chiosco; poi, si accucciò sul pavimento, in un angolo, quasi a voler scomparire. Rannicchiato, con le braccia strette attorno alle gambe e la testa pigiata sulle ginocchia, pianse per la seconda volta nella sua vita.
L’orologio della torre suonò dodici rintocchi.
Doveva sbrigarsi.
Prelevò delicatamente da un vaso lo stelo di un fiordaliso, lo avvolse in carta trasparente e lo annodò con un nastro color ciano.
Poi Niba corse a consegnarlo, per non fare aspettare Maria Stella.
Grazie Silvana per questi momenti di serenità in cui vogliamo credere che si può sperare in un mondo in cui contare sull’aiuto del prossimo è ancora possibile
Molto bella e commovente . Grazia sensibilità d’animo cuore e amore gli ingredienti del tuo scrivere. Brava Silvana e Grazie . A lunedì prossimo . Paolo
Il mastro fioraio sembra uscito da una favola di Gianni Rodari per dirci qualcosa … trovo il suo viso dolce e burbero nello stesso tempo ..sorride sotto i baffi come per dirci qualcosa di importante , di saggio e con la determinazione degli insegnamenti che i nostri nonni ci donavano , anche se non richiesti , e di cui solo molti anni dopo, da adulti, ne capivamo il senso e la profondità. I colori usati e le distanze tra gli oggetti disegnati ci trasmettono un senso di spazialità, speranza, e serenità … tutte sensazioni emotive che sembrano ormai inutili in questo mondo fatto di stressati mancati numeri 1. Complimenti al disegnatore , ma anche a chi ha scelto questo disegno per copertina a questa bellissima piccola grande storiella.
Un’altra “storia bela” ricca di sentimento e di umanità
Commovente. Peccato che ai giorni nostri, più che fiori alle donne, belle o brutte, giovani o vecchie, si riservino attenzioni di diverso tipo, a volte mortali. Il tuo modo di raccontare ci porta a vivere le emozioni dei protagonisti.
L’e’ propri una ” bela sturiela” che coinvolge con naturalezza pensando a gesti e comportamenti che oggi sono purtroppo ” mosche bianche”.importante e’ fare sì che qualcosa di bello resti nella mente e passando per il cuore ci aiuti a recuperare un poco di sano e naturale comportamento che ci faccia sentire piu’ uomini e donne vere.grazie.