Ospitiamo e diffondiamo l’editoriale pubblicato il 2 marzo 2024 sulla testata IPSOA – Professionalità Quotidiana, a firma di Raffaele Guariniello, Già Magistrato (Procura Repubblica di Torino) e Presidente della Commissione Amianto del Ministero dell’Ambiente [Crediti Foto: European Greens]
RAFFAELE GUARINIELLO
Certo, a leggere la circolare dell’INAIL n. 7 del 15 febbraio 2024, concernente la revisione delle tabelle delle malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura sulla scorta del decreto interministeriale 10 ottobre 2023, non mancano le ragioni per trarne implicazioni positive sul terreno delle malattie professionali. Basti riflettere che la circolare pone in luce che sono state inserite specifiche patologie neoplastiche quali l’epatocarcinoma tra le malattie causate da cloruro di vinile, il tumore maligno della laringe e dell’ovaio tra le malattie da asbesto, il carcinoma del nasofaringe tra le malattie causate da polveri di legno, il tumore maligno del polmone tra le malattie causate da esposizione a radon.
Il fatto è che non basta favorire l’indennizzo delle malattie professionali. Primaria rimane l’esigenza della prevenzione.
Certo, la circolare opportunamente ricorda quell’art. 139 del Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali che impone, in particolare, ai “medici di fabbrica” la trasmissione di copia della denuncia delle malattie professionali “alla azienda sanitaria locale”, e sottolinea che è istituito, presso la banca dati INAIL, il registro nazionale delle malattie causate dal lavoro ovvero ad esso correlate a cui possono accedere “le strutture del Servizio sanitario nazionale, le direzioni provinciali del lavoro e gli altri soggetti pubblici cui, per legge o regolamento, sono attribuiti compiti in materia di protezione della salute e di sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro”.
Ma mi pongo e pongo una domanda: in che misura questi “soggetti pubblici” – traendo spunto dalla banca dati INAIL – riescono poi ad occuparsi con accertamenti sistematici e approfonditi di malattie professionali a tutela della salute e sicurezza, e a prescrivere condotte virtuose alle imprese coinvolte?
Da qualche anno a questa parte sto notando segnali preoccupanti di un ritorno agli anni settanta del secolo scorso. A quell’epoca, nelle aule giudiziarie, erano pressoché banditi i processi per malattie professionali. Addirittura, nessuno per i processi per tumori professionali. Toccò a una nuova generazione di magistrati aprire gli occhi e mettere mano alle leggi penali che proteggono la sicurezza sul lavoro e che puniscono reati come l’omicidio colposo.
Ma oggi? Ha ripreso a soffiare il vento della deregolazione? Sul versante penale, le malattie professionali sembrano interessare men che meno pubblici ministeri e giudici.
Purtroppo, pesano le carenze sofferte dagli organici e dalla professionalità di quei “soggetti pubblici” che giustamente la circolare INAIL evoca come tutori della salute e sicurezza. Per giunta, ci chiediamo se l’obbligo di referto previsto a carico degli esercenti una professione sanitaria dall’art. 365 c.p. venga costantemente osservato (e fatto osservare) in rapporto alle patologie di sospetta origine occupazionale. E non nascondiamoci che le tante piccole procure della Repubblica operanti nel nostro Paese scontano generalmente un difetto di specializzazione. Né si è provveduto a creare la Procura nazionale sulla sicurezza del lavoro.
Eppure, il 21 febbraio, al Senato, si è ammesso che la frammentazione di competenze nelle procure più piccole può confliggere con il principio di specializzazione, che, invece, dovrebbe essere tipico di ogni ufficio inquirente, proprio perché si tratta di materie che presuppongono una particolare preparazione da parte dei singoli magistrati.
Il risultato allarma, ma non sorprende.
A parte i processi relativi a patologie asbesto-correlate (per lo più un’eredità di indagini condotte nel passato), in questi ultimi anni la Cassazione penale ha avuto raramente occasione di occuparsi di malattie professionali. Isolate appaiono:
– Cass. pen. 4 agosto 2023, n. 34348 che conferma la condanna per il reato di lesione personale colposa commessa con violazione delle norme antinfortunistiche della legale rappresentante di una scuola professionale per aver cagionato a un’allieva parrucchiera una dermatite allergica da contatto alle mani con caratteristiche di eczema ed accertata sensibilizzazione a parafenilendiammina;
– Cass. pen. 20 luglio 2023, n. 31508 che annulla l’assoluzione dal reato di lesione personale colposa in danno di un lavoratore affetto da ipoacusia da rumore;
– Cass. pen. 8 giugno 2021, n. 22267 che conferma la condanna per lesione personale colposa in danno di un dipendente di una s.p.a. adibito, nonostante le contrarie indicazioni mediche, a mansioni che comprendevano movimentazione manuale dei carichi e guida dei mezzi con vibrazione all’intero corpo, così cagionandogli un indebolimento permanente del rachide lombo-sacrale.
Persino le patologie asbesto-correlate, giustamente poste in risalto nella circolare INAIL, si stanno disperdendo tra sistematici proscioglimenti dal reato di omicidio colposo in danno di lavoratori deceduti per patologie asbesto-correlate quali mesoteliomi, tumori polmonari, asbestosi. E spesso e volentieri si tratta di proscioglimenti per intervenuta prescrizione del reato. Sul presupposto -conclamato, ad esempio, da Cass. 28 marzo 2019, n. 13582 – che “trascorso un certo lasso di tempo dalla commissione del fatto, stante l’attenuarsi delle esigenze di punizione, matura un diritto all’oblio in capo all’autore del reato”.
E a questo riguardo è tutto dire che ho dovuto salutare con parole di speranza la pronuncia emessa il 13 febbraio 2024 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nell’affaire Jann-Zwicker et Jann c. Suisse (requête no. 4976/20) su un caso di morte per mesotelioma pleurico caduto in prescrizione: “I tribunali svizzeri hanno limitato il diritto degli istanti di accedere a un tribunale, a un punto tale da colpire il loro diritto nella sua stessa sostanza. Sicché in questo affare lo Stato ha oltrepassato i limiti del suo margine di apprezzamento in violazione dell’art. 6 § 1 della Convention, concernente la durata della procedura”. Con la conseguenza che la Svizzera è stata condannata a versare ai congiunti 20.800 euro per danno morale, oltre alle spese.
Per fortuna, c’è la Corte europea dei diritti dell’uomo!