SILVANA MOSSANO
Mi ero preparata a rivolgere con gioia un augurio puntuale di buon compleanno, e invece è velato a lutto da un mesto e ingiusto addio da questa Terra (o, forse, un fiducioso arrivederci in un Altrove?).
Oggi, domenica 3 marzo, Romana Blasotti Pavesi, la mitica e combattiva presidente d’onore dell’associazione Afeva (Associazione famigliari e vittime amianto), compie 95 anni. Buon compleanno, Romana!
Oggi, domenica 3 marzo, alle 17,30, nella parrocchia del Cuore Immacolato di Maria, a Porta Milano, si svolge la veglia funebre per la casalese Daniela Zanier, morta ieri nella sua casa di Rosignano Monferrato. Lascia il marito Gian Mario, le figlie Valentina, Adele ed Emma.
Daniela Zanier aveva 62 anni. Da cinque le era stato diagnosticato il mesotelioma. Un anno fa, in una intervista rilasciata a Claudio Carrer, direttore del giornale «Area» del sindacato svizzero Unia, aveva detto: «Ho maledetto Schmidheiny, sì, al momento della diagnosi l’ho maledetto. Io sono una vittima innocente. Non ho mai lavorato all’Eternit. Provo molta rabbia nei confronti di Schmidheiny. Se lo incontrassi, glielo direi: venga a vivere un po’ a Casale per capire che cosa è questa tragedia». E confidò di quanto la consapevolezza della diagnosi e le terapie incidono sull’umore quotidiano: «E’ dura – disse -, anche in famiglia. Io cerco di mascherare un po’, specialmente per le mie figlie». Al momento della diagnosi, la più giovane era poco più che adolescente. «Ho pregato per arrivare almeno fino ai suoi 18 anni…».
Della sua esperienza personale parlò anche il 24 maggio 2023 a Torino, al seminario «Amianto, la sorveglianza sanitaria e la cura. A che punto è la ricerca?», promosso dal Centro Interdipartimentale Giovanni Scansetti dell’Università degli Studi di Torino.
Pur consapevole che la lotta contro il mesotelioma è impari, ha tenuto duro. Se lo stato d’animo, dentro, scricchiolava, lo sguardo, fuori, mostrava sorridente il suo tenace attaccamento alla vita che ne ha segnato il passo ogni giorno. Non cantava, ma applaudiva entusiasta, assiduamente, ai concerti del Fuck Cancer Choir, il coro composto da medici e pazienti che la gridano in musica la loro maledizione al tumore, al mesotelioma in particolare.
Il funerale di Daniela Zanier si terrà domani, lunedì 4 marzo, alle 15, nella chiesa di Porta Milano. Un addio? Riporto qui lo stralcio di una riflessione semplice quanto profonda postata, nel suo profilo Fb, dalla casalese Alessandra Accornero. Scrive: «Per molti anni ho provato orrore all’idea della morte. La fine. E poi? Poi dove si va? Eh? Ma si va da qualche parte o si finisce in un buco nero infinito? Mi ponevo con questi interrogativi di fronte alla fine della vita. (…). Poi sono cresciuta ed un passettino dopo l’altro ho intrapreso e perseguito il mio cammino spirituale, ho fatto incontri illuminanti ma soprattutto ho fatto amicizia con Dio, l’ho interiorizzato, mi sono affidata a lui ed ho imparato a familiarizzare con quello che per me, ora, rappresenta solo un passaggio da uno stato ad un altro. Dalla vita ad un’altra vita. (…) Quel che ci resta, quando una persona amata se ne va, è il vuoto della sua assenza, delle ciabatte in bagno, che non saranno mai più calzate da quei piedi, di un post it appeso al frigo con su scritta la prossima data della visita dal dentista, di una Polaroid scattata al mare, di piccole infinite cose rimaste in sospeso e destinate a rimanerci. Ed è allora che mettersi nelle mani del Padre aiuta a trovare conforto. Percorso difficilissimo, perché siamo fatti di materia e da essa non riusciamo a staccarci. Ma vale la pena di provarci, credetemi. E quindi mia dolce Dany, amica mia, so che ora sei solo passata… di livello».
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Di seguito, invece, riporto la testimonianza che ho raccolto, parte nel 2004 e parte nel 2009, da Romana Blasotti Pavesi. E’ contenuta nel mio libro intitolato «Malapolvere», uscito, per Edizioni Sonda, il 10 dicembre 2010.
Sono nata in quel pezzo d’Italia che oggi si chiama Slovenia. Quando ci stavo io, con i miei genitori e le mie quattro sorelle, però, il posto si chiamava Salona d’Isonzo, vicino a Gorizia. Nel ’47, quando è diventata Jugoslavia, noi abbiamo deciso di venire via. È stata brutta, un dolore! Venirsene via, come profughi… no, non mi piace questa parola; siamo emigrati, ecco.
Ci siamo attraversati tutta la parte alta dell’Italia e siamo arrivati a Casale. Qui ci ha portato l’Eternit. Già a Salona mio padre, Ottavio Blasotti, lavorava all’Eternit, c’era uno stabilimento anche là. Salona si chiamava così dalla parola «salonit», un prodotto fatto di cemento e amianto. Anche mia madre – lei era slava, Augusta Marinic si chiamava – aveva lavorato un po’ nello stabilimento, ma poco poco. Il fratello di mio padre era già qui, in Piemonte, da qualche anno: si era trasferito un po’ dopo il ’40, mi pare.
Non è che sia stato proprio facile per mio padre entrare all’Eternit, ma, poi, qualcuno ha messo una buona parola ed è stato assunto. Io, mia madre e le due sorelle più grandi siamo andate a servizio. Ci si aggiustava come si poteva, non era facile a quei tempi, ma eravamo una bella famiglia unita, proprio una buona famiglia, e le difficoltà si superavano.
A diciotto anni ho conosciuto mio marito, Mario Pavesi. Stava a Casale Popolo e lavorava nella miniera dei Palli, a Coniolo. Eccolo, in quella foto appesa lì, ma in quest’altra… ecco, in questa qui… è anche più somigliante. Quello, invece, è il ritratto di mia sorella, l’ha dipinto il fratello di mio padre che era anche un po’ pittore.
Mario l’ho incontrato nell’aprile del ’48 e, a novembre, eravamo già sposati. Se dovessi tornare indietro, lo rifarei. Avevamo poco tutti e due, ma ci volevamo bene e, più di tutto, sì, più di tutto, c’era il rispetto. Così, più il tempo passava, più ci sentivamo uniti.
La famiglia è sempre stata importante: con i miei genitori e le mie sorelle, e poi con Mario, e con i nostri due fi gli, Ottavio e Maria Rosa, che sono nati nel ’49 e nel ’54. Eravamo andati ad abitare in via Setificio. Quando c’era stato il fallimento di Palli, Mario si era trovato senza lavoro, perché la miniera era stata chiusa.
Speravamo in un’assunzione all’Eternit, ma non era come dirlo, c’era la fila per entrare. Ci aiutò la maestra di Ottavio, suo marito era impiegato lì, non ricordo bene che ruolo avesse, ma stava negli uffici.
Mario entrò all’Eternit nel ’55, forse quello fu il periodo più pericoloso. Mah, chissà qual è stato il più pericoloso, chissà. E lui, per di più, lavorava in un settore balordo, umido, nelle vasche. Inoltre, un paio di anni dopo, ci eravamo trasferiti al Ronzone. Adesso, uno dice che era il posto peggiore che si potesse scegliere, ma come si poteva immaginare? Chi se lo poteva immaginare?
Io ci sono stata nello stabilimento, quando la bonifica era quasi finita, prima che la fabbrica venisse demolita e sotterrata. Ci sono andata, sì, perché volevo vedere com’era là dentro. Mi ha fatto impressione. Mi guardavo intorno tra quei muri alti, i finestroni con i vetri rotti, le scalette a chiocciola, strette e di ferro arrugginito, quei buchi nel pavimento. A me sembrava, ecco sì, mi sembrava lo scenario per un film dell’orrore. Tanti nostri uomini, e pure donne, hanno lavorato lì. Qualcuno mi ha anche fatto vedere: «Guarda dove lavorava tuo marito».
Mario è andato in pensione dopo diciassette anni all’Eternit. Aveva avuto un’emorragia al pancreas, era stato operato dal dottor Piana che era una gran brava persona e noi avevamo fiducia. La malattia grama, poi, si è manifestata nell’82, era febbraio, per la precisione. Mio marito aveva sentito un dolore al fi anco. Dapprincipio, abbiamo pensato a un reuma.
A quell’epoca di mesotelioma già si parlava, ma io ne ero piuttosto ignara. Mario, invece, probabilmente sapeva bene che cos’era, perché lui andava ad Alessandria, all’ospedale Borsalino, a trovare i suoi compagni di lavoro, che erano malati. Ma non me lo diceva, io l’ho saputo dopo. D’altronde, tra loro compagni di lavoro erano molto uniti. Il legame nasceva dentro la fabbrica, a condividere tante ore di quella vita balorda, e poi continuava anche fuori. C’era da sistemare la casa di uno o dell’altro? Si aiutavano: chi era capace a imbiancare, chi faceva lavori di falegnameria o di muratura, chi di elettricità, erano molto legati.
Visto che il dolore al fianco non passava ho insistito: «Mario, devi andare a farti vedere». Si è fatto visitare a Borgosesia e, lì, sono venute fuori quelle lastre dei polmoni belle bianche da una parte. Già prima gli avevano riconosciuto trentaquattro punti di polvere, ma, dopo quelle lastre, gli hanno subito dato il cento per cento di invalidità. Lo hanno sottoposto a biopsia, al Borsalino di Alessandria, e, a me, l’hanno detto subito: «Suo marito ha un tumore».
Ebbene, si potrà pure operare?, ho domandato io. Avevo fiducia, non è che si rimanga lì con le mani in mano senza tentare qualcosa. «No, signora, non c’è niente da fare» mi hanno risposto. Non riuscivo a immaginare di restare senza mio marito. Sì, certo, sono sempre stata forte di carattere, ma mi rendevo conto, d’improvviso, che ero forte perché inconsciamente sapevo di poter contare su di lui, sul suo parere, sulla sua autorevolezza.
Tra di noi del mesotelioma non abbiamo mai parlato. Mario faceva la chemio, prima ad Alessandria, al Borsalino, ma poi lì non ha più voluto andarci. Me lo ricordo, era un posto orribile, con degli stanzoni, nove letti per parte, e, a quei tempi, i pavimenti li pulivano con la segatura! Poi la chemio la faceva a Vercelli, ma i benefici duravano pochi giorni. Di male se n’è portato via tanto, anche perché la forma della sua malattia era «asciutta». E, tuttavia, aveva la speranza.
Chissà se lui lo pensava a quanto era grave. Esplicitamente non me l’ha mai detto, ma forse immaginava, perché di compagni di lavoro che sono morti ce n’erano. In più, qualcuno era anche andato a raccontargli di un collega dell’Eternit che era già alla fine e si era fatto portare in barella in tribunale per testimoniare al processo per le pensioni della polvere.
Mario è morto all’ospedale di Casale nel maggio 1983. Non aveva ancora 61 anni. È andato avanti per un anno e cinque mesi, dal momento in cui era stata fatta la diagnosi. I suoi compagni di lavoro volevano fargli una corona per il funerale, allora si usava, lo si faceva per tutti. Ma io ho chiesto che i soldi, invece che per i fiori, si offrissero per la ricerca. A quell’epoca, e sono passati più di vent’anni, avevano raccolto ottocentomila lire, era una bella cifra.
Ecco, ci sono dei giorni in cui mi sento giù, perché, dopo mio marito, me ne sono capitate ben altre, e mi sento un peso qui che non so neppure io che cosa fare. In altri giorni, invece, provo molta, molta rabbia. Possibile, mi dico, che si spendano tanti di quei soldi in un mare di sciocchezze, a partire dalle guerre, e non si possano impiegare per la ricerca? Bisogna investire lì, perché chi si ammala possa guarire. Invece, ci sono discordie pure tra i ricercatori e tra i medici, e la gente perde le speranze. E la vita. La ricerca, non mi stancherò mai di dirlo: ci vogliono soldi e buona volontà da impiegare nella ricerca.
È per combattere su questo fronte che ho accettato di fare la presidente dell’associazione «Famigliari Vittime dell’amianto». Quando me l’hanno chiesto, io ho obiettato: «Non ho delle competenze scientifiche per questo ruolo, ma se volete qualcuno che lotti io sono pronta». Ci siamo uniti, abbiamo combattuto. C’è chi dice che non si è fatto niente: non posso sentir dire queste cose. Non è vero. Forse si poteva fare di più, forse si poteva fare meglio, forse si poteva fare diverso. Oh, anch’io preferirei che tutto fosse già bell’e bonificato. Ma si poteva pretendere di fare tutto in fretta senza sapere se poteva essere anche più pericoloso?
Non ci siamo mai tirati indietro e, intanto, la legge che vieta l’amianto in tutt’Italia non è forse partita da qui? Purtroppo, però, ci si ammala ancora, e si muore ancora.
Pochi anni dopo la morte di mio marito – che io, all’inizio, era come se non fossi più capace a camminare con le mie gambe, poi i fi gli mi hanno dato una spinta psicologica -, dopo la morte di Mario, dicevo, si è ammalata mia sorella Libera, due anni più giovane di me. All’inizio, pareva che avesse qualche problema all’utero, poi, dalle visite, è emerso che c’era dell’altro. Lei fumava anche tanto! Pure mio marito fumava, ma meno, e, comunque, quando gli è venuto fuori il male aveva smesso già da vent’anni.
Mia sorella Libera era una donna molto forte, ha voluto sapere tutto fin dal primo giorno ed è andata avanti un anno e mezzo, con molto coraggio. È mancata che aveva 59 anni, nel 1990. Poi c’è stato mio nipote, e il cugino di quello stesso nipote. Insomma, io non pensavo che potessero ancora capitarmene, anche se, a dire il vero, ogni volta che sento di un caso, è come se fosse uno della mia famiglia. Un dolore forte e una grande amarezza mi prende, e quella rabbia, tanta rabbia perché non si fa abbastanza per scoprire la cura giusta.
Quando ho saputo che anche mia figlia (Maria Rosa Pavesi, morta a 50 anni, nel 2004, ndr) si è ammalata, non mi sembrava vero. Era l’ultimo pensiero che mi poteva sfiorare. Avevo immaginato di aver già pagato un grosso prezzo. Mi piace guardare la sua fotografia. È come il quadro famoso, quello della Gioconda: se la osservo da un lato, Maria Rosa mi sorride, se la osservo dall’altro è arrabbiata. I suoi capelli… aveva proprio dei bei capelli, per fortuna la chemio non gliel’ha portati via. Aveva sempre il fiato corto, gli ultimi quarantasette giorni li ha passati con l’ossigeno vicino.
Una sera, che eravamo lei e io da sole: «Mamma, mi ha domandato, che dici? Per quanto ne ho ancora?». Che cosa rispondi a una fi glia ancor giovane che ti parla così? In silenzio, penetri i tuoi occhi nei suoi occhi e ne raccogli smarrimento e speranza.
Eppure, a ben pensarci, nonostante tutto, sento di essere stata fortunata: nell’infanzia, nella mia famiglia di origine e in quella che ho formato da adulta. Fortunata per il bene che ci siamo voluti, per il rispetto che ci siamo scambiati. Ho dei ricordi molto cari… fanno una compagnia bellissima i ricordi…
Tuttavia, certi giorni mi sento proprio giù. E, poi, mi riprende questa rabbia. Non mi stancherò mai di dirlo, fosse il soffio del mio ultimo respiro: si faccia di più perché la ricerca dia una risposta di speranza, di guarigione. Non è per pietà che lo chiedo, ma è per giustizia. Sì, è per giustizia. La giustizia che mi aspetto anche dal processo di Torino ai padroni dell’Eternit. Vorrei guardarli negli occhi, soprattutto lo svizzero, che ha avuto la faccia tosta di buttare lì un’offerta in denaro per levarsi via dal processo e dalla coscienza un po’ di parti civili. Vorrei guardarlo negli occhi, almeno una volta, se avrà il coraggio di presentarsi al processo, per domandargli: perché ha fatto questo, perché? Non si può andare a lavorare e morire, non si può passeggiare per la città e morire. Né rancore né pietà, ma una cosa la vorrei: che i responsabili di questo disastro, che ancora continua a ucciderci, si trovino a dover assistere una persona cara con il mesotelioma dall’inizio alla fine della malattia.
I tuoi scritti, come i tuoi meravigliosi libri, riescono sempre suscitarmi emozioni : commozione, tristezza , nostalgia a volte allegria . Comunque riesci a stimolare noi lettori ad attivare il nostro animo , diventando compartecipi alla tua narrativa . Grazie Silvana , un abbraccio
Non riesco a dire altro. Provo solo rabbia e rassegnazione.
Bellissimo racconto . Triste ma vero! Giustizia sia fatta per quanti hanno sofferto e ora no ci sono più e per quanti ancora lottano contro questo mostro incurabile! Una preghiera un ricordo e ancora preghiere per loro e per chi è rimasto . Grazie Silvana
Tanto commovente, quanto triste…
Graziemille Silvana! Ad ogni analisi seria,come questa, inerente l’enorme e tristissima tragedia provocata dall’amianto criminale, si rinnova l’esigenza, non scontata,
di “non mollare”, Lo diceva sempre la Romana durante la lunga lotta della nostra “vertenza amianto”, che ha visto la partecipazione attiva ed eccezionale della nostra comunita. Ciao Daniela. Forza Romana.
Mi si spezza il cuore, questi racconti li conosco e parzialmente li ho vissuti specialmente con Romana e Mari Rosa ,che è stata la mia cara e inseparabile amica da sempre. Ora Daniela , anche lei una donna speciale, coraggiosa e con tante speranze e tanta voglia di vivere. Tutte queste vicende assommate alla malattia e poi al decesso di mio marito Giovanni mi sfiniscono, vorrei vedere una fine a questo strazio ma purtroppo non è così. Proprio qualche giorno fa ad un’altra cara amica hanno diagnosticato la”bestia” il mesotelioma pleurico. Vorrei giustizia per queste morti innocenti e vorrei poter assistere alla fine di questa maledetta strage