AL VIA L’ARRINGA DIFENSIVA IN ASSISE – I LEGALI ADDOSSANO LE ACCUSE AI MANAGER: «SE C’ERA POLVERE, NON ERA COLPA DELL’IMPRENDITORE SVIZZERO, MA DEI DIRIGENTI DELLO STABILIMENTO CHE DOVEVANO OCCUPARSI DELLA MANUTENZIONE» – «I RISARCIMENTI NON SONO DOVUTI»
SILVANA MOSSANO
Reportage udienza 10 marzo 2023
«Stephan Schmidheiny non ha mai gestito direttamente gli stabilimenti italiani. Lui e i manager di vertice del gruppo svizzero hanno esercitato il potere di direzione e coordinamento che spetta ai vertici di gruppo». L’avvocato Astolfo Di Amato (difensore dell’imprenditore svizzero nel processo Eternit Bis, in Corte d’Assise a Novara) scandisce le parole a conclusione della prima parte dell’arringa, esposta nell’udienza di venerdì 10 marzo.
La seconda parte verrà illustrata dal collega Guido Carlo Alleva mercoledì 29 marzo.
Quindi, Stephan Schmideiny, come «vertice di un gruppo di società che contava sessanta stabilimenti in tutto il mondo», ha adottato «scelte strategiche» quali: «continuare la produzione in attesa di trovare adeguati sostituti (alternativi all’amianto, ndr), informare i vertici delle società del gruppo delle problematiche concernenti la salute, fornire agli stabilimenti italiani le risorse per una lavorazione sicura dell’amianto, creare un apparato di tutela della salute e dell’ambiente» con un collegamento tra il Centro scientifico di Neuss («una struttura altamente qualificata, avveniristica a quell’epoca») guidato da Klaus Robock («scienziato sul quale – lamenta l’avvocato – si è ingiustamente ironizzato, mentre le sue pubblicazioni specialistiche sono tutt’ora un caposaldo») e gli organismi tecnici come il Copae e il Sil incaricati della gestione dei problemi di sicurezza.
La determinazione del ruolo di Schmidheiny è uno degli aspetti cruciali del processo.
Se documenti e testimonianze, richiamati dai pubblici ministeri Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare, evidenziano che comunque nella fabbrica (e fuori) c’era polverosità diffusa, la difesa allarga le mani: colpa di cattiva manutenzione che, però, rientrava nella gestione concreta e quotidiana di cui erano responsabili i manager italiani (per inciso, ormai morti).
LA PREMESSA
L’avvocato Di Amato ha parlato complessivamente circa quattro ore, argomentando, da seduto, oltre duecento slides.
Ma, per illustrare la premessa, è rimasto rispettosamente in piedi: «Questo – ha esordito con tono sommesso – è un processo che ha per oggetto una grande tragedia passata e ancora in atto. E’ stato addirittura evocato l’Olocausto…». Poi ha ripreso le parole del pm Colace: «Il pubblico ministero ha sottolineato la grande compostezza della gente di Casale. Confermo: sono persone meravigliose, con una ricchissima umanità». Pertanto, «noi (usa il plurale maiestatico per indicare la posizione condivisa dell’imputato e difensore) siamo in questo processo con commozione sincera e profondo rispetto per le persone di Casale».
Come collegare la tragedia (nel capo d’accusa sono elencati 392 nomi di persone morte di mesotelioma) all’imputato?
L’avvocato Di Amato ritiene che «il modo per equilibrare una tragedia non sia quello di commettere un’ingiustizia, cercando un colpevole a ogni costo e condannando un innocente».
In questo esordio è già esplicita la conclusione cui punta la difesa: l’assoluzione di Stephan Schmidheiny ritenuto innocente.
CHI ERA SCHMIDHEINY
«Che cosa ci proponiamo di dimostrare?». Il difensore si siede, usa parole semplici soprattutto a beneficio dei giudici popolari, le slides cominciano a scorrere sul maxischermo.
Si propone di dimostrare che «Stephan Schmidheiny, nel suo ruolo di vertice del gruppo, tenendo conto delle conoscenze dell’epoca, ha agito in modo avveduto e prudente, non ispirato alla logica del profitto e ha dato al suo gruppo il messaggio di tutelare la salute e l’ambiente».
Tesi esattamente contraria a quella delle accuse mosse nei confronti dell’imputato dalla procura e dalle parti civili.
L’avvocato sottolinea più volte che «molte convinzioni ritenute valide all’epoca dei fatti non sono più oggi comunemente accettate, ma dobbiamo superare la tentazione di leggere i fatti di ieri con le conoscenze di oggi».
Ragionamento che, per inciso, quando si affronta il tema delle diagnosi di mesotelioma viene invece capovolto proprio dalla difesa, la quale, infatti, con i propri consulenti, non riconosce come certe le diagnosi se non sono sorrette dai più attuali marcatori dell’immunoistochimica, tecnica diagnostica recente.
(Questo è solo un appunto di metodo; le diagnosi non sono tema di questa parte dell’arringa).
LE CONDIZIONI DELLA FABBRICA
Quello di Casale era uno «stabilimento modello», ha sottolineato il difensore.
Spiega che «già dal 1971 (periodo in cui era ancora predominante la presenza belga, rispetto a quella svizzera, ndr) si erano fatti investimenti per macchine e impianti, determinando un contenimento dell’esposizione all’amianto»; quegli interventi, secondo la difesa, «hanno avuto una grossa influenza sull’abbattimento delle fibre».
Eppure, Otmar Wey, direttore tecnico del gruppo Eternit, parlava di situazione «catastrofale». «Sì – spiega il professor Di Amato -, ma solo perché nello stabilimento casalese le fibre nell’aria erano di 2 o 3 volte superiori allo standard degli stabilimenti del Gruppo Svizzero». L’avvocato replica alle parole del pm Colace (aveva detto che la situazione «catastrofale era e catasfrofale è rimasta») e del teste Nicola Pondrano (aveva paragonato la fabbrica a un «girone dantesco») mostrando due foto a confronto: una è tratta da un filmato «Luce» e l’altra evidenzia il dettaglio di un macchinario ben più moderno rispetto ai vecchi forconi con cui si movimentava l’amianto alle molazze negli anni Venti, Trenta.
Non solo: Di Amato richiama documenti anche di enti pubblici, tra cui uno dell’Ispettorato del Lavoro che attesta, dal 1974 in poi, la trasformazione della lavorazione da secco a umido e con ciclo chiuso. E cita pure Carlo Castelli (prima commissario giudiziale nel concordato preventivo, poi curatore nel fallimento della Holding Eternit spa, mentre il curatore della Industria Eternit Casale Monferrato spa fu Alfio Lamanna) che aveva descritto, in una relazione dell’85, «la presenza nello stabilimento di taluni impianti di aspirazione», aggiungendo, però che «sembra sia la manutenzione a venire meno». Manutenzione di cui la difesa respinge una diretta responsabilità dell’imputato perché «non era sua la gestione diretta degli stabilimenti italiani».
Di Amato menziona altri documenti e perizie, per affermare, ad esempio, che gli aspiratori c’erano. Secondo i calcoli dell’ingegner Giuseppe Nano (ct della difesa), catturavano «4730 metri cubi di aria al minuto» all’interno della fabbrica, catturavano, cioè, 4730 metri cubi di aria infetta di fibre d’amianto. E quindi? Quindi, in base alla tesi difensiva, i ventoloni posizionati sulle pareti della fabbrica non sarebbero serviti a buttar fuori dall’ambiente di lavoro l’aria impregnata di polveri (dato che veniva già captata dagli aspiratori), ma avrebbero avuto una funzione esattamente contraria: ossia sarebbero serviti «a sostituire l’aria», prelevandone dall’esterno per sostituire quella interna che gli impianti di aspirazione risucchiavano. Se i ventoloni non avessero immesso altra aria (da fuori a dentro), dice Di Amato, i lavoratori nello stabilimento non avrebbero potuto respirare.
INVESTIMENTI
Il difensore ha insistito molto sui «significativi investimenti» effettuati nel periodo svizzero, e in particolare quello in capo a Stephan Schmidheiny, «volti a tutelare la salute dei lavoratori e dell’ambiente circostante».
Il tema degli investimenti è stato ampiamente discusso. Di Amato ha ripetutamente contestato il ct della procura, Paolo Rivella, circa la consistenza da lui ricostruita dei flussi finanziari che il Gruppo Svizzero destinò agli stabilimenti italiani, ben diversa dagli importi superiori rilevati dagli esperti della difesa.
Anche a voler prendere in considerazione la cifra più contenuta emersa al processo, cioè 33 miliardi di lire in quegli anni, Di Amato li equipara a 700 milioni di euro attuali.
L’avvocato ha stigmatizzato anche le interpretazioni attribuite da Rivella agli investimenti: per il ct della procura solo in minima parte utilizzati per la sicurezza; al contrario, per la difesa in misura sufficiente a ottenere abbattimenti delle polveri ragguardevoli secondo i parametri dell’epoca.
Appunto: per l’epoca. Il professore insiste sul fattore temporale.
Si sofferma sul pluricitato scienziato Irving Selikoff che, nel 1964 all’Accademia delle Scienze di New York, lanciò l’appello sulla cancerogenicità dell’amianto. «Ma, anni dopo, nel 1979 le sue certezze non erano più così granitiche: ammetteva che esistevano ancora delle controversie nel mondo scientifico».
Merita precisare che i dubbi di Selikoff cui si riferisce il difensore riguardavano il crisotilo o amianto bianco, non la crocidolite (cioè il più pericoloso amianto blu), di cui, tra l’altro si faceva ampio uso all’Eternit perché impiegato soprattutto nella produzione delle tubazioni.
Il professore cita pure studi di coorte negli anni Ottanta che, in base alle valutazioni dei propri consulenti, non produssero risultati del tutto chiari ed esaustivi sui reali rischi dell’amianto. La certezza, dice Di Amato, si ebbe solo nel 1997, «al Consensus di Helsinki quando la comunità scientifica internazionale ha raggiunto un accordo sulla impossibilità di usare l’amianto in modo sicuro».
Tuttavia, Di Amato ammette, anzi evidenzia che effettivamente si cercavano materiali alternativi all’amianto.
Secondo la testimonianza del sindaco Riccardo Coppo, che se l’era sentita ripetere più volte questa prospettiva dei prodotti alternativi, era solo un modo per tirare in lungo e «prenderci in giro».
In realtà, in Italia l’ultimo amministratore delegato, Leo Mittelholzer, negli anni Ottanta aveva avuto incarico di incontrare i piccoli produttori concorrenti per proporre e concordare la dismissione dell’amianto sostituendolo con altri materiali. Era da fare tutti insieme però; quelli non avevano voluto, perché non era conveniente, e l’Eternit, per non subire gli effetti della concorrenza, in Italia aveva continuato come prima.
In Italia, pertanto, no materiali alternativi, mentre negli stabilimenti Eternit di altri Paesi erano stati adottati. Con che risultati? Il professor Di Amato evoca la testimonianza, rilasciata a maggio 2010 nel maxiprocesso Eternit 1, dall’ingegnere Silvano Benitti, ex dirigente Eternit: «C’era molto scetticismo. Le lastre realizzate con materiale sostitutivo dopo 7 o 8 anni si screpolavano ed erano tutte da buttare via!».
Be’, ma allora… Il ct della difesa Claudio Colosio, nell’udienza del 21 novembre scorso, della solidità delle lastre di amianto ha detto anche peggio; testualmente: «Il deterioramento delle coperture cominciava già dopo alcuni mesi dall’installazione»!
Torniamo all’udienza di venerdì 10 marzo. Insistendo sull’importanza delle conoscenze dell’epoca, il difensore cita pure Aristotele: «Il filosofo greco pensava che la Terra fosse fissa al centro dell’Universo: questo era quello che si sapeva ai suoi tempi. Ma mica per questo adesso noi diciamo che Aristotele era ignorante!».
No di certo. E, per Di Amato, l’esempio di Aristotele calza con il contesto in cui si muoveva Stephan Schmidheiny: a suo parere, in base a quelle che erano le conoscenze dell’epoca, l’imprenditore svizzero ha fatto molto di più, ai fini della sicurezza, di quello che facevano altri concorrenti del settore.
Ha fatto molto a partire da Neuss.
CONVEGNO DI NEUSS
Se n’è parlato molte volte al processo, perché è un momento storico di questa vicenda. Stephan Schmidhieny aveva da poco preso le redini del settore amianto, uno dei campi imprenditoriali in cui era presente, nel mondo, la potente famiglia svizzera. A giugno 1976 convocò i dirigenti di massimo livello, «da tutto il mondo» puntualizza il difensore, «non soltanto quelli italiani»: questo per rimarcare che il suo era un ruolo di indirizzo, non di gestione diretta nei singoli stabilimenti.
E che cosa disse a Neuss?
Ora, al processo abbiamo ascoltato e visto proiettati verbali e corrispondenze riservate in cui le parole di Schmidheiny, pronunciate in quella occasione, furono di questo tenore: «La situazione attuale è una sfida che va a toccare l’eterno problema esistenziale: “Essere o non essere” (to be or not to be)». E ancora: «Dobbiamo renderci conto di una cosa: noi possiamo, anzi dobbiamo convivere con questo problema». In che modo? «Assicurare all’industria amianto-cemento la possibilità di esistere per mezzo di una organizzazione ottimale della tutela del lavoro e dell’ambiente seguendo le norme interne». «Questi tre giorni sono stati determinanti per i direttori tecnici i quali sono rimasti scioccati (nell’apprendere da Schmidheiny stesso le gravissime ripercussioni dell’amianto sulla salute, ndr). Non deve succedere la stessa cosa ai lavoratori». «Dobbiamo reagire in maniera decisa (agli attacchi contro l’amianto, ndr) e combattere con tutti i nostri mezzi».
Il difensore, invece, propone una ricostruzione diversa della condotta dell’imputato al convegno del 1976. Sostiene che Schmidheiny insistette per «un cambiamento nell’atteggiamento e nella mentalità di tutti i collaboratori, ma soprattutto di tutte le alte dirigenze dell’azienda»: era importante, cioè, che «la tutela del lavoro e dell’ambiente diventasse cosa ovvia come lo sono le norme di produzione e di qualità».
Ma chi era che doveva essere adeguatamente informato dei rischi provocati dall’amianto, peraltro illustrati dall’imprenditore a Neuss in tutta la loro gravità, pur secondo le conoscenze dell’epoca? Chi avrebbe dovuto essere messo a conoscenza del pericolo per poter cambiare atteggiamento e mentalità da lì in poi? Ok, i massimi dirigenti, ma, da quanto emerso al processo, i lavoratori, cioè i primi e diretti esposti all’amianto, non furono informati. A parte il foglietto, infilato una volta nella busta paga, su cui era scritto che il fumo fa male (e neppure era scritto che il fumo, associato all’amianto, aumenta il rischio di ammalarsi, che sarebbe stata una informazione utile e corretta).
La strategia comunicativa, successiva alla «tre giorni» di Neuss, fu Auls 76, messo a punto pochi mesi dopo: era una sorta di prontuario in cui erano elencate in dettaglio diverse ipotesi di circostanze critiche con le relative risposte che andavano date a seconda di chi poneva domande sull’amianto e sulla sua pericolosità.
AULS 76
Per la procura era il «manuale della disinformazione».
La visione che ne propone il difensore è ben diversa. Di Amato spiega, intanto, che «Auls 76 non ha alcun riferimento a una corretta gestione degli stabilimenti italiani. E’ stato invece lo strumento, a parere della difesa, «affinché tutti i dipendenti, tutti i clienti, le autorità, i sindacati fossero informati nel modo più adeguato e senza preconcetti sui rischi potenziali nei confronti della salute, rischi dovuti all’amianto». Secondo Di Amato, lo scopo di Auls 76 fu quello di «ipotizzare una serie di situazioni astratte in cui potrebbero venirsi a trovare i dirigenti degli stabilimenti Eternit, sparsi nel mondo, a seguito di accuse di privati, di vicini, di richieste di lavoratori in relazione alla diffusione delle polveri di amianto e alla loro pericolosità».
Alcuni esempi di domande e risposte («in astratto») contenuti in Auls 76 erano stati richiamati dall’avvocato Maurizio Riverditi all’udienza del 27 febbraio.
ESEMPIO DI DOMANDE&RISPOSTE IN AULS 76: 1 «Perché fino ad ora avete negato l’esistenza di questo pericolo?, «In realtà il rischio non era noto fino a pochi anni fa»; 2 «Cosa fate per proteggere i vostri lavoratori?», «Speciali abiti da lavoro vengono messi a disposizione (…), lasciati in fabbrica e la società si impegna ad eseguire la pulizia»; 3 «Cosa fate per proteggere i famigliari dei vostri lavoratori?», «Non c’è alcun pericolo per le famiglie»; 4 «E il pericolo per chi vive nei pressi dello stabilimento?», «Può essere esclusa in maniera assoluta l’esistenza di tale pericolo»; 5 «Perché usate ancora l’amianto blu che è particolarmente dannoso?», «Non ci sono dati scientifici che lo provino»; 6 «Non sarebbe più sicuro ed efficace bandire i prodotti di amianto-cemento?», «Può essere considerato senz’altro un materiale non pericoloso».
Ma per il professor Di Amato Auls 76 semplicemente «individua le linee guida a cui i dirigenti sono invitati ad attenersi quando vengono a trovarsi nelle situazioni descritte».
Parlando sempre in astratto, la spiegazione del difensore mira a dimostrare una logica coerenza con il ruolo proprio del «vertice di gruppo».
Nella realtà concreta, bisogna andarlo a stanare (e pescarlo) quel dirigente di stabilimento – «effettivo gestore» – che, trovandosi in una di quelle ipotetiche situazioni, si azzarda a pronunciare parole diverse da quanto suggerito con precisione nel manuale proveniente dal «vertice di gruppo», alias Schmidheiny!
DIRE E NON DIRE
Sulle strategie di nascondimento e di mistificazione di cui i pm Colace e Compare (e non di meno i legali di parte civile) accusano l’imputato, il difensore tira una linea nera. «Nessuna segretezza da parte dell’odierno imputato. Non c’era nulla da nascondere».
E le lettere tra Schmidheiny e l’amministratore delegato Luigi Giannitrapani? Va bene, erano riservate, ci sta; ma perché arrivavano a una casella postale segreta a Genova? «Una circostanza totalmente irrilevante» afferma Di Amato. La spiegazione viene ancorata al particolare momento storico. «A Genova (dove aveva la sede legale la Eternit spa italiana, ndr), c’era stato il sequestro del sostituto procuratore generale Mario Sossi e, proprio nel 1976, il terrorista Mario Moretti aveva costituito la colonna genovese delle Brigate Rosse. Perciò è plausibile che la corrispondenza con il giovane figlio del proprietario di un gruppo multinazionale non passasse attraverso i normali canali comunicativi e che l’esistenza stessa di Stephan Schmidheiny fosse mantenuta riservata».
E il professionista della comunicazione Guido Bellodi? E il Manuale denominato con il suo stesso nome: Manuale Bellodi?
Bellodi «era stato ingaggiato nel 1983 per evitare (nella comunicazione sui media, ndr) uno scandalo finanziario, a causa della situazione di insolvenza della società Eternit che sarebbe poi sfociata nel fallimento del 1986».
Ma secondo Di Amato «l’agenzia di comunicazione ha venduto per oltre vent’anni (1983-2003?, ndr) il niente: il proprio silenzio».
Dal momento, tuttavia, che Bellodi medesimo scrisse a Schmidheiny compiacendosi dei risultati raggiunti con la propria attività, forse era proprio il prezioso silenzio il frutto del lavoro di comunicazione su cui si erano accordati e che il professionista milanese aveva «venduto». Altrimenti, come spiegare che Bellodi è stato pagato congruamente e per molti anni dal vertice svizzero? E il professionista, tra l’altro, ha pure saldato regolarmente le parcelle delle «antenne» ingaggiate nei territori di interesse: non di tasca propria, si immagina.
Il difensore insiste, tuttavia, che non c’era motivo di nascondere alcunché perché era noto il ruolo dell’imprenditore quale vertice del Gruppo Svizzero: sullo schermo proietta, ad esempio, la lettera che il sindaco Coppo scrisse, nel 1985, proprio a Schmidheiny (lamentando la situazione dello stabilimento di Casale e chiedendo conto del promesso trasferimento della fabbrica), e inviò, per conoscenza, alla prefettura e ai sindacati. Di Amato non si sofferma sul contenuto della lettera; il suo scopo è quello di dimostrare che, oltre al sindaco, anche il prefetto e i sindacati, almeno da quel momento, dovevano ben sapere chi era Schmidheiny: il difensore tende, cioè, a respingere la tesi di un’attività di comunicazione finalizzata a celare artatamente la figura del patron del gruppo.
USI IMPROPRI E D’ANNA
Come i pm avevano punzecchiato alcuni consulenti delle difese accusandoli di «aver fatto un po’ scempio della logica e della realtà», la risposta dell’avvocato Di Amato non si è fatta attendere. Non sono mancate le contestazioni ad alcuni degli esperti della procura (tra cui soprattutto Rivella, oltre che Dianzani, Magnani, Mirabelli e altri) e la ferma difesa al lavoro svolto dal proprio consulente Andrea D’Anna, docente all’Università di Napoli: «Per la prima volta, ha messo adeguatamente in rilievo il grado di inquinamento, con conseguente pericolo per la salute pubblica, causato dall’amplissima disseminazione di amianto (il difensore si riferisce ai cosiddetti usi impropri: polverino, in primis, ndr) verificatasi nei settant’anni precedenti all’assunzione di responsabilità dell’Eternit da parte di Stephan Schmdiheniy». A D’Anna era stata contestata dal pm una «caduta di stile» quando aveva puntato il dito su una tegola rotta quale ipotizzato passaggio di fibre di amianto, in realtà la tegola era stata rotta appositamente dai tecnici dell’Arpa per effettuare un campionamento. «Nessuna caduta di stile – ha replicato Di Amato -, caso mai è la dimostrazione che i tetti non erano a tenuta stagna».
Effettivamente, se uno li spacca, no.
A CHI SI FA IL PROCESSO?
«Qui si è fatto, da parte della procura, più un processo a carico del “Sig. Amianto” o del “Sig. Eternit” piuttosto che a carico di Stephan Schmidheny» afferma il difensore. E aggiunge: «Se si abbandonano i pregiudizi, si deve rilevare che Schmidheiny, all’epoca ventinovenne, laureato in legge e con un retroterra culturale su cui aveva influito il movimento del ‘68 che egli aveva vissuto a Roma, ha approcciato il tema salute e amianto in modo assolutamente innovativo e davvero centrato sulla preoccupazione di proteggere i lavoratori e l’ambiente».
Qui è indispensabile una riflessione di chi scrive. E la riproposizione di una sollecitazione a Stephan Schmidheiny. Posto che fosse questo il suo obbiettivo – proteggere lavoratori e ambiente -, e visto che, per svariati motivi, non è andata così (tanti, purtroppo, sono morti e tanti, purtroppo, continuano ad ammalarsi), perché, signor Schmidheiny, non si impegna a mettere riparo al drammatico stillicidio in atto, di cui l’amianto è causa? Lo faccia ora, signor Schmidheiny: finanziando e guidando – non solo da «vertice di gruppo», ma da effettivo «gestore diretto» – un’attività di ricerca mondiale affinché i migliori scienziati che lei sceglierà trovino la cura per far cessare la tragedia che si abbatte su questa comunità (e non solo) fatta di «persone meravigliose».
RISARCIMENTI
Il difensore respinge, infine, tutte le richieste di risarcimento.
«Per quanto riguarda le persone fisiche e le associazioni, va osservato che le richieste di danni si riferiscono alla violazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro con conseguente morte di cittadini e residenti. Si tratta di un fatto che è già stato oggetto di giudizio nel processo Eternit 1 e rispetto al quale si è già consolidata la prescrizione». Inoltre, a suo parere «manca agli atti la prova dell’esistenza dei danni reclamati».
Pure per quanto riguarda le richieste dei sindacati e dell’Inail, vale la già intervenuta prescrizione.
Richiama la prescrizione anche per le istanze di risarcimento avanzate dagli enti territoriali (Comuni, Provincia, Regione e Stato). In più, «relativamente al danno ambientale – osserva il difensore – le schede Arpa indicano che le bonifiche hanno riguardato sia le tegole di cemento-amianto sia i siti inquinati dall’uso improprio di materiali contenenti amianto, uso improprio – insiste il professore – avvenuto quasi esclusivamente in epoca anteriore al periodo di riferimento di Stephan Schmidheiny». Conclude, pertanto che «non si comprende a che titolo l’imputato dovrebbe essere chiamato a risarcire danni derivanti da condotte tenutesi in epoca precedente o i costi necessari a rimuovere i tetti il cui utilizzo era pienamente legittimo (fino al 1992) e di cui non si sa se siano stati prodotti dall’Eternit».
L’osservazione del professor Di Amato sarà esaminata dalla Corte che valuterà eventuali distinguo; quel che è certo, però, è che restano di paternità certa lo stabilimento abbandonato in quelle condizioni («sacchi debordanti amianto, vetri rotti…» aveva esemplificato l’avvocato Esther Gatti che tutela il Comune di Casale, ndr), l’area di frantumazione a cielo aperto, il canale e la spiaggetta, la discarica sul Po, i magazzini. Tutto questo è stato bonificato a spese – economiche oltre che di salute e morali – della collettività.
* * *
Translation by Vicky Franzinetti
Eternit Bis, the defence: ‘Schmidheiny wanted to protect workers and the environment’.
The DEFENSE at the court of assize – lawyers overturn accusations: ‘If there was dust, it was not the fault of the Swiss contractor, but of the plant managers who were supposed to be in charge of maintenance’ – ‘no compensation is due’.
By Silvana Mossano
March the 10th , 2023 Eternit bis
“Stephan Schmidheiny never managed the Italian plants in person. He and the top managers of the Swiss group directed and coordinated, a task that belongs to the group’s top management.” Lawyer Astolfo Di Amato (defender of the Swiss businessman in the Eternit Bis trial in the Novara Court of Assizes) spells out his words at the conclusion of the first part of his argument, delivered at the hearing on Friday, March the 10th.
The second part of the arguments will be illustrated by Guido Carlo Alleva on Wednesday, March the 29th .
Thus, Stephan Schmideiny, as the “head of a group of companies that had sixty plants worldwide,” made “strategic choices” such as: “continue production while waiting to find suitable substitutes (alternatives to asbestos, ed.), inform the top management of the group companies of issues concerning health, provide the Italian plants with resources for safe asbestos processing, and create an apparatus to protect health and the environment” with a liaison between the Neuss Science Centre (“a highly qualified facility , futuristic at the time“) headed by Klaus Robock (“a scientist who,” the lawyer complains, “has been unfairly mocked, while his specialized publications are still a cornerstone“) and technical bodies such as Copae and Sil charged with handling safety issues.
Determining Schmidheiny’s role is one of the crucial features of the trial.
If documents and witnesses, recalled by prosecutors Drs Gianfranco Colace and Mariagiovanna Compare, point out that in any case there was widespread dustiness in the factory (and outside), the defence counters: it’s the fault of poor maintenance, which, however, was part of the daily management for which Italian managers (incidentally, now dead) were responsible.
Attorney Di Amato spoke for about four hours, arguing from a seated position over two hundred slides. But, to illustrate the premise, he stood respectfully: “This,” he began in a hushed tone, “is a trial about a great tragedy that is past and still ongoing. The Holocaust has even been evoked….” He then echoed the words of PP Colace: “The prosecutor stressed the great composure of the people of Casale. I can confirm they are wonderful people, with a very rich humanity.” Therefore, “we (he uses the plural to indicate the shared position of the defendant and defence counsel) are in this trial with sincere emotion and deep respect for the people of Casale.”
How to link the tragedy (the indictment lists 392 names of people who died of mesothelioma) to the defendant?
Attorney Di Amato believes that “the way to balance a tragedy is not to commit injustice by looking for a culprit at any cost and convicting an innocent person.”
The conclusion to which the defence is pointing is only too clear: the acquittal of Stephan Schmidheiny, who was found innocent.
WHO WAS SCHMIDHEINY
“What do we intend to prove?” The lawyer sits down, uses simple words mainly for the benefit of the members of the jury, and the slides begin to appear on the big screen.
“Stephan Schmidheiny, in his role as head of the group, taking into account the knowledge of the time, acted in a prudent manner, not inspired by the logic of profit, and gave his group the message of protecting health and the environment.“
This is the exact opposite to the charges brought against the defendant by the prosecution and plaintiffs. The lawyer repeatedly points out that “many beliefs held valid at the time of the events are no longer commonly accepted today, but we must overcome the temptation to read yesterday’s facts with today’s knowledge.” Reasoning that, incidentally, says the writer, when addressing the issue of mesothelioma diagnoses is instead reversed by the very defence, when its consultants, failed to accept that certain diagnoses are not valid if they are not supported by the most current immunohistochemistry markers of, a recent diagnostic technique.
PLANT CONDITIONS
Casale’s was a “model plant,” the defender stressed. He explained that “as early as 1971 (a period when the Belgian presence was still predominant, as opposed to the Swiss one, ed.) investments had been made in machinery and equipment, leading to a containment of asbestos exposure“; those interventions, according to the defence, “had a big influence on fibre abatement.” Yet, Otmar Wey, technical director of the Eternit Group, spoke of a “catastrophic” situation. “Yes,” Professor Di Amato explains, “but only because in the Casale plant the fibres in the air were 2 or 3 times higher than the standard of the Swiss Group’s plants. The lawyer retorts to the words of Prosecutor Colace (he had said that the situation ” was and is catastrophic “) and witness Nicola Pondrano (who compared the factory to Dante’s Inferno) by showing two photos for comparison: one is taken from a “Luce” film and the other highlights the detail of a much more modern piece of machinery than the old pitchforks used to handle asbestos at the grinding wheels in the 1920s, 1930s. Not only that: Di Amato also recalls documents from public bodies, including one from the Labour Inspectorate that attests to the transformation of processing from dry to wet and with a closed cycle from 1974 onward. And he also mentions Carlo Castelli (first judicial commissioner for creditors, then receiver in the bankruptcy of Holding Eternit spa, while Alfio Lamanna was the receiver of Industria Eternit Casale Monferrato spa) who, in a report from ’85, had described “the presence in the plant of certain suction systems,” adding, however, that “it seems to be the maintenance that is lacking.” Maintenance criticisms for which the defence rejects a direct responsibility of the defendant because “he did not manage the Italian plants directly.”
Di Amato mentioned other documents and expert reports to state, for example, stating that there were exhaust fans. According to calculations by engineer Giuseppe Nano (defence expert witness), they were absorbing “4,730 cubic meters of air per minute” inside the plant, capturing, that is, 4,730 cubic meters of air infected with asbestos fibres. So what? So, according to the defence argument, the fans placed on the walls of the factory would not have served to spew dust-impregnated air out of the work environment (since it was already being captured by the exhaust fans), but would have had exactly the opposite function: that is, they would have served “to replace air,” taking air from the outside to replace the inside air that the exhaust systems were sucking in. If the fans had not injected more air (from outside to inside), Di Amato says, the workers in the plant would not have been able to breathe.
INVESTMENTS
The defence lawyer was very insistent on the “significant investments” made during the Swiss period, and particularly the one in Stephan Schmidheiny’s charge, “aimed at protecting the health of workers and the surrounding environment. “The issue of investments has been widely discussed. Di Amato repeatedly challenged the prosecutor’s expert witness, Paolo Rivella, about the amount he reconstructed of the financial flows the Swiss Group allocated to the Italian plants, which was quite different from the higher amounts noted by defence experts. Even to take into account the smaller figure that emerged at the trial, that is, 33 billion liras in those years, Di Amato equates it to 700 million euros today. The lawyer also stigmatized the interpretations attributed by Rivella to the investments: for the prosecutor’s expert witness only minimally used for safety; on the contrary, for the defence to a sufficient extent to achieve substantial dust abatements according to the parameters of the time. Exactly: for the time. He insists on the time factor. He dwells on the much-mentioned scientist Irving Selikoff who, in 1964 at the New York Academy of Sciences, made the call on the carcinogenicity of asbestos. “But, years later, in 1979, his certainties were no longer so granitic: he admitted that there were still controversies in the scientific world.” It is worth pointing out that Selikoff’s doubts referred to by the defence counsel concerned chrysotile or white asbestos, not crocidolite (i.e., the more dangerous blue asbestos), which was used extensively at Eternit because it was used primarily in the production of piping. He also cited cohort studies of the 1980s that, based on the assessments of their consultants, did not produce entirely clear and comprehensive results on the real risks of asbestos. Certainty, Di Amato says, came only in 1997, “at the Helsinki Consensus when the international scientific community reached agreement that asbestos could not be used safely.” However, Di Amato admits, indeed points out, that indeed alternative materials to asbestos were being sought.
According to former Mayor Riccardo Coppo, who had heard it repeatedly, this prospect of alternative products was just a way to “tease us.” In fact, in Italy Leo Mittelholzer,the last CEO, , had been instructed in the 1980s to meet with competing small manufacturers to propose and agree on the divestment of asbestos by replacing it with other materials. It was to be done all together, however; those had not wanted to, because it was not convenient, and Eternit, not to be affected by competition, had continued as before in Italy. In Italy, therefore, no alternative materials, while in Eternit plants in other countries they had been adopted. With what results? Professor Di Amato evokes the testimony, given in May 2010 in the Eternit 1 maxi-trial, by engineer Silvano Benitti, a former Eternit executive: “There was a lot of scepticism. The slabs made with replacement material cracked after 7 or 8 years and had to be thrown away!” Well, but then… in the November 21 hearing, Claudio Colosio defence expert witness said worse things about the soundness of the asbestos slabs said even worse; verbatim: “The deterioration of the roofing was already beginning a few months after installation!”
Back to the hearing on Friday, March 10. Insisting on the importance of the knowledge of the time, the defender even quotes Aristotle: “The Greek philosopher thought that the Earth was positioned and still at the centre of the Universe: that was what was known in his time. But that is not why we now say that Aristotle was ignorant!” Certainly not. And, for Di Amato, Aristotle’s example fits the context in which Stephan Schmidheiny was operating: in his view, based on what was known at the time, the Swiss entrepreneur did much more for safety purposes than what other competitors in the industry were doing.
He did a lot starting with Neuss.
THE NEUSS CONFERENCE
It was mentioned many times at the trial because it is a turning point. Stephan Schmidhieny had recently taken the reins of the asbestos business, one of the entrepreneurial fields in which the powerful Swiss family operated in, worldwide. In June 1976 he summoned top-level executives, “from all over the world,” the defence attorney points out, “not just the Italian ones“: this was to emphasize that his was a directing role, not a direct management role in individual plants.
And what did SS say to Neuss?
Now, at the trial we heard and saw projected minutes and confidential correspondence in which Schmidheiny’s words, spoken on that occasion, were of this tenor: “The current situation is a challenge that goes to the eternal existential problem: ‘To be or not to be’ (to be or not to be).” And again, “We must realize one thing: we can, indeed we must live with this problem.” How? “Ensuring that the asbestos-cement industry can exist by means of an optimal organization of labour and environmental protection by following internal regulations.” “These three days were decisive for the technical directors who were shocked (on learning from Schmidheiny himself about the very serious health repercussions of asbestos, ed.). The same thing must not happen to the workers.” “We must react decisively (to the attacks against asbestos, ed.) and fight back with all our means.” The defence attorney, however, proposes a different reconstruction of the defendant’s conduct at the 1976 conference. He argues that Schmidheiny insisted on “a change in the attitude and mentality of all employees, but especially of all senior management of the company“: that is, it was important that “labor and environmental protection become as a matter of course as are production and quality standards.” The question is who should have been adequately informed of the dangers caused by asbestos, which, moreover, were illustrated by the contractor in Neuss in all their gravity, albeit according to the knowledge of the time? Who should have been made aware of the danger to change attitude and mentality from there on? Okay, the top managers, but from what emerged at the trial, the workers, that is, those first and directly exposed to asbestos, were not informed. Apart from the slip of paper, slipped once into their pay packets, on which it was written that smoking is bad for you (and neither was it written that smoking, associated with asbestos, increases the risk of developing the disease, which would have been useful and correct information). The communication strategy, following the “three days” in Neuss, was Auls 76, which was developed a few months later: it was a kind of handbook detailing different hypotheses of critical circumstances with the corresponding answers that had to be given depending on who asked questions about asbestos and its danger.
THE AULS 76 HANDBOOK
For prosecutors, it was the “handbook of misinformation.” The vision that the defendant proposes is quite different. Di Amato explains, meanwhile, that “Auls 76 had no reference to proper management of the Italian plants. Instead, it was the instrument, in the defence’s view, “so that all employees, all customers, the authorities, and the unions were informed in the most appropriate way and without preconceptions about the potential risks towards health, risks due to asbestos.” According to Di Amato, the purpose of Auls 76 was to “hypothesize a series of abstract situations in which the managers of Eternit plants, scattered around the world, might find themselves as a result of allegations by private individuals, neighbours, and workers’ requests in relation to the spread of asbestos dust and its dangerousness.” Some examples of questions and answers (“in the abstract”) contained in Auls 76 had been recalled by the plaintiff’s attorney Maurizio Riverditi at the Feb. 27 hearing.
EXAMPLE OF QUESTIONS& ANSWERS IN AULS 76: 1 “Why have you denied the existence of this danger until now? “In fact, the hazard was not known until a few years ago“; 2 “What do you do to protect your workers?”, “Special work clothes are made available (…), left in the factory, and the company undertakes to carry out the cleaning“; 3 “What do you do to protect the family members of your workers?”, “There is no danger to the families“; 4 “What about the danger to those who live near the factory?”, “Can the existence of such danger be absolutely ruled out“; 5 “Why do you still use blue asbestos that is particularly harmful?”, “There is no scientific data to prove it“; 6 “Wouldn’t it be safer and more effective to ban asbestos-cement products?”, “It can certainly be considered a non-hazardous material“.
For Professor Di Amato Auls 76 simply “identifies guidelines that managers are asked to follow when they come across the situations described.” Always abstractly, the defence counsel’s explanation aimed at demonstrating a logical consistency with the proper role of the “group leadership”. “In practice, one has to go and find that plant manager – “the actual manager” – who, finding himself in one of those hypothetical situations, dares to utter words different the ones in the handbook coming from the “group top management,” aka Schmidheiny!
TO SAY AND NOT TO SAY
On the strategies of concealment and mystification that prosecutors Colace and Compare (and plaintiffs’ lawyers no less) accuse the defendant of, defence counsel draws a black line. “No secrecy on the part of the present defendant. There was nothing to hide.” What about the letters between Schmidheiny and CEO Luigi Giannitrapani? All right, they were confidential, that’s fine; but why did they arrive at a secret P.O. box in Genoa? “A totally irrelevant circumstance,” says Di Amato. The explanation is anchored in that moment in time. “In Genoa (where the Italian Eternit spa was headquartered, ed.), there had been the kidnapping of Deputy Attorney General Mario Sossi and, precisely in 1976, the terrorist Mario Moretti had formed the Genoa Column of the Red Brigades. So, it is plausible that correspondence with the young son of the owner of a multinational group did not go through normal communication channels and that the very existence of Stephan Schmidheiny was kept confidential.”
What about the communication professional Guido Bellodi? What about the Handbook named after him: Bellodi Handbook? Bellodi “had been hired in 1983 to avoid (in media reporting, ed.) a financial scandal due to the insolvency of the Eternit company that would later result in the 1986 bankruptcy.“[But according to Di Amato, “the communications agency has been selling for over two decades (1983-2003?, ed.) However, since Bellodi himself wrote to Schmidheiny congratulating himself on the results he had achieved with his work, perhaps it was precisely the precious silence that was the fruit of the communication work on which they had agreed and which the Milanese professional had “sold.” Otherwise, how can one explain why Bellodi was paid generously and for many years by the Swiss top management? And the professional, by the way, also regularly settled the fees of the “antennas” hired in the territories of interest: not out of his own pocket, one imagines. The defence lawyer insisted, however, that there was no reason to hide anything because the entrepreneur’s role as head of the Swiss Group was well known: as an example he projected the letter that Mayor Coppo wrote, in 1985, to Schmidheiny himself (complaining about the situation at the Casale plant and asking for an account of the promised relocation of the factory), and sent, for information, to the prefecture and the unions. Di Amato did not dwell on the contents of the letter; his purpose was to show that, in addition to the mayor, the prefect and the unions, at least by that time, must have been well aware of who Schmidheiny was: that is, the defence tends to reject the thesis of a communication activity aimed at artfully concealing the figure of the group’s patron.
MISUSE AND D’ANNA
As the prosecutors made ironic comments at some of the defence expert witnesses accusing them of “mixing logic and reality in a rather imaginative manner,” lawyer Di Amato’s response was not long in coming. There was no shortage of challenges to some of the prosecution’s experts (including Dr Rivella, as well as Professors Dianzani & Magnani, Dr Mirabelli and others) and a staunch defence to the work done by his own consultant Andrea D’Anna, a professor at the University of Naples: “For the first time, he has adequately highlighted the degree of pollution, with consequent danger to public health, caused by the very wide dissemination of asbestos (the defendant refers to the so-called improper uses: powder, first and foremost, ed.) that occurred in the seventy years prior to Stephan Schmidheniy’s assumption of responsibility for Eternit.” D’Anna had been accused by the prosecutor of a slip when he pointed to a broken tile as the supposed passage of asbestos fibers; in fact, the tile had been broken on purpose by Arpa technicians to carry out sampling. “No slip,” replied Di Amato, “if anything, it is proof that the roofs were not watertight. Effectively, if one smashes them, they no longer are.
WHOSE TRIAL IS BEING HELD?
“Here there has been, on the part of the prosecution, more of a trial against ‘Mr. Asbestos’ or ‘Mr. Eternit’ rather than against Stephan Schmidheny,” the defence attorney says. He adds, “If one leaves prejudices aside, it should be noted that Schmidheiny, at the time 29 years old, with a law graduate and a cultural background influenced by the 1968 movement that he had experienced in Rome, approached the issue of health and asbestos in a way that was absolutely innovative and really cantered on the concern to protect workers and the environment.”
Allow me a comment at this point: Assuming that that was SS’s goal — to protect workers and the environment — and given that, for a variety of reasons, this has not been the case (so many, unfortunately, have died and so many, sadly, continue to fall ill), why, Mr. Schmidheiny, do you not commit yourself to remedy the ongoing dramatic drip of which asbestos is the cause? Do it now, Mr. Schmidheiny: by funding and leading-not just as a “group summit,” but as an effective “direct manager”-a worldwide research effort so that the best scientists you choose will find the cure to end the tragedy that befalls this community (and beyond) made up of “wonderful people.”
RESTRICTIONS
Finally, the defence rejected all indictments.
“Regarding individuals and associations, it should be noted that the claims for damages refer to the violation of labour safety regulations resulting in the death of citizens and residents. This is a fact that has already been the subject of trial in the Eternit 1 trial and with respect to which the statute of limitations has already been consolidated.” Moreover, in his opinion, “evidence of the existence of the claimed damages is lacking in the record.”
As for the claims of the unions and Inail, the workers’ compensation agency, the statute of limitations applies as well. Lawyer D’Amato also invokes the statute of limitations for the claims made by the local authorities such as municipalities, provinces, regions, and the national government. In addition, “with regards to environmental damage,” the defence counsel observes, “the Arpa (the Regional Environmental Agency) records indicate that the reclamations concerned both asbestos-cement tiles and sites polluted by the misuse of asbestos-containing materials, a misuse,” the professor insists, “that occurred almost exclusively in the period prior to Stephan Schmidheiny’s. He concluded, therefore, that “it is not clear why the defendant should be called upon to compensate for damages resulting from conduct held in an earlier period or the costs necessary to remove roofs whose use was fully legitimate (until 1992) and when we don’t know whether they were produced by Eternit.”
Professor Di Amato’s observation will be considered by the Court; what can be said is that the plant abandoned in those conditions Lawyer Ester Gatti (for the Municipality of Casale) described as “overflowing asbestos bags, broken glass…”, ed.), the open crushing area, the canal and the little beach, the dump on the Po, and the warehouses remain of certain authorship. All this has been reclaimed at the financial, moral and health expense of the community.
Grazie Silvana!!!!!
Vero: meno male che Smidhainy ha tutelato la salute dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente!
Infatti l’Eternit, per volere suo, era una fabbrica modello!!! Comunque, come ha spiegato “bene” la Difesa sui “ruoli”, Smidhainy non ha nulla da temere :
in tragedie come questa dell’Eternit , per non rischiare alcunché, basta esserne il proprietario !
GRAZIE ancora Sivana e alla prossima.
Grazie Silvana. Aspettiamo fiduciosi la fine di questo “calvario” .
Che dire, si vuole dimostrare tutto e il contrario di tutto. Ci sarà mai giustizia. Grazie Silvana.
Vorrei riproporre le tue parole a Schmidheiny in modo che possano tramutarsi in una richiesta corale. Lo trovo un segno di impegno civile che va al di là dell’esito processuale e che si presenta di fronte al silenzio di Schmidheiny e alla sua assenza dal processo. Come posso fare? Fai tu da tramite, col tuo sito, per questa richiesta da più voci? Meglio passare dal sito AFEVA? aspetto una tua indicazione da girare ai miei contatti a cui ho già canticipato la proposta. Ciao e grazie di esserci!