Recensione di
SERGIO SALVI
«Accanto alla tigre», autore Lorenzo Pavolini, pubblicato nel 2010, edizione Marsilio Editori nell’”Universale Economica” maggio 2019 pp.229.
In una frase: libro interessante e impegnativo, arricchito da una illuminante postfazione di Alessandro Leogrande.
«Accanto alla tigre» ha il ritmo del romanzo psicologico, tuttavia non è un romanzo. L’autore, Lorenzo Pavolini (nato nel 1964), era un ragazzo di dodici anni quando scoprì che suo nonno Alessandro era stato «un gerarca fascista fucilato a Dongo e appeso a testa in giù a piazzale Loreto». (p. 11).
Quella scoperta fu la prima tappa di un lungo percorso, costruito innanzitutto con l’insistenza per sapere e conoscere, nei confronti di un «sistema di comunicazione famigliare reticente» (p. 12) a dare notizie e spiegazioni su un passato doloroso e imbarazzante. Una volta acquisita la conoscenza delle vicende, sono seguiti confronti, a volte faticosi, a volte paradossali con amici scrittori e intellettuali (anche con Andrea Camilleri, p. 25). Una vera e propria maturazione, inframmezzata da lunghe pause e piena di ripensamenti e titubanze, sviluppatasi lungo un trentennio e sfociata in questo libro, che può definirsi un’autobiografia coraggiosa, dove il coraggio sta nel non nascondere la propria discendenza famigliare, anche quando le azioni compiute dal nonno suscitano orrore.
La narrazione si alterna tra fatti storici, nei quali si inseriscono episodi e documenti di vita famigliare, e le considerazioni dell’autore, coinvolto emotivamente dal legame di parentela, ma non per questo motivo incline a facile indulgenza.
Il nipote è certamente scosso quando, per la prima volta, ascolta la voce del nonno, registrata in un servizio filmato dell’Istituto Luce: «La voce di un nonno mai conosciuto, che parla in un documentario riferendo con puntualità un messaggio del duce. Io lo so che è assurdo. Ma nella grana di quella voce ho avvertito una dolcezza infinita» (p.70). La commozione non è tuttavia tale da concedere alibi al significato delle parole pronunciate da quel nonno. Il pensiero di Alessandro Pavolini viene infatti sintetizzato dal nipote Lorenzo con estrema efficacia.
«Chi è con me vive, chi è contro perisce. E più le vittime sacrificali saranno prossime negli affetti, maggiore l’effetto. Il sacrificio degli amici, il sacrificio dei parenti. La famiglia Pol Pot subirà lo stesso destino di deportazioni e stenti degli altri contadini cambogiani. Mussolini sopporterà l’odio della figlia. Pavolini aderirà ufficialmente al Manifesto della razza del ’38 nonostante la cognata Marcella Hannau fosse ebrea triestina, come lo era anche una delle famiglie a lui più care, gli Uzielli, nel cui salotto fiorentino era stato in pratica allevato e nella cui villa di Castiglioncello aveva conosciuto sua moglie Teresa» (p.69).
In definitiva, Alessandro Pavolini non viene descritto come personaggio “complesso”, tutt’altro; problematico è invece il sentimento famigliare che, nonostante tutto, coinvolge ancora oggi il nipote scrittore.
Il lettore, a sua volta, guidato da una scrittura appassionata ed elegante, si sente quasi in torto di non provare solidarietà umana nei confronti di una persona che avendo scelto di stare “accanto alla tigre”, o meglio di “cavalcare la tigre” portò la sua scelta fino alle estreme conseguenze; ma come si fa a non pensare ai dolori provocati dalle azioni di Alessandro Pavolini, alle persone trucidate dalle Brigate Nere, alle deportazioni nei campi di concentramento, alle rappresaglie nazifasciste?
La solidarietà umana tuttavia non incide sulla valutazione dei fatti; per quanto riguarda le persone mi fido del giudizio di Dio. Penso che appendere i cadaveri a piazzale Loreto sia stato un gesto disonorevole, e penso che qualsiasi vendetta sia stata e sia, sempre e comunque, priva di onore.
Se la compassione per un essere umano dovrebbe sussistere, in ogni caso, se non in virtù della Fede (mi viene in mente il famoso episodio de «I promessi sposi», quando Fra’ Cristoforo racconta della morte di Don Rodrigo), ciò non toglie che le azioni negative compiute tali restano e resteranno, salvo il pentimento e la riparazione dei torti fatti.
La lettura di «Accanto alla tigre» deve essere completata, e resa più chiara, dalla postfazione, dalla quale riprendo un pensiero: «Nulla è edulcorato in questa pagina del Novecento, perché nulla può essere edulcorato. Anche se Lorenzo Pavolini non è così radicale nello scriverlo a chiare lettere (e anche questo forse risponde a una strategia precisa: il pudore come arma antitotalitaria?), la tigre in fondo è ripugnante, e il tentativo di cavalcarla è talmente ignobile da non poter essere giustificato con gli ardori di una continua adolescenza. Non c’è niente, ma proprio niente di romantico, nel gorgo di cultura e di violenza offerto dalla vita dei gerarchi». (p. 229).
Finale: buon libro, fa venir voglia di approfondire alcuni aspetti di una Storia tanto raccontata e poco spiegata.
Torno, per chiudere, con una riflessione sul quesito lanciato dalla postfazione: il pudore può davvero essere un antidoto al totalitarismo e, in ultima analisi, alla violenza? Alessandro Leogrande (1977-2017) si fece questa domanda nel 2010, quando aveva trentatré anni; in questa fine di agosto 2022, chiassosa e spudorata su molti fronti, mi vien da dire che forse un po’ di pudore potrebbe almeno limitare le demagogie debordanti.