“Un sacchetto di biglie” autore Joseph Joffo traduzione di Marina Valente edito in Italia da Rizzoli, prima Edizione BUR settembre 1977 pp. 286.
In una frase: i ricordi di un bambino, divertono, commuovono, fanno pensare.
Joseph Joffo era un bambino ebreo di 9 anni appena compiuti, il 14 giugno 1940, quando l’esercito tedesco occupò Parigi; la seconda Guerra Mondiale pareva già vinta da Hitler e dai suoi generali.
Il padre di Joseph, con i figli più grandi, fa il parrucchiere: hanno una bella bottega in un quartiere popolare di Parigi: “Senza dubbio, ogni infanzia ha i suoi odori e io ho avuto diritto a tutti i profumi, dalla lavanda alla violetta, tutta la gamma, rivedo i flaconi sulle mensole, l’odore pulito degli asciugamani e il ticchettio delle forbici, anche quello sento, è stata la mia prima musica” ricorda Joseph (p. 11).
Joseph e Maurice, dodicenne, sono i figli piccoli, sono anche molto amici e molto complici. Una sera del 1941, quasi per tacita sfida, i due ragazzini coprono con i loro corpi la targhetta in lingua tedesca con sopra scritto “Negozio ebreo”, che era stata imposta dall’esercito occupante, impedendone la vista a due militari dell’SS, che entrano e chiedono il taglio dei capelli. La descrizione delle successive fasi di questo episodio, da sola, vale l’acquisto del libro.
La situazione per gli ebrei di Parigi peggiora rapidamente, iniziano le deportazioni; la famiglia Joffo ha una storia di persecuzioni e di fughe: il nonno di Joseph era un uomo ricco generoso, aveva dodici figli, viveva a Elysabethgrad, a sud di Odessa, nella Bessarabia russa, poi iniziarono i pogrom voluti dallo zar, le migrazioni forzate, Romania, Ungheria, Germania e infine la Francia.
La strategia di sopravvivenza adottata in passato diventa la guida nel presente: per avere più probabilità di salvarsi le famiglie devono dividersi, partire, a due a due, cercare un rifugio: tocca anche a Joseph e Maurice, dovranno lasciare Parigi e raggiungere Dax, nei pressi del confine con la Francia non occupata direttamente dalle truppe del Reich e governata del generale Pétain, una zona certamente meno pericolosa. I fratelli più grandi erano già riparati a Mentone, l’obbiettivo di Joseph e Maurice è appunto quello di raggiungerli.
Dopo aver dato loro il denaro per i biglietti del treno e le spese di viaggio, il padre dà ai due figli la raccomandazione più importante: “Bisogna che sappiate una cosa: voi siete ebrei, ma non confessatelo mai. Mi avete sentito? MAI”. (…) “Non lo direte al vostro migliore amico, non lo mormorerete nemmeno sottovoce, negherete sempre. Mi avete sentito bene? Sempre”. (p.41).
Il padre, preoccupato e determinato, compie una dura verifica sul figlio più piccolo, per accertarsi che la raccomandazione sia stata intesa alla perfezione. Superato l’esame, il ragazzino si rivolge al padre: “Vorrei chiederti: che cos’è un ebreo?”, e il padre: “Beh, mi secca un po’ dirtelo, Joseph, ma in fondo non lo so bene … un tempo abitavamo un paese, ne siamo stati cacciati e allora siamo andati dappertutto e ci sono dei periodi, come quello in cui siamo, in cui la cosa continua. E’ stata riaperta la caccia e quindi bisogna ripartire e nascondersi in attesa che il cacciatore si stanchi. Andiamo, è ora di mettersi a tavola, partirete subito dopo”. (p. 42).
Da Parigi a Dax, con la paura di essere scoperti, il treno affollato, la diffidenza verso chi fa domande, le severe perquisizioni dei militari e poi l’aiuto insperato, la solidarietà gratuita, inimmaginabile, eppure data e percepita con semplicità, la semplicità dei bambini.
Tante avventure, tante paure: il passaggio della linea di confine con la Francia non occupata, e poi il viaggio verso Marsiglia e da qui a Mentone, la zona è presidiata dall’esercito italiano. Per una serie di rocambolesche e fortunate combinazioni i ragazzi riescono addirittura a riunirsi ai fratelli maggiori e poi ai genitori a Nizza. Primavera e estate del 1942, un periodo di vita serena, poco scalfita dalle notizie della guerra: “Era tanto difficile, mentre nuotavamo con delizia in un mare caldo e trasparente, immaginare campi di neve, di fango, di notti piene di mitraglia, di aerei, che finivo per non credere più alla realtà di quella guerra, pareva impossibile che altrove ci fossero il freddo, il combattimento, la morte.” (p.148).
“Il 10 settembre 1943, un treno si fermò alla stazione (di Nizza) e ne scesero un migliaio di tedeschi. C’erano SS e civili tra loro, uomini della Gestapo” (p. 165).
La famiglia Joffo si deve separare di nuovo, il rischio è sempre più grave e sarà sempre difficile sfuggire alla crescente ferocia con la quale il Terzo Reich tentò di attuare lo sterminio totale degli ebrei in Europa, proprio mentre l’andamento del conflitto era chiaramente sfavorevole alle armate tedesche.
Joseph e Maurice sono sempre insieme, una fuga dopo l’altra; Joseph si ritrova “cresciuto, indurito, cambiato (…). Forse anche il cuore si è abituato, si è rodato alle catastrofi, forse è diventato incapace di provare un dolore profondo (…), non mi hanno preso la vita, forse hanno fatto di peggio, mi rubano la mia infanzia, hanno ucciso in me il bambino che potevo essere (…)” (p. 246).
Il 6 giugno 1944, avvenne lo sbarco in Normandia, il 25 agosto 1944 Parigi fu liberata, per Joseph e Maurice Joffo la vita è potuta continuare: “Era finita, ero libero, non si cercava più di uccidermi, avrei potuto ritornare a casa, prendere dei treni, camminare per la strada, ridere, suonare i campanelli, giocare a biglie (…) mi sarei divertito ancora? No, a pensarci bene non mi sarei divertito più” (p. 271).
Finale. La caratteristica di questo romanzo, ed è l’unico caso nella mia esperienza di lettore, è che si tratta di ricordi di un bambino di dieci anni, narrati a trent’anni di distanza e con la freschezza, l’ingenuità e la verità (talvolta disarmante) dell’infanzia.
Joseph Joffo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, riprese a Parigi l’attività famigliare di parrucchiere e la sviluppò con notevole successo (a lui e ai suoi fratelli facevano capo una dozzina di negozi nella città). In seguito a un incidente sportivo, restò immobilizzato per qualche tempo e fu allora che decise di raccogliere i ricordi di infanzia in questo romanzo, il suo primo, che fu pubblicato in Francia nel 1973, a quasi trent’anni dalla fine del conflitto.
Dopo oltre quarant’anni dalla prima lettura, insieme al rinnovato piacere ho trovato sensazioni illuminanti e preziose, in questo difficile periodo di guerra.
Premetto di non aver letto il libro, ma leggendo la recensione mi sembrava di vivere quello che stiamo vivendo in questo momento.