SILVANA MOSSANO
Reportage udienza 16 maggio 2022
«E’ opportuno far presente che la segnalazione della presenza dell’amianto rappresenta l’individuazione di un pericolo che non necessariamente è sinonimo di rischio di dispersione di fibre, né quantomeno di esposizione». L’affermazione è di Danilo Cottica, già presidente dell’Associazione italiana degli Igienisti industriali, consulente della difesa che aveva iniziato a illustrare le proprie tesi all’udienza dell’11 aprile scorso nel processo Eternit Bis, in Corte d’Assise a Novara, nei confronti dell’imputato Stephan Schmidheiny, per la morte di 392 casalesi, con diagnosi di mesotelioma. Ha proseguito lunedì 16 maggio.
Che vuol dire Cottica? Vuol dire che «non si può accettare la semplice equazione secondo cui la presenza di amianto e materiali contenenti amianto sia uguale a esposizione a fibre di amianto».
Cioè, più semplicemente, se c’è amianto o ci sono materiali contenenti amianto in un ambiente non significa che si sia esposti.
Per comprendere l’assunto occorre soffermarsi sulla distinzione tra i concetti di «pericolo» e «rischio». In pratica, la presenza di amianto o materiali contenenti amianto è un pericolo, perché si sa che l’amianto è cancerogeno; però, il potenziale pericolo diventa rischio (di respirare le fibre di amianto) soltanto, afferma Cottica, «in rapporto alla frequenza, ai tempi, alle modalità con cui ciascun lavoratore si trova(va) a svolgere le proprie mansioni».
A dire che l’amianto è un pericolo potenziale se è presente, ma è un rischio solo se lo respiri.
Come fare a “dribblarlo”? Diverse centinaia di persone (le 392 vittime indicate nel capo di imputazione sono circa un quinto dei monferrini morti per amianto negli ultimi decenni), loro malgrado e inconsciamente, non ci sono proprio riuscite.
Il consulente si è spiegato più compiutamente: «Nessuno nega – ha detto – che all’Eternit di Casale ci fosse tanta polvere», e nemmeno nega che in quella polvere ci fosse amianto, dal momento che era materia prima per la produzione di manufatti (tetti e tubi). Però, ha precisato che «bisogna distinguere la qualità delle fibre»: perché le fibre di amianto diventino un rischio, «non devono essere soltanto inalabili, ma respirabili».
A questo proposito, l’esperto distingue le fibre in base alle dimensioni del loro diametro e dice che «le fibre inalabili sono quelle che, per il tempo di permanenza in sospensione nell’aria, possono essere inalate, ma si depositano nelle prime vie aeree perché il loro diametro aerodinamico è tale da essere intercettato dalle difese del sistema respiratorio e quindi non raggiungono gli alveoli polmonari». Invece, «le fibre respirabili, per via del loro diametro aerodinamico, una volta inalate possono penetrare a fondo nel sistema respiratorio e depositarsi anche negli alveoli polmonari». Ora, il professor Cottica fa presente che soltanto nel 1984, con l’avvento dei microscopi elettronici, si è potuto distinguere tra le une e le altre; prima, si facevano delle stime, e, pertanto, a suo parere, i rilievi di polverosità eseguiti in precedenza non erano attendibili in modo preciso.
Ma non è tutto: il consulente della difesa aggiunge che, oltre alla dimensione, per calcolare la quantità di fibre «respirabili» a cui si è effettivamente esposti, occorre applicare dei campionatori addosso al lavoratore, fare una media ponderata su un arco di almeno otto ore di esposizione e tenere conto della postazione di lavoro.
Cottica insiste, poi, sul fatto che, dal 1973 in avanti, l’Eternit aveva investito risorse per migliorare la situazione di polverosità, con la sostituzione di apparecchiature e tecnologie più moderne. Richiamando la relazione del consulente della difesa che lo aveva preceduto, ingegner Giuseppe Nano, evidenzia che gli investimenti hanno prodotto «risultati di beneficio in termini di esposizione». Ricorda il passaggio dalla lavorazione a secco, sicuramente più pericolosa, a quella a umido e a ciclo chiuso, attuata dal 1974; la sostituzione dei sacchi di juta con quelli di carta, poi in juta sintetica e poi in plastica, più protettivi. Ammette che, «le operazioni che potevano dar luogo a formazione di polveri erano quelle di fissaggio di elementi sagomanti, consistente essenzialmente nella eliminazione delle sbavature dalle estremità, che poteva essere eseguita manualmente su materiale semi fresco oppure meccanicamente su materiale secco, mediante l’impiego di macchine utensili». Un esempio: la pulitura delle sbavature dei tubi, da cui derivavano gli sfridi di «polverino» contenente crocidolite, il terribile «amianto blu». Ma il consulente non intravede un grande rischio neppure i queste operazioni, perché «i torni erano presidiati da aspirazioni localizzate».
In ogni caso, ricorda il professor Cottica, Schmidheiny mandò Klaus Robock, capo del laboratorio di Neuss e scienziato di fiducia dell’imprenditore svizzero, a fare un sopralluogo nello stabilimento di Casale. Cottica ha documentato quella visita tra il 29 gennaio e il 2 febbraio 1976.
Robock andò a Casale, osservò, fece misurazioni della polverosità e affermò l’obiettivo di autoregolamentare la concentrazione in 0,5 fibre di amianto per centimetri cubi, inferiore rispetto a quella di 2 fibre per centimetro cubo prevista dalle norme proposte a livello internazionale. Laddove, poi, riscontrò criticità, fornì indicazioni per correggerle anche con disegni espliciti o con l’indicazione precisa, ad esempio, di mascherine più protettive di quelle già adottate. In una relazione datata 23 febbraio e inviata all’allora direttore dello stabilimento Luigi Reposo, Robock segnalò, come si è appreso da una diapositiva proiettata dal consulente Cottica, che «i valori misurati erano complessivamente buoni; i risultati delle misure indicavano come priorità di puntare sulle attività formative e preventive, a fronte di situazioni operative (manutenzione e pulizia) migliorabili con una maggior sensibilizzazione degli operatori».
Siamo a febbraio 1976. C’è da domandarsi come mai Schmidheiny, a maggio 1976, tre mesi dopo, sentì l’urgenza di convocare a Neuss i massimi dirigenti del gruppo Eternit cui rappresentò una situazione «catastrofale» (parole testuali dell’amministratore delegato Leo Mittelholzer) da cui furono tutti letteralmente «choccati».
Robock fornì a Schmidheiny un rapporto diverso? Se avesse letto la relazione inviata a Reposo che motivo avrebbe avuto di spaventare – «choccare» – i suoi massimi collaboratori per dei «valori complessivamente buoni» rilevati all’Eternit di Casale?
Il professor Cottica ha anche puntualizzato che «la principale strategia del Gruppo Eternit era quella di sostituire il più rapidamente possibile l’amianto nella produzione, ponendo sul mercato nuovi prodotti privi di amianto: quindi, in definitiva, rinunciare completamente all’uso di fibre di amianto». L’avrà pensato, ma purtroppo non l’ha fatto, pur avendone ripetutamente ipotizzato l’intenzione con gli amministratori pubblici casalesi che, a un certo punto, si sentirono presi in giro.
L’esperto ha concluso che «tutti i dati evidenziano una drastica diminuzione dei livelli di esposizione (all’amianto) in linea con gli interventi di miglioramento introdotti nello stabilimento Eternit nel periodo 1973-1982».
E, tuttavia, i morti ci sono stati. E ci sono. Sono lì che «parlano», vite contrassegnate da nomi e identità.
Si può intuire la linea difensiva: la colpa di chi si è ammalato, dopo lunghissima latenza, è di coloro che hanno gestito l’Eternit prima del 1976 (e che ormai sono morti). Oppure non si riesce a circoscrivere in modo preciso il momento in cui l’esposizione all’amianto è stata fatale e ha dato avvio al processo di cancerogenesi nei diversi individui. Potrebbe essere accaduto nel periodo Schmidheiny, ma anche no, secondo i consulenti della difesa.
All’udienza di lunedì 16 maggio, il consulente Pierluigi Nicotera, professore ordinario di malattie neurodegenerative all’Università di Bonn, direttore e membro di Accademie scientifiche europee, professore universitario ed esperto di tossicologia in istituti e consessi di rilievo in Germania e in Svezia, ha esposto una relazione tecnica molto impegnativa, per rispondere al quesito che gli è stato affidato dai difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva: «Quali sono i meccanismi che portano alla formazione di mesoteliomi in individui esposti all’amianto, alla luce delle conoscenze attuali?».
Attraverso spiegazioni lunghe e complesse, il consulente ha affermato che la cancerogenesi, cioè il processo che sviluppa il mesotelioma, non è graduale e non risente di un’esposizione prolungata e progressiva alle fibre di amianto. Secondo la tesi di Nicotera, si verifica in un unico evento catastrofico; una cellula del nostro organismo, cioè, va incontro, in un colpo solo, a una catastrofe genetica, chiamata «cromotripsi, producendo una frantumazione del nostro DNA». In pratica, arriva nel nostro organismo una fibra di amianto che colpisce una cellula e la altera dando origine a una cellula tumorale («cellula precursore») che poi si riproduce e, nel tempo, dà, a sua volta, origine alla massa del tumore.
Secondo il professor Nicotera, «l’esposizione a fibre di asbesto è senza dubbio un fattore chiave che porta all’insorgenza dei mesoteliomi», nel senso che può indurre quell’evento catastrofico chiamato «cromotripsi», ma, a suo parere, questa catastrofe cellulare potrebbe essere favorita da una predisposizione genetica. In ogni caso, ha tenuto a precisare, «non è possibile identificare il momento in cui avviene l’evento iniziale nello sviluppo del mesotelioma» e ha insistito sul fatto che «non occorrono esposizioni multiple». Parrebbe di cogliere una certa discordanza rispetto al consulente Cottica, il quale invece ammette che l’amianto è cancerogeno proprio «in rapporto alla frequenza, ai tempi e alle modalità con cui ciascun lavoratore si trova(va) a svolgere le proprie mansioni».
Per Nicotera, l’esposizione iniziale, in sostanza, sarebbe quella significativa e colpevole. Ininfluenti quelle successive per chi ha continuato a lavorare o a vivere in un ambiente in cui c’era presenza di amianto.
Su questo aspetto, c’è un’altra parte della comunità scientifica, condivisa dai consulenti della procura incaricati dai pm Gianfranco Colace e Maria Giovanna Compare, che è di avviso contrario. Al recente convegno che si è svolto a Roma, in Senato, il 13 maggio scorso, è stata riportata la posizione della Associazione Italiana di Epidemiologia: cioè che un’esposizione cumulativa maggiore comporta un rischio maggiore di sviluppare un tumore e di anticiparne la manifestazione. «La tesi secondo cui è solo la prima fibra che conta per sviluppare il mesotelioma non trova più ascolto in nessun consesso scientifico, tranne che nelle aule giudiziarie, dove continua a essere riproposta – è stato affermato a Roma -: se la si sostenesse, ad esempio, a una tesi di laurea, si verrebbe bocciati!».
Il professor Nicotera ha poi concluso affermando che l’evento di «cromotripsi insieme a una predisposizione genetica spiegherebbe la relativa rarità del mesotelioma in soggetti esposti» (all’amianto).
Senza nessuna presunzione di voler scalfire il concetto di «rarità» in ambito scientifico, ci caliamo semplicemente nella concretezza del processo Eternit Bis, perché è questa la sostanza su cui dovrà pronunciarsi la Corte d’Assise: osserviamo che, in una comunità di poco più di 30 mila abitanti (nel comune capoluogo, più qualche migliaio nei paesi circostanti), si fa fatica a considerare “rara” l’incidenza – per il momento ancora inarrestabile – di una cinquantina di nuovi casi di malati all’anno. Rimarchiamo quanto già rilevato in altre occasioni: altrove, dove l’amianto, fino al divieto del 1992, era presente in modo fisiologico (vecchie «pastiglie» dei freni, indumenti ignifughi, coibentazioni di ferri da stiro e altre apparecchiature industriali, tetti di edifici, tubazioni, camini), morti per mesotelioma ce ne sono stati, ma non così tanti come nel Monferrato casalese.
Qualcosa di diverso, a Casale, è successo. O è stato causato.
PROSSIME UDIENZE
Lunedì 23 maggio, sarà esaminato il consulente americano della difesa Gary Marsh, dell’Università di Pittsburgh, esperto in biostatistica ed epidemiologia. Nella stessa udienza, sarà anche sottoposto a controesame da parte dei pm Colace e Compare, oltre che dei legali di parte civile.
Lunedì 30 maggio, è in programma il controesame dei consulenti Giuseppe Nano, Danilo Cottica e Pierluigi Nicotera.
Nella foto grande, in alto, uno scorcio dell’aula dove si svolge il processo Eternit Bis in Corte d’Assise. Il presidente Gianfranco Pezone, superata l’emergenza covid, ha autorizzato il pubblico, dalla passata udienza in poi, a presenziare al dibattimento.
Grazie per aggiornamento puntuale e tecnico. Però cara Silvana i sa tanto
Che si vada troppo per le lunghe e non si arrivi mai ad una sentenza. Molti di noi non leggeranno purtroppo dell’esito ma però tanti l’hanno già avuta. Sono MORTI! Basta
Ma non è stato con Schmidheiny che si si è iniziata la frantumazione a cielo aperto degli scarti dei manufatti in Eternit? Anche questo fu un miglioramento della situazione? A me pare che questi periti della difesa, così precisi e puntigliosi, raccontino delle ‘verità’ molto parziali!