Recensione di
SERGIO SALVI
«L’arte di perdere», autrice Alice Zeniter, traduzione di Margherita Botto, edito da Einaudi, pubblicato nel 2017, edizione in lingua italiana 2018, pp. 433.
In una frase: è un capolavoro.
Alice Zeniter è nata in Francia nel 1986 da madre francese e padre algerino; il suo primo romanzo fu pubblicato quando lei aveva solo sedici anni e “L’arte di Perdere” è la sua quarta opera narrativa.
A dispetto del titolo, il romanzo non affronta ambiti di competizione di nessun genere; «L’arte di perdere» non contiene infatti descrizioni di sconfitte, al contrario, accompagna il lettore alla scoperta di un mondo nel quale ha un senso sforzarsi di dare il meglio di sé, anche quando le circostanze esteriori sono ostili.
Si narra di tre generazioni di una famiglia algerina di stirpe cabila, i personaggi principali sono tre: il capostipite Alì, il suo primogenito Hamid e la figlia di questi Naima.
Alì ha combattuto con l’esercito francese durante la seconda Guerra Mondiale e, terminato il conflitto, rientra nella sua terra, un villaggio non distante da Palestro (città fondata in Algeria nel 1867 dall’emigrato italiano Domenico Bassetti, in onore della località in provincia di Pavia teatro di un’importante battaglia nel corso della II Guerra d’Indipendenza). La Palestro algerina, circa 60.000 abitanti, fu ribattezzata Lakhdaria dopo il 1962.
Grazie a un inatteso colpo di fortuna le sorti economiche di Alì e della sua famiglia migliorano considerevolmente, al punto che Alì, persona equilibrata e generosa, diventa un punto di riferimento nel suo villaggio, anche se non ricopre incarichi ufficiali.
Hamid è nato nella primavera del 1953, ha appena nove anni quando, insieme ai genitori e ai fratelli, è costretto a fuggire in Francia. E’ il 1962: dopo sette anni e mezzo di una violentissima guerra, colma di atrocità nei confronti della popolazione civile, commesse dai combattenti di entrambi gli schieramenti (il Fronte indipendentista da un lato e l’esercito francese dall’altro), la Francia rinuncia al suo dominio e l’Algeria diventa uno Stato indipendente. Alì è considerato un collaborazionista, un «harki», una breve parola che cela epiteti ben più duri e attira odio implacabile: «L’Algeria li chiamerà ratti. Traditori. Cani. Terroristi. Apostati. Banditi. Impuri. La Francia non li chiamerà affatto, o ben poco. La Francia si cuce la bocca circondando di filo spinato i campi di accoglienza». (p. 138). Chi è arrivato in Francia dall’Algeria nel 1962, senza dubbio è un harki.
Alì, per la verità, non aveva «collaborato» con l’esercito francese: per limitare i danni alla propria famiglia e agli altri abitanti del villaggio aveva scelto di farsi proteggere dagli assassini che odiava (il Fronte di Liberazione) ricorrendo ad altri assassini che pure odiava (i militari francesi); una scelta diventata un marchio indelebile, per sé e per tutta la sua famiglia, harki per sempre.
Hamid, bambinetto tra i tanti nel campo di accoglienza, è deluso dal padre, che ha perso tutto e, con le cose materiali, anche l’autorevolezza e la dignità, soprattutto nei confronti dei francesi, quelli «veri», perché anche Alì e i suoi famigliari (che della lingua francese conoscono solo qualche parola) sono cittadini francesi, ma di «serie B». La frustrazione di sentirsi emarginato sviluppa in Hamid la ferma volontà di impegnarsi per imparare la lingua: «Alla fine dell’anno scolastico Hamid viene promosso in prima media. In calce alla pagella, che i genitori non saranno in grado di leggere, il maestro scrive: “Nel corso di quest’anno Hamid ha ottenuto risultati notevoli”. L’ultima parola è sottolineata due volte». (p. 199).
Durante le vacanze il ragazzino si costringe a imparare cinque nuove parole di francese al giorno; le copia dal vocabolario, anche se non ha occasione di usarle. Durante gli spostamenti in auto legge fumetti francesi e: «Alza la testa solo quando suo padre gli ordina di leggergli i cartelli stradali». (p. 200).
L’ esempio di Hamid stimola anche uno dei suoi fratelli e in breve i due ragazzi diventano un punto di riferimento, una specie di «segreteria amministrativa» per gli altri «francesi-algerini» che gli sottopongono la corrispondenza e documenti vari; i due fratelli «ricevono i vicini con un’espressione grave che nasconde a malapena la loro esultanza e, dopo aver annuito, si lanciano nell’analisi dei documenti come se, al pari degli indovini dei tempi antichi, aprissero il ventre di un animale per decifrare messaggi segreti e superiori». (p. 217).
Arrivano gli anni della rivolta studentesca, Hamid ne è attratto, ma anche troppo giovane per essere direttamente coinvolto; uno dei suoi amici ha un fratello maggiore che studia a Parigi e così viene l’occasione di visitare la capitale. Qui conoscerà Clarisse; la storia d’amore tra i due (la ragazza è francese «vera») è molto bella, profonda, difficile, magistralmente narrata.
Hamid e Clarisse avranno quattro figlie, la terza, Naima (evidente alter ego dell’autrice del romanzo) ha il ruolo di riallacciare (non ricostruire) la storia della sua famiglia, a partire dal nonno Alì, con la terra d’origine, quella parte di Algeria che si chiama per l’appunto Cabilia.
Parigi, fine 2015, Naima lavora presso una galleria d’arte: qui sarà organizzata un’importante mostra dedicata a Lalla, un anziano pittore cabilo, il quale ha eseguito moltissimi disegni a inchiostro di formato minuscolo, usati per tutta la vita come biglietti da visita, mezzi di pagamento, sottobicchieri. La maggior parte di queste opere si trova in Algeria, a Tizi Ouzou, la seconda città della Cabilia
Naima è incaricata dell’organizzazione dell’evento e Chistophe, il suo capo, quando le parla, «ha l’ampio sorriso di Babbo Natale: Naima ti restituisco l’Algeria, Algeria ti restituisco Naima».(p.330).
La giovane donna è titubante, anzi, un po’ spaventata; papà Hamid, dal 1997, in seguito agli attentati del cosiddetto «decennio nero», ha vietato progetti di viaggio in Algeria da parte di qualcuna delle figlie.
Naima deve comunque incontrare Lalla, che vive a Parigi. Il pittore aveva partecipato alla conquista dell’indipendenza dell’Algeria per poi capire «che l’indipendenza non era tutto» (p. 341). Le riflessioni di Lalla e i suoi racconti (fantastica la descrizione del colpo di stato di Boumedienne del 1965) suscitano in Naima sentimenti contrastanti.
Vincere le paure non sarà facile: suo nonno Alì è arrivato in Francia nel 1962, quindi suo nonno Alì è harki, suo padre Hamid è harki e lei stessa è harki; in Algeria molti harki o loro discendenti o parenti che hanno provato a rientrare sono stati brutalmente uccisi. «La possibilità che un’azione compiuta da suo nonno o dal suo prozio cinquant’anni prima oggi ricada su di lei le sembra assurda – ma comincia appena a capire fino a che punto la rabbia sia perenne». (p. 362).
Naima deciderà di compiere il viaggio e la mostra sarà organizzata; il valore iniziatico di questa visita mi fa venire in mente che sarebbe bene che tutti potessimo vedere, almeno una volta, i luoghi di nascita dei nostri nonni, specialmente quelli più lontani dalla nostra abitazione.
Le conclusioni del romanzo (tre personaggi principali: Alì, Hamid, Naima, tre conclusioni) sono tutt’altro che scontate.
Finale: la trama delle storie è solida e avvincente, i toni letterali appagano tutte le esigenze, il libro scorre (un plauso anche alla traduttrice) che è un vero piacere. E’ un testo che suscita anche l’interesse di approfondire le conoscenza della storia dell’Algeria e della Francia. Una perla la poesia di Elizabeth Bishop (1911-1979) «L’arte di perdere» riportata a pag. 425: una bellissima poesia alla quale questo romanzo dà risposte in prosa.
Spesso, per ritrovarsi, occorre saper (esercitare l’arte di) perdere qualcosa.
Bravo Sergio queste recensioni sono un’ottima idea così mi sollevi dall’incombenza di cercare da solo i libri da leggere ( cercare in biblioteca…!) Grazie