Recensione di
SERGIO SALVI
«Il sogno di Sooley», autore John Grisham, traduzione di Luca Fusari e Sara Prencipe, edito da Mondadori pubblicato nel 2021, prima edizione maggio 202, pp. 343
In una frase: romanzo ricco di amore per il basket e i suoi protagonisti.
John Grisham, noto soprattutto come autore di avvincenti «legal thriller», è un inguaribile appassionato di pallacanestro; da adolescente si impegnò moltissimo per coronare il sogno di diventare un campione: «Tiravo a canestro per ore, riuscii ad entrare nella squadra del liceo… attorno ai sedici anni capii che la mia prodigiosa capacità di sognare era direttamente proporzionale a una palese mancanza di talento… così, come tanti ex giocatori, mi arresi e diventai un tifoso accanito». (p.343).
Il sogno che Grisham non ha potuto realizzare sembra invece alla portata del protagonista di questo suo romanzo: Samuel Sooleymon, un ragazzo di diciassette anni che vive a Lotta, uno sperduto villaggio del Sudan del Sud, paese tormentato da guerra civile e carestia.
Samuel viene invitato nella capitale, Juba, per partecipare ai provini di selezione per la nazionale giovanile di basket, in vista di un torneo/esibizione da disputarsi negli Stati Uniti: al momento della convocazione era alto quasi un metro e novanta ed era anche considerato un playmaker promettente, soprattutto perché velocissimo e dotato di sorprendente elevazione, per contro nel tiro era mediocre e anche i suoi passaggi erano spesso imprecisi.
La vita di Samuel è fatta di affetto per la famiglia, passione sportiva e dignitosa povertà, non miseria: «Quando non maneggiava il pallone da basket nei campi di terra del villaggio, Samuel si prendeva cura dell’orto di famiglia insieme ai fratelli minori e vendeva verdura sul ciglio della strada» (p.9). Il padre faceva il maestro, sotto una tettoia costruita dai missionari decenni prima, la madre era una casalinga non istruita, come tutte le donne del villaggio, invece Samuel si considerava fortunato: faceva parte di quella minoranza di maschi che avrebbe concluso le medie superiori. Non sono previsti corsi di studio per le ragazze.
La notizia del provino galvanizza gli abitanti del villaggio: «(…) era il momento più importante della storia recente (…) avevano visto Samuel crescere sui campi del villaggio e sapevano che era abbastanza bravo da riuscire a entrare in qualsiasi squadra e portare con sé i loro sogni» (p. 10)
Anche il viaggio verso Juba su uno sgangherato autobus (la «fermata» distava due ore di cammino dal villaggio) si trasforma in evento non appena gli altri passeggeri vengono a sapere che Samuel è un atleta e che, forse, sarebbe andato a giocare a basket in America: «Da qualche tempo la pallacanestro era un fiore all’occhiello per il Sudan del Sud, la fulgida promessa capace, a volte, di far dimenticare alla gente una storia nazionale di violenza e conflitti etnici. Di solito i giocatori sudanesi erano alti e snelli e giocavano con una grinta che sorprendeva non pochi allenatori americani» (p. 13).
I giovani che partecipano ai provini sono venti: ne saranno selezionati dieci.
Il responsabile della scelta è Ecko Lam, un allenatore nato in Sudan; aveva cinque anni, quando la sua famiglia era sfuggita ai guerriglieri riparando in Kenya per poi emigrare negli Stai Uniti, dove aveva scoperto il basket. Il suo sogno era diventato quello di allenare una squadra del campionato universitario, e ci era quasi riuscito, fermandosi al ruolo di vice allenatore, tuttavia aveva anche accettato l’incarico di un’associazione no profit come osservatore in Africa: «Adorava il suo lavoro e a quarant’anni era ancora mosso dalla certezza che la pallacanestro potesse cambiare la vita a tanti suoi connazionali. Portare la nazionale Under 18 a giocare i tornei -esibizione negli Stati Uniti era la parte migliore del suo mestiere» (p. 14).
Ecko Lam è credibile, i ragazzi conoscono la sua storia e le sue parole sono semplici: «Il primo a venire escluso dalla squadra non sarà chi non ci mette voglia o non ha talento, ma chi considera rivali i ragazzi di un’etnia diversa. Capito?» (p. 16), anche l’incoraggiamento al termine del primo allenamento è sobrio: «Ben fatto, signori. Vi ho visto belli carichi. Spero che continuiate così, perché noi siamo sudanesi del Sud e giochiamo col cuore. Nessuno si arrende, nessuno cincischia, nessuno fa lo scemo in campo» (p. 17).
Ecko Lam è gentile, disponibile, sincero e implacabile dal punto di vista tecnico: spiega a Samuel come migliorare il suo tiro; il ragazzo si impegna strenuamente, ma occorrerà tempo per portarsi su livelli realizzativi accettabili; Samuel ne è conscio: «Lui era sicuro di essere al capolinea» (p. 25) e «Si era convinto che il lungo viaggio di ritorno sarebbe stato orribile…» (p. 27).
In questa parte iniziale Grisham dimostra, ancora una volta, la sua abilità nel costruire situazioni di suspence e non voglio togliere il gusto ai potenziali lettori del romanzo, svelando l’esito della selezione. Samuel ci aveva comunque visto giusto a proposito del viaggio di ritorno: si rivelerà orribile a causa di una cruenta sparatoria tra soldati e banditi.
Al mondo della pallacanestro, alla gioia e alle speranze che suscita nei giocatori, allenatori, spettatori, alle speranze di riscatto umano e sociale ad esso legate e al mito del successo, riservato ai campioni, fanno da contraltare la spietatezza della guerra civile, la condizione drammatica dei deboli, la ferocia della miseria dei campi di raccolta degli abitanti, umiliati, depredati di tutto il poco che avevano e scacciati dai loro villaggi.
Due situazioni, vien da dire due mondi (eppure siamo sullo stesso pianeta, no?) totalmente contrapposti, eppure a tutti i protagonisti viene richiesto coraggio, forza e straordinaria dedizione per poter raggiungere anche il più insignificante dei risultati, per avanzare di un solo passo verso il traguardo sognato.
Grisham conduce il lettore nei dettagli degli allenamenti e nelle emozioni agonistiche, e poi lo mette di fronte, con misurata durezza, al dramma dei profughi. Sono persone che vivevano con serenità e con un accentuato senso di solidarietà la loro condizione, persone che non avrebbero lasciato spontaneamente il loro villaggio e invece, dopo la brutale uccisione di molti, i superstiti (praticamente solo donne e bambini) spogliati di tutto, sono costretti a una fuga disperata, verso l’ignoto, il tutto nell’indifferenza del mondo «civile»: «Dopo decenni di conflitti, massacri, accordi di pace traditi e innumerevoli vittime civili, ulteriori brutte notizie dal Sudan del Sud non ricevevano particolare copertura» (p. 84).
Penso che Grisham abbia visitato almeno un campo profughi, magari uno di quelli situati al confine tra Stati Uniti e Messico, certamente ha raccolto voci ed esperienze da chi in questi luoghi di infinita sofferenza ha prestato servizio umanitario. Lo scrittore restituisce le situazioni in modo sobrio e efficace, non vi sono frasi ad effetto o crudezze accentuate: la tremenda normalità dei fatti fa apparire ancora più colpevole l’indifferenza o addirittura l’idiozia («che restino a casa loro!») di chi vive una condizione fortunata, senza averne alcun merito e senza la consapevolezza di quanto possano essere precarie le fortune umane.
Finale: bel romanzo, da non perdere se si ama il basket; Grisham delinea molto bene i personaggi, anche quelli di contorno e anche con questo libro ne ho trovato conferma. Gli allergici allo sport potrebbero trovare un po’ troppo ampie le descrizioni delle partite, personalmente mi sono invece piaciute. La parte del libro che descrive i drammi della guerra civile e i disagi della vita nei campi profughi è di stringente attualità e può costituire un utile stimolo per approfondimenti, prese di coscienza e magari nuovi impegni.
Sergio ancora una volta la tua presentazione mi porterà in libreria . Ti ho sempre stimato al lavoro e oggi mantengo la mia opinione per la tua capacità a comunicare , complimenti
Quanto sei bravo Sergio, leggendo le tue recensioni attenuo i disagi della mia immensa ignoranza e ti ringrazio.