SILVANA MOSSANO
ALESSANDRIA
Tra un paio di mesi, l’avvocato Mario Boccassi – «Boc» – celebra sessant’anni di iscrizione all’Albo professionale. «Una dozzina di lustri nella aule giudiziarie» ha riassunto con la sottolineatura di un sorriso sereno il veterano del Foro alessandrino, in occasione dell’evento che ha segnato l’apertura della presidenza di Roberto Cavallone alla guida della Camera penale per il prossimo biennio, affiancato da Roberto Tava, Giuseppe Romano, Valeria Massolo, Pietro Ratti, Massimiliano Sfolcini, Marco Conti e Alexandra Saddi. L’incontro si è svolto nella suggestiva atmosfera della cascina «La Fornace».
Cavallone, un po’ emozionato al suo esordio presidenziale, ha spiegato che aveva immediatamente pensato al collega Boccassi per dare avvio all’attività che, secondo i progetti condivisi con il direttivo si articolerà tra iniziative di aggiornamento e incontri gioviali. «Gli avevo proposto di parlarci della sua carriera attraverso la narrazione dei processi più significativi, ma…». Ecco, appunto, ma Boccassi non era dell’idea di parlare di sé. O, almeno, non direttamente di sé. E tuttavia, indirettamente, tra gli intervalli musicali interpretati dall’elegante e virtuosa arpista Michela Maggiolo, ha finito per raccontarsi, o, meglio, per raccontare il suo sogno.
«I have a dream» ha esordito «Boc», facendo proprie le celebri parole di Martin Luther King.
Affascinante oratore e coinvolgente affabulatore, è partito lontano, dal «processo per eccellenza, che ha riguardato l’uomo più conosciuto al mondo: Gesù. Il “caso Gesù” – ha spiegato – è emblematico, perché è stato il primo esempio di processo mediatico». Un esempio antesignano dei processi che oggi molto – troppo – spesso vengono «celebrati» in tivù! Boccassi ripercorre le fasi salienti di quel procedimento: «Gesù era stato incriminato per essersi proclamato figlio di Dio, re dei Giudei. Il Sinedrio, presieduto dal Sommo Sacerdote, lo doveva giudicare, anche se erano già tutti concordi per la condanna a morte. Ma c’era un guaio: la condanna a morte era riservata soltanto ai cittadini romani». E dunque? «La folla voleva la condanna a morte. Ecco la mediaticità degli eventi». Come fare? «Fu mutata l’imputazione; Gesù fu imputato di sovversione, accusato di aver messo in crisi l’ordine pubblico: questi erano reati di competenza del prefetto romano». Che era Ponzio Pilato. Si presentò alla folla che invocava inferocita la morte: oggi flagellazione e condanna si infliggono semplicemente con un post su Facebook o con un tweet. «Ponzio Pilato si lavò le mani. Quante volte – ha commentato con rammarico il relatore – abbiamo conosciuto giudici che, se pur non materialmente, se ne sono lavati le mani. Quel primo processo è stato proprio bruttissimo e ha dato un pessimo segnale!».
L’excursus storico è passato attraverso la «rapidità e la faziosità» con cui è stata giudicata Giovanna d’Arco, incriminata per eresia e blasfemia e anche perché, «si vestiva da uomo, aveva i capelli tagliati da uomo, portava la spada e andava a cavallo. Tra i settanta capi di imputazione a suo carico c’era anche questa accusa! Beh, prima è stata arsa viva e, dopo qualche anno, è diventata la patrona di Francia».
Camminando lungo gli anni della storia, si arriva a un altro processo di matrice «religiosa», quello a Galileo Galilei, «anche questo da accantonare, così come quelli nei confronti di Giordano Bruno, Savonarola, Lutero. Fino ad allora – ha commentato Boccassi – di vera giustizia credo non se ne sia mai pronunciata».
E ha aggiunto che «anche il libero pensiero non era poi così tanto libero. Socrate, ad esempio, fu accusato di empietà, perché non aveva riconosciuto gli dei tradizionali, e di corruzione dei bambini… no, non nel senso che era pedofilo, ma perché voleva insegnare ai ragazzi le cose sagge del mondo».
Nel filone dei «processi politici», poi, Boccassi ha citato «il più grande avvocato oratore che ci sia stato sulla Terra: Cicerone». Fece una tragica fine: «Decapitato con la spiegazione che quella testa era da distruggere, per togliergli il “veleno” del suo pensiero. E gli fu anche mozzata una mano, perché la sua gestualità era considerata fortemente efficace nelle arringhe: insomma, era come spogliarlo di un’arma con cui sapeva e riusciva a convincere».
Dopo la disamina di alcuni emblematici processi di costume – a Oscar Wilde, Giacomo Casanova e al Marchese de Sade -, l’avvocato alessandrino è approdato al processo di Norimberga contro i crimini nazisti: «Dovevano essere giudicati fatti che non avevano mai avuto precedenti nella storia dell’umanità: come si fa ad addebitare a qualcuno un fatto che non ha una connotazione normativa?». Questo il primo difficile interrogativo, ma non unico: «La Corte era composta di giudici di quattro Paesi Francia, Russia, Inghilterra e Stati Uniti, una composizione che non poteva non suscitare perplessità circa l’obbiettività: i vincitori giudicano i vinti?». In realtà, «le garanzie esteriori c’erano, ma quelle fondamentali non c’erano per niente!».
Come altro esempio che ha agganci con il precedente, Boccassi ha evocato il processo a Slobodan Milosevic, il primo a un ex capo di Stato, sempre per crimini contro l’umanità, relativamente alle operazioni di pulizia etnica compiute dall’esercito jugoslavo contro i musulmani in Croazia, Bosnia Erzegovina e Kosovo. «Milosevic eccepì l’illegittimità del Tribunale penale internazionale, ma sulla contestata illegittimità doveva esprimersi la Corte stessa! La risposta a questa questione non ci fu, perché l’imputato morì in carcere prima del verdetto».
Arrivato al termine di quella che ha definito «una passeggiata tra amici», cioè i numerosi colleghi presenti, Boccassi ha tratto le conclusioni, cercando un senso tra le tortuosità di «ingiustizie, torti, buio e ombre» che hanno segnato il tragitto e le tappe della storia giudiziaria nei secoli.
Ingiustizie, torti, buio e ombre che il principe del Foro alessandrino ha anche toccato con mano in vari tribunali.
Rassegnarsi? Non è nel carattere di «Boc». «Saldamente aggrappato a un ramo di fragole», l’uomo, innamorato e orgoglioso della toga indossata per quasi sessant’anni, ha trovato anche raggi di giustizia, equità, luce.
E per darne prova ha raccontato, unico episodio personale della sua narrazione a «La Fornace», di un processo che si celebrava – «…quanti anni fa, ormai…» – davanti al pretore.
«Era un caso delicato – ha premesso -. L’avvocato di controparte era un amico, professionista bravo, corretto, preparato. E il pretore, che era pure amico di entrambi, doveva giudicare chi di noi due aveva ragione. Alla vigilia del processo – ha proseguito Boccassi -, mentre mi trovavo in pizzeria, quel pretore è passato di lì, abbiamo fatto amabilmente due chiacchiere e poi se n’è andato. Io, lo confesso, mi sentivo rasserenato», forse immaginando una particolare benevolenza da parte del giudice.
«Anni dopo, venni a sapere che, la stessa sera, quel pretore si era fermato in un altro ristorante dove stava cenando il mio collega che sosteneva la parte avversa». Come andò a finire? «In quel processo fui sconfitto e, tuttavia, ho avuto la netta percezione che la sentenza fosse giusta, perché quel pretore l’aveva espressa in perfetta buona fede, con sicurezza e serenità. Questo è il modello di giustizia – ha concluso «Boc» – che ci induce a credere e a chiedere, cari colleghi, che nella sede di un tribunale (la chiesa della nostra laica religiosità), in un processo (che è la nostra messa), a fronte delle nostre arringhe (che sono le preghiere), un magistrato sia sereno, obbiettivo e libero nel giudicare. E’ questo il giusto processo che vorrei. Questo è il sogno».