SILVANA MOSSANO
«Cleopatra» ha segnato il mio doppio battesimo: con il cinema e con la pizza. Avevo sei anni, o poco più, quando mia nonna e mia zia ritennero che fosse giunto il momento per farmi conoscere il grande schermo scegliendo, come esordio, il kolossal storico con Liz Taylor, affascinante regina d’Egitto, e Richard Burton, nei panni di Marco Antonio, amanti sul set e nella vita reale. Un anno dopo, uno zio incentivò la mia formazione cinematografica proponendomi un forse più adeguato «Mary Poppins», con quel meraviglioso scioglilingua «supercalifragilisticespiralodoso», che divenne il simpatico tormentone in cui si cimentavano, indifferenti all’età, bambini, ragazzi e adulti.
Mentre la memoria è vivida per quanto riguarda la pizza, non riesco a ricordare se «Cleopatra» fosse stato proiettato al Moderno o al Vittoria. E non posso più domandarlo a chi saprebbe dirmelo con precisione: né Giovanni Daghino, che gestì per più di mezzo secolo la sala cinematografica di via Roma, né Giovanni Rosso, titolare di quella di via Cavour. Daghino è morto in questi giorni, 1° gennaio 2021, all’età di 96 anni. Giovanni Rosso, benché più giovane, lo aveva preceduto già nel 2011, all’epoca settantanovenne.
La pizza «Napoli» – mozzarella, pomodoro e acciughe con un meraviglioso e pungente profumo, all’epoca inedito per chi stava qui al Nord – la mangiai alla «Capri», in piazza Rattazzi, dove ci sistemarono a un tavolino poco distante dalla porta d’ingresso. Dopo un po’ di attesa, mi fu servito, su un piatto di ceramica bianca, un grande cerchio di pasta di pane dai bordi gonfi, coperto di salsa rossa con chiazze bianche di formaggio e una spolverata di puntini verdi di origano. Nonna e zia mi concessero di mangiarne solo metà «perché sei ancora piccola». Furono irremovibili. A me era piaciuta così tanto che non aver potuto mangiare anche l’altra metà mi dispiace ancora adesso.
La «Capri» è stata una delle prime pizzerie che hanno messo radici a Casale, attirate da una clientela numerosa, assicurata dalla presenza di due caserme di fanteria: la «Bixio», cioè il «casermone» a Porta Milano, e la «Mazza», cioè le «casermette» al Valentino, con il ricambio di migliaia di reclute ogni mese e mezzo, più i parenti che arrivavano da ogni dove per partecipare festanti alle affollate cerimonie del giuramento.
In pizzeria mi ci portarono appunto dopo aver visto il film: mi è nitido il ricordo delle ultime scene con la regina d’Egitto Cleopatra-Liz Taylor, distesa su un giaciglio sontuoso, morente dopo essersi fatta mordere da un serpente velenoso, un aspide narra la leggenda (storicamente controversa), «’na vipera» tradusse mia zia.
Il Moderno e il Vittoria, insieme al Politeama in via Morini poco distante dal ricovero, sono state le sale che hanno fatto sognare generazioni di casalesi. C’era anche il Nuovo (ex Mondial), in via Trevigi, ma, da un certo momento in poi, per tentare di farlo stare economicamente in piedi, nonostante fosse decaduto parecchio, avevano cominciato a proiettarci pellicole diciamo così un po’ particolari, adatte a un pubblico maschile. «Purcarìa», liquidava sbrigativamente mio padre. Quel cinema fu poi trasformato in discoteca, con non pochi strascichi di polemiche. E c’era pure, in città, il «Silvio Pellico», in locali del Seminario (divenuto, negli anni Novanta, Auditorium San Filippo), tra via della Biblioteca e piazza Statuto, dove si faceva qualche cineforum.
Giovanni Daghino (in una foto giovanile, tratta dal sito della Junior Casale) aveva cominciato a occuparsi direttamente del Moderno nel 1948, subentrando al padre che, un decennio prima, arrivato da Torino, aveva assunto la gestione anche del Vittoria e del Politeama. «Il» Giovanni Daghino a Casale aveva frequentato l’istituto Leardi e si era diplomato geometra; lavorò in uno studio tecnico, ma poco. Fu principalmente uomo di spettacolo e di sport. Meglio: appassionato uomo di spettacolo e di sport. Nel basket fu promotore e personaggio di vertice nelle società che portarono il nome di Casale ad alte vette, presidente della Junior dal 1959 al 1980. Giancarlo Cerutti, attuale presidente d’onore della Junior Casale, lo ricorda con queste parole: «Tutta la Junior Pallacanestro si inchina deferente al ricordo di un Uomo che ne ha segnato così profondamente la storia».
E amò il cinema, non soltanto perché era la sua fonte di reddito.
I colori dominanti del Moderno erano il rosso e l’oro. In ottone dorato erano, ad esempio, i maniglioni della porta a vetri: li spingevi e ti trovai nell’atrio, che non era grandissimo, ma, tra specchi, colonne e appliques accese, sembrava di entrare in un luogo di fiaba. A sinistra c’era la cassa, con un cartello esposto su cui erano segnati i prezzi dei biglietti: primi posti, secondi posti e platea. Per accedere alle sale, al piano terreno e al piano di sopra, si forzavano con le mani spessi tendaggi di velluto rosso, lo stesso colore che era delle poltrone. I gestori dei cinema dovettero rifare tutto, utilizzando rigorosamente materiali ignifughi, dopo l’incendio del cinema Statuto a Torino, il 13 febbraio 1983: erano morte soffocate 64 persone. Forse proprio da un tendaggio si erano propagate le fiamme.
Il restyling comportò un grosso esborso per le piccole sale di provincia, ma non si poteva fare diversamente se si voleva tenere aperti.
All’epoca, tra l’altro, gli spettatori potevano tranquillamente fumare in sala, cosicché, durante la proiezione, la penombra si addensava di nuvole di fumo che salivano su fino a un immaginario dissolvimento nei fasci di luce che dalla macchina da presa, nascosta dietro una finestrella quadrata in alto, puntavano diritti verso il grande schermo. L’atmosfera era magica, includeva il crocchiare delle carte di caramella, i colpetti di tosse ogni tanto, i singhiozzi sommessi per qualche scena tragica o le risate gustose per quelle comiche. Quando, tra un tempo e l’altro, si accendevano le luci, ci si guardava intorno quasi smarriti e sorpresi di tornare, per qualche minuto, nel mondo reale. Non era obbligatorio entrare prima dell’inizio del film; se arrivavi che era già cominciato, ti sedevi, guardavi da lì in poi aspettando il finale e recuperavi lo spezzone perduto nello spettacolo successivo fino a che «qui l’abbiamo già visto, usciamo pure». Oppure se proprio ti piaceva molto, te lo riguardavi tutto, senza sovrapprezzo. Le coppiette avvinghiate restavano lì ore e ore, anche se poco interessate allo scorrere della pellicola.
Andare al cinema era così, in quegli anni, fino a quando, anche in una piccola città, si cominciò a parlare di multisale. Il Politeama era già stato ridotto a Cine Poli con la programmazione affidata a Giampaolo Minazzi. Moderno e Vittoria cercarono di resistere; provarono persino a ipotizzare il primo un trasferimento nella struttura del «Piccaroli» dismesso dalla sua originale funzione mercatale, il secondo proponendo un progetto di moltiplicazione in tre sale di dimensioni più contenute nella stessa struttura. La questione animò anche un vivace dibattito politico, con la lista civica «Città Insieme» in difesa dei cinema cittadini del centro storico che non avrebbero dovuto essere chiusi a discapito di una multisala moderna, più ampia e articolata, ma periferica, in piazza d’Armi. Battaglia persa.
Il 30 giugno 2001 fu l’ultimo giorno di apertura del Moderno. Io trascorsi alcune ore insieme a Daghino, a chiacchierare seduti su un paio di sedie in legno ribaltabili, collocate sul lato destro dell’atrio. Lui scuoteva la testa mestamente e ripescava nei ricordi. Per ravvivarli, ogni tanto si alzava e tirava fuori, da un piccolo sgabuzzino, vecchie locandine e manifesti di pellicole famose che aveva collezionato e custodito. Una volta li aveva pure esposti, con orgoglio, al Salone Tartara.
Mi attardai molto, non me la sentivo di lasciarlo lì da solo in un giorno così. Uscii che le luci dell’atrio erano accese, per l’ultima volta, per l’ultima sera.
Mi ha spesso telefonato, negli anni a venire, per farmi gli auguri di Natale. E quando lo incrociavo per strada, bel portamento in giacca e cravatta o maglia dolcevita, con il paltò di colore grigio spigato se d’inverno, attraversava la strada per salutarmi, riempiendo le labbra e gli occhi di un ampio e garbato sorriso. Era rimasto tra noi il legame condiviso in quello storico giorno di commiato. Ma non ho mai avuto animo di domandargli se, tirando la serranda, avesse pianto. Io sono sicura di
sì.
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Grande Silva, gran bel ricordo, scritto come solo tu sai fare.
mi piace
Che bei ricordi