LA MIA TERRA
di Silvana M.
Ho in un pugno questa terra potente che mi ha generato
e che sporca di nero la linea della vita
inseguendo senza briglie un ignoto destino
tanto pazzo da non rendere conto a nessuno.
Questa terra leggiadra che mi seduce maliarda,
questa terra incolpevole eppure bastarda
che mi ha fatto soffrire, che mi ha fatto ammalare
e che ha spinto il mio essere quasi ad odiare.
Questa terra ho difeso e per lei ho lottato.
Sì, è vero, qualche volta ho imprecato,
ma in un pugno la tengo e non l’ho mai tradita.
E’ la terra che un giorno mi riprenderà in un fiato.
(Dal recital “Amor che move il sole e l’altre stelle”, di e con Sergio&Silvana)
* * *
TERRA DI MONFERRATO
Racconto di Silvana Mossano
Due figure affiancate fendevano l’aura ancora bruna che si andava, via via, rischiarando, con striature sfumate che attraversavano il cielo smorzando le stelle. La bambina aveva una vestina di cotone a quadretti bianchi e azzurri, con un golfetto sopra, perché, anche se era di settembre e il sole, da qui a un po’, sarebbe stato caldo, ancora ristagnava l’umidità della notte che metteva addosso certi “frison”… Aveva cinque o sei anni, non di più, i capelli ricci legati a coda di cavallo. In una mano teneva stretto un ramo con cui disegnava figure immaginarie nell’aria, l’altra mano era avvolta in quella della madre che le stava al fianco e che reggeva su un braccio una borsa rigonfia di panini di salame: l’aveva affettato, appena prima di partire, con la “curtela” affilata su una pietra.
Quando iniziarono la salita di Ozzano, ormai era già giorno, con un cielo terso che pareva una tavola e un’arietta frizzante che smuoveva l’erba sul ciglio della strada. “Sei stanca? Vuoi che ci fermiano?” s’informava ogni tanto la madre. “Quando sei stanca aspettiamo la corriera”.
Ma la bambina non era stanca.
Si fermarono più avanti, a Madonnina, quando camminavano ormai da quasi tre ore. Si sedettero su una panca di pietra e scartocciarono i panini. Poco distante c’era una fontanella. La bambina unì le mani a conchiglia e bevve, mentre le gocce scivolavano fino al mento e cadevano sulla vestina a quadretti. Ripresero il cammino, imboccando, di lì a poco, i sentieri nel bosco. “Questa è una scorciatoia, si arriva prima in cima” le disse la madre. Per ingannare la fatica che metteva un gran male ai polpacci, la bambina contava gli scalini sui sentieri e pestava le foglie che scricchiolavano. Ogni tanto, si avvertiva il fruscio di un animale che fuggiva al loro passaggio. “Guarda, mamma, un nido!”. Di nido in nido, di scalino in scalino, di foglia in foglia arrivarono.
“Eccoci a Crea – annunciò la madre -, ma per salire al Paradiso c’è n’è ancora un pezzetto; il più, però, è fatto”. La bambina si guardò intorno nel piazzale che le parve immenso, e vide la chiesa, il negozio dei gelati, quello delle madonne e dei rosari, e un viale sterrato che saliva. “Da lì si va in Paradiso?”. Ma prima entrarono in chiesa, perché suonavano le campane e stava per iniziare messa grande
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E’ un colle alto poco meno di cinquecento metri, ma tutti, nella terra di Monferrato, lo chiamano monte. Anzi, un monte da scrivere con la maiuscola. Perché è un Sacro Monte. Il Sacro Monte di Crea, immerso in un parco naturale, e assunto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Da molti decenni, migliaia di persone arrivano lì, in ogni stagione dell’anno, a inginocchiarsi davanti alla Madonna del santuario, collocata in una deliziosa cappella, a sinistra dell’altare maggiore. E, dopo le preghiere, i pellegrini, che magari fino a lì ci sono arrivati a piedi, partiti nella notte da chissà dove, camminando ore e ore per adempiere a un voto, imboccano i sentieri che si attorcigliano intorno al Sacro Monte per arrivare fino in cima, fermandosi alle cappelle, che sono ventitre più cinque romitori. E la fatica – il passo greve e ormai lento, ma con lo spirito ristorato dalla vegetazione e dal silenzio mistico – è premiata dalla conquista della vetta su cui sorge il Paradiso, la cappella più grande con gruppi statuari stupendi, uno imponente appeso al soffitto. Dieci anni è rimasta chiusa per essere restaurata e, quando è stata restituita agli occhi di tutti, ha inebriato di meraviglia. Anche le altre cappelle del percorso devozionale vengono via via restaurate e mostrano preziose opere pittoriche e scultoree.
Ma Crea, oltre che religione e arte, è anche la natura intatta del bosco, smossa dal brusìo delle foglie e degli uccelli e degli animali. E ci si sente bene, in pace, come in un monastero che sta in piedi senza pilastri né pareti. Doveva sentirsi così Cesare Pavese, durante le sue passeggiate e le lunghe soste per letture, dopo l’8 settembre del ’43, sfollato da Torino e ospite della sorella Cesarina a Serralunga (ne parla ne “Il mestiere di vivere”), prima di trovare lavoro a Casale come insegnante con lo pseudonimo Carlo Deambrogio, al Collegio Trevisio dei Padri Somaschi: “Quel giro di portico intorno al cortile, quelle scalette di mattoni per cui dai corridoi s’andava sotto i tetti…” scrive ne “La casa in collina”.
Fino a un po’ di anni fa, a Crea, si adorava la Madonna bruna, e le fu dedicato persino un inno…”Fanciullo ti sognai Madonna bruna, quando ai materni canti m’addormia, e tu vegliavi su la bianca cuna, dolce Maria”. Finché un bravo restauratore ebbe la statua tra le mani e scoprì che, in realtà, era bianca, ma annerita dal fumo delle candele votive. Si temeva uno choc spirituale. Invece non accadde: i fedeli continuarono ad amarla, perché è la Madonna di Crea. E di aiuti ne ha dati assai, come dimostra il lungo corridoio, a fianco della chiesa, dove sono appesi, fino al soffitto, centinaia e centinaia di ex voto. Una sorta di galleria d’arte che racconta un pezzo di storia popolare e merita una visita. “Morranno i sogni; ne la fredda bara per sempre, o Pia, ritroverò la cuna, ma tu mi veglierai, Madonna cara, Madonna bruna”.
A mezzogiorno, era da poco finita messa grande, quando arrivò una piccola comitiva sulla piazza. La bambina e la madre vi andarono incontro. C’erano il padre, le nonne, gli zii. Portavano due ceste di vimini coperte di teli bianchi. Raggiunsero una tavola di pietra, al di qua e al di là c’erano due panche, anch’esse di pietra, che ti gelava il sedere. “Metti un foglio di giornale sotto, così non senti freddo”. Sulla tavola fu distesa una tovaglia a fiori che profumava di sapone di Marsiglia. Sopra, furono appoggiate le bottiglie di vino, le ”monferrine” e le “biove” fragranti, i salami di suino e quelli d’oca, – “sono andata a prenderli sul solaio stamattina” disse la nonna della campagna -, la tazza con il “bagnet” verde, i “friciulin”, le acciughe sott’olio e un panetto di burro e, ancora, la torta che profumava di scorza di limone grattugiata. E mangiarono di gusto, perché lì si stava bene, e c’era una brezza che pizzicava le guance, e gli uccelli che cinguettavano, e gli odori dei cibi che si mescolavano. “Più tardi vai a prenderti il gelato”. “Il cono di fragola e limone?”. “Se fai la brava sì”.
Crea è uno dei gioielli della terra di Monferrato, ma non l’unico, perché questo pezzo di Piemonte è uno scrigno prezioso che ne raccoglie molti altri. E’ la terra delimitata dai confini che, in tre giorni e tre notti, secondo la leggenda, riuscì a segnare Aleramo, genero dell’imperatore Ottone. Si era nel 960 e il suocero gli promise un regno grande quanto egli appunto sarebbe riuscito a toccare in una cavalcata di tre giorni e tre notti. Aleramo tracciò un perimetro compreso tra l’entroterra ligure e la zona di Chivasso. Fu chiamato Monferrato, forse perché Aleramo aveva ferrato il cavallo con un mattone (un “mon”). Nel 1305 la dinastia degli Aleramici si estinse, e il Monferrato passò ai Paleologi che, persa Chivasso, trasferirono la capitale del marchesato a Casale, sede anche di diocesi. Esaurito il ramo paleologo, nel 1559 il Monferrato passò ai Gonzaga, duchi di Mantova, e, agli inizi del 1700, ai Savoia. Napoleone visitò la città nel 1805 e le conferì un ruolo di primaria importanza. Dopo l’Unità d’Italia, Casale e il Monferrato divennero un centro economico pulsante, prima per le industrie del cemento, poi del freddo e della macchine da stampa. Tutta questa storia ha lasciato tracce straordinarie, che si incontrano lungo il cammino attraverso una cinquantina di Comuni che compongono la terra di Monferrato. Qualche anno fa, una mano grafica ne disegnò una linea intorno, un po’ come aveva fatto, con la spada, il cavaliere Aleramo. Ci si accorse che ne scaturiva il disegno di un uccello in volo. Una poiana – si pensò – come quelle che volano di ramo in ramo di campanile in campanile, in questa terra leggiadra e quieta, ricca ma non sfarzosa, perché la ricchezza vera è quella riservata e schiva, che si lascia scoprire, a poco a poco, svelando ogni volta un nuovo segreto.
Ciascun Comune, che, tra capoluogo e frazioni, oscilla tra 150 e 1500 abitanti, è un cofanetto portagioie, perché ovunque in qualche epoca ci fu chi lasciò traccia di bellezza, di arte, di decoro. A partire dalle chiese che, tutte, conservano opere pittoriche e scultoree (purtroppo, molte sono state trafugate dai ladri e mai più ritrovate, altre sono state allontanate dai luoghi originali e collocate in più sicuri depositi) su cui hanno posto mano, per fare pochi esempi, Pier Francesco Guala, Guglielmo Caccia detto il Moncalvo o la figlia Orsola, Martino Spanzotti e molti altri. Suggestiva, soprattutto per la posizione dominante, la chiesa di Treville in cima alla vetta che domina a tutto tondo il paesaggio collinare intorno.
Ogni chiesa ha un campanile e ogni campanile dà la cadenza del tempo in questo luogo che ha conservato il fascino delle cose antiche. Così le campane, anche se quasi tutte ormai collegate con l’orologio meccanico che ne fa scattare i rintocchi, si richiamano l’un l’altra nei mezzogiorni primaverili ed estivi e più ovattate suonano in quelli brumosi d’autunno, passando sopra i filari dei vigneti, sui campi di grano, riso e granturco, insinuandosi tra i frutteti e i pioppeti, sfiorando a pelo d’acqua il grande fiume, e i rii e i torrenti e i fossaloni e i canali. Tempo fa, alcuni milanesi, che per mestiere si occupavano di musica, presero una casa di vacanza in un paese del Monferrato casalese, poco sotto la chiesa parrocchiale, che stava in cima alla collina. Posizione splendida, vista suggestiva, pace infinita. Senonché le campane suonavano, a ogni ora (e anche a ogni mezza), tanto nel giorno quanto nella notte. Dissero al parroco che, di notte, le campane disturbavano. Il vecchio prete pensò che scherzassero, li guardò di traverso e continuò a suonare. Ma i milanesi che per mestiere si occupavano di musica andarono dal giudice per trovar ragione. La questione si seppe e nel paese esplose la ribellione: come poteva accadere che si facessero tacere le campane che suonavano da sempre? Fecero tutte le misurazioni tecniche, decibel e controdecibel. Furono pure scritte delle sentenze. Ma il parroco continuò a suonare le campane.
Oltre alle chiese, che odorano d’incenso, di fumo di candela e di cera passata sugli ottoni, lungo le strade, anche minori e sterrate, s’incontrano, di tanto in tanto, le cappelle votive, con affreschi di santi e madonne protetti da una grata di ferro battuto in cui sono infilati mazzi di fiori di campo.
Il carro era una “barosa” prestata da un contadino; le mani e la fantasia delle donne l’avevano trasformato in una sorta di baldacchino regale. Gli assi e le ruote erano stati rivestiti di grandi teli di raso candido, decorati con rose e nastri dorati. Sopra, gli uomini avevano disposto la statua della Vergine, che sorrideva dall’alto a tutti quelli che trafficavano lì intorno. Poco distante, la banda musicale con la divisa blu provava le note, e la campana suonava a distesa. I bambini più piccoli furono sollevati a braccia e caricati sul carro addobbato, nello spazio tra le sponde della “barosa” e la statua della Madonna. Indossavano abiti bianchi da angioletti, in testa avevano una corona di cartone rivestita di carta stagnola oro o argento e, sulle spalle, le ali, anche queste di cartone, dorate o argentate, tenute ferme dagli elastici. Altri bambini e bambine più grandicelli, sempre con vestiti da angeli, ma di colore azzurro o rosa, erano disposti su due file ai lati del carro e stringevano cestini di vimini ricolmi di petali di rose che avrebbero sparso lungo il tragitto. Davanti, ci stavano quelli con il vestito della Prima Comunione, candido di piquet per le femmine, grigio con la fascetta di raso bianco sul braccio per i maschietti. La banda cominciò a suonare e le donne, con le candele accese, intonarono “Noi vogliam Dio che è nostro Padre, noi vogliam Dio che è nostro re…”. Alcuni uomini, dandosi il turno, tiravano il carro, seguito dal prete e dai chierichetti. “Ave Maria, gratia plena…”. La processione sfilava lungo le strade. Alle finestre e sui balconi erano state stese lenzuola di lino ricamate, coperte drappeggiate di raso rosso o giallo oro, ed erano state esposte statue o quadri di Madonne, e candelabri, e mazzi di rose e giaggioli, vasi di ortensie, perché si faceva a gara tra chi addobbava meglio.
Su uno sperone della riva destra del Po, sorge l’antico castello di Camino, costruito nell’XI secolo, ampliato trecento anni dopo, sottoposto a molti restauri tra il 700 e l’800, dotato di una maestosa torre di avvistamento e circondato da uno splendido parco. E’ uno dei manieri disseminati nel Monferrato, che fu terra di marchesi, duchi, conti. Così, se a Camino ebbero dimora gli Scarampi, a San Giorgio, nel castello anch’esso dell’XI secolo, vissero Paleologi, Gozani, Cavalli d’Olivola, a Gabiano i nobili genovesi Durazzo, poi i Cattaneo e gli Adorno Giustiniani. Al castello di Lignano a Frassinello, di origini remote (fu addirittura una villa gentilizia romana, poi trasformata in fortilizio dai Longobardi) che riporta stemmi della famiglia Grisella, si aggiunge, nel capoluogo, anche il castello che ospitò i Nemours e dove ci sono ancora i resti della camera della tortura. Più di un maniero anche a Rosignano: il castello d’Uviglie, con la cappelletta privata dove sostava a pregare, nel 1580 e 1581, San Luigi Gonzaga, il castello di San Bartolomeo alla Colma e quello di Bacino. E poi castelli a Ozzano, Ponzano, Odalengo Grande, Moncestino, Montalero di Cerrina, Razzano di Alfiano Natta, a Ottiglio, a Murisengo che ospitò la famiglia Guasco di Bisio. C’è poi un castello che attira per il suo stile e le forme monumentali, anche se non è antico: quello di Cereseto, che risale ai primi decenni del XX secolo. Lo fece costruire, con grande dispendio di risorse, il finanziere torinese Riccardo Gualino, a lungo in affari con la famiglia Agnelli, e che aveva sposato la casalese Cesarina Gurgo Salice. Il maniero ebbe vita tormentata e, forse anche per questo, conserva tutt’ora un grande fascino.
E se non sono castelli, sono dimore nobiliari, suggestive e leggiadre. Come la “casaforte” gotica di Cerrina, ad esempio, o le costruzioni patrizie edificate a Moleto di Ottiglio tra il 700 e l’800 e, da qualche anno, ristrutturate in modo da creare un borgo incantevole. E, ancora, Palazzo Callori di Vignale che ospita l’Enoteca regionale del Monferrato. Vignale, da oltre un quarto di secolo, è diventato il paese della danza per antonomasia, poiché ospita uno dei festival estivi del balletto più celebri in Italia, “Vignaledanza”. E, così come c’è il paese della danza, dallo scrigno della terra monferrina esce Cella Monte, il paese della musica, che risuona di note di concerti in ogni stagione dell’anno, mentre dal profondo degli infernot di tufo si innalza l’aroma del vino buono, custodito in queste cellette scavate in profondità dagli antichi vignaioli, durante i lunghi inverni. E c’è il paese dell’arte e dell’artigianato antico che è Conzano: la sua Villa Vidua, che fu del celebre conte viaggiatore Carlo Vidua, è divenuta galleria d’arte che richiama artisti contemporanei famosi nel mondo, a cui piace esporre qui, e tornare qui, non foss’altro per condividere un gusto raffinato, per godere di quella vista intorno, per inebriarsi di colori e suoni e quietarsi nella magia mistica dei presepi del mondo a Natale. Olivola è il paese del jazz, per le sue rassegne invernali. Coniolo è diventato il paese delle rose da quando ha iniziato a ospitare una mostra mercato florovivaistica di grande richiamo, nazionale e non solo, nell’ambito della bella rassegna “Riso&Rose” che da alcuni anni si rinnova a maggio. Altavilla è il paese della grappa, per le celebri aziende che la producono (ma c’è anche un museo del tramvai e uno degli sport sferistici). Frassineto Po può fregiarsi, ora, del titolo di paese dell’editoria rara, da quando, lo scorso anno, è diventato il primo ”Villaggio del libro” in Italia (“il luogo dove i libri non muoiono mai”), e ha già ospitato mercatini e mostre; ora, deve impegnarsi a portare scrittori e lettori e magari organizzare laboratori di scrittura e di lettura. Tra l’altro, aveva sangue frassinetese, come si legge nel prezioso volume “Viaggi d’autore in Monferrato” di Luigi Angelino e Dionigi Roggero, la scrittrice Cesarina Teresa Ubertis, in arte Térésah, tra fine 800 e metà 900, la cui madre Bianca Trolli era nativa del paese monferrino. C’è un Comune, poi, che potrebbe candidarsi a diventare il paese delle bande musicali, perché è sua l’unica banda ancora attiva del Monferrato casalese: Occimiano. Dovrebbe organizzare un festival e fare concerti e parate. Non perda questa opportunità! A Murisengo va il titolo di paese delle trifole per le sue storiche fiere autunnali, cui, però, da qualche anno, si affiancano Cella Monte, per il tartufo bianco della Valle Ghenza, e Serralunga di Crea, nonché Cerrina e Odalengo Piccolo; quest’ultimo. è altresì il paese delle mele antiche, Valmacca degli asparagi, Rivalba dei meloni, Borgo San Martino delle fragole, Frassineto dei peperoni, Vallegioliti di Villamiroglio dei piselli. Villadeati, invece, ha l’appellativo di paese delle fonti (celebri quelle di San Lorenzo e delle Sette gocce); altre s’incontrano a Odalengo Piccolo, ad Alfiano Natta, a Murisengo (la Pirenta), a Ponzano, a Crea, a Vignale (la Salera) e a Casale (la Morana). Di recente, inoltre, artisti contemporanei di tutto il mondo sono stati invitati a progettare delle “fontane d’autore” che saranno realizzate nelle piazze dei paesi di pianura.
Sotto il portico, sul finire dell’estate, si preparava la conserva. Le donne portavano ceste piene di pomodori e, poi, sedute su sbilenche sedie impagliate e sgabelli, li pelavano, a uno a uno, magari “sbuientandoli” prima, perché la buccia viene via meglio. E le galline razzolavano e i bambini giocavano, saltando su e giù dai “balot” di paglia. Quando tutti i pomodori erano sbucciati e schiacciati per togliere le “garmele”, si accendeva il fuoco e si posava sopra un grande pentolone dove i pomodori, profumati con il basilico e il lauro e tutti i sapori dell’orto, dovevano cuocere ore e ore, lentamente – puf puf -, rimestando perché non attaccasse il fondo, che poi resta il “gusto amaro di arbrus”. E gli occhi delle donne erano attenti a sorvegliare i bambini, che ne erano già capitate di disgrazie con la conserva: la bambina che era morta ustionata perché finita contro il pentolone, il bambino che era rimasto sfigurato e altre storie così, che si andavano raccontando, mentre il profumo aspro del pomodoro si spandeva intorno.
Le colline del Monferrato sono tracciate dai filari dei vigneti rigogliosi e muti sotto il sole, che si animano sul finire di agosto e per tutto settembre nel periodo della vendemmia, quando i grappoli, turgidi e rigonfi, finiscono nelle ceste, poi nelle brente e quindi sui carri, per arrivare fino alle cantine dove il mosto diventerà vino. E’ un mondo magico che trae forza dalla terra, e da una commistione equilibrata di sole e di pioggia, per completarsi in un’esplosione di vapori e di odori intensi e aspri nelle cantine, dove anche la tecnologia, che pure è entrata, non ha sopraffatto la virtù della paziente attesa, perché il ciclo abbia un compimento armonico. Il Monferrato è la terra del Barbera e del Grignolino, che si fregiano del marchio doc come pure tre vini di nicchia: Gabiano, Rubino di Cantavenna e Malvasia di Casorzo.
Le sere d’estate si stava fuori dall’uscio: i grandi seduti sulle sedie tirate via dalla cucina o sulle panche di pietra sotto la “topia”, i bambini a scorrazzare nel cortile sterrato. Gli uomini fumavano la pipa o la sigaretta e le donne si facevano aria con i ventagli e chiacchieravano: gli uomini del governo ladro, le donne di ricami e fiori. E i ragazzini correvano dietro una palla “sgonfia” finché faceva buio e il cielo si puntinava di stelle e sfoggiava la luna piena. “Quando c’è la luna piena nascono i bambini” sentenziava una nonna. I ragazzetti si avventuravano nell’orto, passando tra le canne delle “tumatiche” – i pomodori – e i rami degli “arbion” – i piselli -, scavalcando melanzane e peperoni, prezzemolo e cicoria. “State attenti dove mettete i piedi” si raccomandavano le donne. I ragazzi inseguivano le lucciole e quasi non fiatavano per paura che se ne andassero lontano. Tic tac, tic tac, si accendevano e si spegnevano le lucciole. “Ce l’ho” ogni tanto un’esclamazione, gridata sottovoce, a significare che tra le mani unite a conchiglia c’era la lucciola che lampeggiava e la si poteva vedere aprendo, appena appena, una fessura tra le dita. Poi la si lasciava andare, per non farla morire e per prenderne un’altra.
Scendendo dalle colline verso valle si passa dai vigneti ai campi di grano, di granturco, alle risaie, inframmezzate, di tanto in tanto, da processioni di pioppi e da filari di gaggie soprattutto lungo i fossi. Nella discesa, si incontrano, in alcune zone, vecchi tralicci abbandonati, testimoni di un tempo passato, ma neppure troppo lontano. Sono quelli che collegavano i fili su cui scorrevano le teleferiche che portavano la marna, prelevata dalle cave, fino a valle nelle fabbriche di cemento, tra Ozzano e Casale.
La campagna pianeggiante casalese, in primavera e d’estate, è come se si accendesse di luce: oro sui campi di grano, d’argento sulle risaie, rosso nei prati di papaveri, giallo di ranuncoli. Da alcuni anni sono tornate le margherite, che per un certo periodo non si trovavano quasi più.
I paesi della piana si susseguono, uno dietro l’altro, con una sequenza di campi, poi di case, soprattutto gialle, con le “gilusie” (le persiane) verdi e i coppi rossicci; poi le cascine isolate e altri campi e fabbriche che cedono il passo ad altri prati, ad altre case, ad altre fabbriche. A lato delle strade corrono i fossi, che d’estate si riempiono d’acqua proveniente dai canali, e d’inverno sono pieni di muschio aspro da farci il presepe. Ogni casa ha un orto, di cui s’intravedono le canne dei pomodori e dei fagioli, e qualche albero di ciliegie e di amarene, di albicocche e di mele. Davanti, le rose, le dalie, i giaggioli, i cespugli di ortensie negli angoli più ombrosi e, sui muri, il glicine odoroso.
Alcuni cascinali sembrano, di per sé, dei piccoli paesi medievali, chiusi tutto intorno dalle costruzioni, da cui innalzano, talora, delle torrette. Non sono a ridosso della strada principale, ma, per arrivarci, si superano due pilastri e poi un viale di alberi. E’ così, ad esempio, la splendida tenuta Gambarello, nel comune di Mombello, di epoca ottocentesca, in mattoni a vista.
E, analogamente, sono strutturate le grange, come quella di Pobietto a Morano (dove è anche venuta alla luce una necropoli dell’età del bronzo, tra 3000 e 3500 anni fa), e quella di Gazo a Terranova; qui, c’è il mulino della Grangia, molto caratteristico, che pescava l’acqua dalla Stura e ha macinato ancora fino a una decina di anni fa. Un altro mulino, secondo il percorso indicato dal maestro Teresio Malpassuto, è quello della Costa a Villanova, di cui rimane oggi una sola ruota, e che pescava nella roggia Nuova; si riscontrano, inoltre, resti di un mulino nella zona della grangia di Pobietto.
Anche nella piana ci sono bei castelli e dimore nobiliari: sull’altura di Pomaro, che fu casa della celebre attrice “povera ma bella” Marisa Allasio sposa del conte Calvi di Bergolo, a Giarole, a Balzola, per fare qualche esempio.
Il giorno della trebbiatura, sull’aia c’era un gran movimento di uomini e donne, con la faccia cotta dal sole. Gli uomini indossavano camicie a quadri con le maniche rimboccate oltre i gomiti e cappelli di paglia a larga tesa, le donne avevano il foulard a fiori annodato sulla nuca e, sopra, la cappellina. Le galline, le oche, i cani, i gatti cercavano rifugio sotto il portico o nell’orto, perché c’era tanta confusione come essere al mercato. Buona parte del cortile era occupata dalla mietitrebbia che sbuffava, facendo fumo e polvere. Dentro una grossa bocca si infilava il grano raccolto nei campi: da un lato uscivano i balot di paglia legati con fili di ferro, mentre i chicchi finivano in un grosso tubo che arrivava fino al solaio della cascina. Sul lato opposto dell’aia, c’era una sorta di lungo cavalletto che serviva a tagliare i fili di ferro della lunghezza giusta, da inserire poi nella trebbiatrice per legare i “balot” a forma di parallelepipedo. La bambina con la vestina di cotone a quadretti bianchi e azzurri, con un cappellino alla marinara, comprato in una gita al lago Maggiore, fissava il filo di ferro a un gancio su un’estremità del cavalletto, poi lo tendeva fino all’altra estremità, dove lo fermava e, con un colpo secco su una leva, lo tagliava. Quando i fili erano pronti, le donne e gli uomini li raccoglievano per infilarli nella fessura della mietitrebbia. Il lavoro non poteva interrompersi, non si poteva dire “finiamo domani”, bisognava concludere prima che calasse il buio.
Poi si stappava una bottiglia e si festeggiava, con pane e salame, e con la “soma d’aj”. Quando la mietitrebbia abbandonava l’aia, le galline e le oche e le anatre, che avevano già avuto la loro dose di granaglie, ormai dormivano appollaiate sotto il portico; i cani e i gatti tornavano a gironzolare nel cortile, aspettando la “casarola” con il pasto. Gli uomini sfaccendavano nella stalla perché le mucche smettessero di muggire e le donne mettevano sul fuoco la cena. Magari, una sostanziosa “panissa”.
La capitale del Monferrato è Casale. E’ pur vero che in Italia c’è una capitale soltanto che è Roma, ma per la terra di Monferrato la capitale è Casale. Lo è stata nella storia più antica, lo è diventata in quella più recente dal punto di vista economico. Ha alternato polvere e altari, ma il carattere tenace della sua gente è sempre riuscito a rimetterla in piedi.
In epoca recente, l’agricoltura e l’industria conobbero tempi bui, ma si risollevarono credendo nel valore della qualità, di cui si sono sempre fatte vanto. La chiusura di alcune fabbriche, che occupavano centinaia di operai, ebbero ripercussioni gravi. La scia dell’amianto, l’inquinamento dell’acquedotto comunale che mise in ginocchio la città, le alluvioni a poca distanza l’una dall’altra sono tutte pagine buie che, però, i casalesi hanno avuto il coraggio di voltare.
Casale: città di storia, città di industrie, oggi proiettata verso il ruolo di città di cultura e di arte. Perché è questa, pur mantenendo attive le industrie e viva l’agricoltura, la vocazione che sta assecondando. E non è una vocazione costruita su chiacchiere e sogni. Al contrario, poggia sulla solidità di un antico castello che fu dei Paleologi e dei Gonzaga, ora in via di ristrutturazione, per diventare sede della Biblioteca civica e delle sue decine di migliaia i volumi, oltre che di sale espositive e di locali vivaci. Poggia sul Museo Civico, con annesse la gipsoteca di Leonardo Bistolfi, di respiro europeo, e la sezione archeologica, che richiamano appassionati e critici d’arte da tutt’Italia e dall’estero. Ha il fascino di una delle sinagoghe più belle d’Europa con un Museo israelitico che racchiude collezioni uniche al mondo. C’è il Duomo, dedicato al patrono Sant’Evasio, primo vescovo, la cui imponenza, solarità, maestosità emergono ancor più dopo i recenti restauri, che hanno interessato anche lo straordinario nartece all’ingresso, di cui non c’è esempio uguale nel mondo. E poi le altre chiese, e i palazzi uno accanto all’altro, uno più bello dell’altro, lungo le vie di porfido; e i portici sulla strada del passeggio, e le piazze: Mazzini e Santo Stefano, che fanno da salotti, e Castello, che è quella grande, su cui si affacciano, oltre al forte, molte altre costruzioni di pregio, tra cui il Teatro Municipale. Dopo un’epoca di bagordi e feste da ballo, il teatro casalese cadde in una fase di declino e rimase chiuso circa mezzo secolo. Ci vollero più di dieci anni per decidere come restaurarlo, come pagare i restauri e come riaprirlo. Avvenne nel 1990 con un brindisi insieme a Vittorio Gassman in un’atmosfera di grandissima emozione. I biglietti dell’ouverture vennero messi in vendita al botteghino e non furono fatti privilegi: chi voleva avere un posto a Teatro doveva mettersi in coda. Era ancora notte fonda, quando cominciò a formarsi la fila, che via via si ingrossò mentre faceva l’alba. E quando appena spuntava il sole, avanzarono, in cima a due braccia alzate, grandi vassoi di krumiri, i veri krumiri di Casale, appena sfornati, con il profumo che aleggiava sulle teste in attesa. E fu di per sè un evento che preannunciò l’evento.
La voglia di teatro pervase non soltanto i casalesi, ma tutto il Monferrato. E, così, Pontestura ristrutturò e riaprì il vecchio “Verdi”, Terruggia riattivò il “Comunale”, Valmacca il “Salone del Teatro”, Solonghello il suo delizioso “Teatrino”, Rosignano rimise in sesto l’”Ideal”, e nella stessa Casale tanto il “Teatro Buzzi” al Valentino che il “Salone Teatro Tartara” in piazza Castello sono diventati pregevoli contenitori di spettacolo.
Una buona fetta della città si può percorrere tra allee di alberi, viali di giardini e parchi. I giardini grandi e storici sono quelli denominati “Pubblici” e hanno un impianto antico che alterna ippocastani a cespugli, a prati, a fontane. Un grande spazio è occupato dal monumento dei Caduti di Leonardo Bistolfi. In primavera e in estate, il verde esplode in infinite sfumature; in autunno, cede al giallo, all’arancio e al marrone e, in inverno, i rami nudi salgono verso l’alto come tante dita a un passo dallo sfiorare il cielo ceruleo che preannuncia la galiverna, o la neve. Di notte, i lampioni, che diffondono luce gialla, sono i discreti custodi dei segreti bisbigliati da pochi passanti che, nei viali, solcano l’alternanza di buio fitto e penombra.
Poco distante, c’è il parco della Cittadella: un’estesa area verde in cui si colgono i residui delle antiche fortificazioni, – citate da Manzoni nei “Promessi Sposi” e da Eco ne “L’isola del giorno dopo” (pregevoli l’ingresso e la casamatta) – preannunciata dall’immensa piazza d’Armi su cui sta consolidandosi il nuovo polo fieristico.
Sull’altro lato della città c’è il Po. Amore e odio, gioia e dolore, audacia e paura sono i sentimenti che si intrecciano con la storia del grande fiume. Un pezzo di vita casalese si è sviluppato su quelle rive, in quelle acque, tra la pesca di alborelle e le nuotate, tra le dispute a bocce o a scalaquaranta e le mangiate nelle baracche di legno, tra le gare dei barcé e le sfide di motonautica. Un altro pezzo di vita si è schiantato contro quelle acque, che, forse offese dagli uomini, si sono ribellate, e li hanno inseguiti nelle loro case. Casale (Terranova, Popolo, Oltreponte, Nuova Casale) e alcuni paesi intorno – Morano, Balzola, Villanova, Coniolo – hanno vissuto il dramma delle alluvioni. Per questi monferrini è stata inventata una parola nuova: bi-alluvionati, alluvionati due volte, nel ’94 e nel 2000. E dove non è stato il fiume, il principale colpevole, lo sono state le rogge, e i rii, e i torrenti. Questo nelle pagine più recenti. Ma ce ne sono di più antiche che rievocano analoghi eventi. A Bozzole, c’è una colonna sormontata da una statua bianca: è la Madonna dell’argine. Il 17 novembre di ogni anno, fin dal 1684, i bozzolesi fanno una processione nel ricordo di una disastrosa alluvione che si arrestò proprio ai piedi della Madonna e risparmiò il paese.
Ma non si può odiare il fiume. Si può fare, invece, un patto di reciproco rispetto. Ed è quello che si sta tentando di consolidare.
Dal fiume ai giardini, al parco della Cittadella, al centro storico, ai quartieri di periferia, Casale è una città tutta da passeggiare. O, forse, ancor meglio, da “biciclettare”. E’ questa la dimensione, è questo lo spirito, è questo il piacere di andare e guardarsi intorno, perché, a ogni giro, si scopre una banderuola nuova su un tetto, un portone scolpito, lo scorcio di un cortile o di un giardino, la merce esposta nelle vetrine dei negozi.
Di sera, per magia, si accende un faro. Chi se ne va via, lo ritrova, ogni volta, al ritorno. Una luce, che, da qualche tempo, cambia di colore passando dal bianco al rosa al verde al giallo, per farti restare incantato, quando arrivi dal ponte sul Po, o dalla tangenziale, o ti affacci ai balconi alti delle case di periferia. La Torre civica o Torre di Santo Stefano è lì ad accoglierti, come a dire: “Sei andato, hai visto molto di bello nel mondo, ma adesso sei di nuovo a casa. Bentornato”.
Per il pranzo di Pasqua, il tavolo della sala veniva allungato. Da sotto il pianale di legno di pioppo, si tiravano le “slonghe” e, sopra, si appoggiava un asse. Si guadagnavano da tre a sei posti in più. Un po’, magari, si stava stretti, ma non ce ne si accorgeva neppure. Una donna con i capelli grigi apriva il “tiret” della credenza e tirava fuori la tovaglia di fiandra, candida e stirata in modo impeccabile. La stendeva e, sopra, ci posava i piatti di porcellana con il filo dorato, i bicchieri di cristallo del servizio buono, le posate ripassate con un panno morbido, perché non avessero neppure l’ombra di una macchia. E quando tutti erano seduti – “ci stai? stringiti un po’, ma sì che ci stiamo tutti” – cominciavano ad arrivare in tavola le diverse portate: salame cotto e salame crudo disposto a raggiera sui piatti ovali, peperoni in bagna cauda, risotto con gli asparagi, coniglio e patate arrostite, e poi il “bunet”, dolce e morbido. “Fa resuscitare un morto” diceva il più anziano degli uomini e tutti assentivano, sorseggiando Malvasia. La bambina con la vestina di cotone a quadretti bianchi e azzurri storceva il naso davanti al bicchiere di vino, ma non disdegnava la doppia porzione di “bunet”.
Il Monferrato è anche terra di grandi personaggi, i cui nomi sono scritti nei libri importanti della storia d’Italia e del mondo. Il casalese Giovanni Lanza, ad esempio, capo del primo governo dopo l’Unità d’Italia. E Natale Palli, capitano pilota che, insieme a Gabriele D’Annunzio, guidò il mitico volo su Vienna nell’agosto 1918. E Francesco Negri, anch’egli casalese, pioniere della fotografia e inventore del teleobbiettivo, Ascanio Sobrero inventore della nitroglicerina. Carlo Noé, ingegnere bozzolese, fu l’artefice del canale Cavour. Gli architetti Francesco Ottavio Magnocavalli, progettista di molte chiese, e Luigi Canina, archeologo, protagonista delle campagne di scavo sulla via Appia, sull’Esquilino, al Tuscolo e a Veio. Il profeta Mansur (Giovanni Battista Boetti), nato nella casa di Piazzano di Camino e poi missionario francescano finito in terra russa e fino a Costantinopoli, predicò laggiù una nuova religione. Moltissimi gli artisti: i pittori Pietro Francesco Guala di Casale, Angelo Morbelli della Colma di Rosignano e Mario Micheletti di Balzola, lo scultore Leonardo Bistolfi cui è dedicata la gipsoteca casalese, fino ai contemporanei Enrico Colombotto Rosso, Aldo Mondino, Marco Porta e Camillo Francia. Ci sono stati musicisti, tra cui Carlo Soliva, Luigi Hugues e l’organista Angelo Surbone, nato e sepolto a Treville. La galleria prosegue con lo storico Gabriele Serrafero, medico casalese, da anni a Camino; l’attore Giovanni Emanuel di Morano Po che, nell’800, recitò anche con Eleonora Duse; il poeta “scapigliato” Piero Ravasenga di Borgo San Martino. E molti scrittori sono nati in questa terra Musa oppure sono passati di qui o vi hanno trovato rifugio: oltre a Pavese (la cui madre era originaria di Ticineto) il quale soggiornò a Serralunga e a Casale, Silvio Pellico che, nel 1813, nel castello di Murisengo, compose “Francesca da Rimini”, gli inglesi Roy Mac Gregor e Martin Hocke, interprete del genere fantasy, a Odalengo Piccolo, Rosetta Loy e Giovanni Sisto (che fu anche uomo politico) a Mirabello, Rossana Ombres che visse l’infanzia al Valentino di Casale, Giuseppe Bonaviri che, durante il servizio militare alle “Casermette”, scrisse “Sarto della stradalunga”. E, poi, il giornalista, romanziere e saggista, Giampaolo Pansa, nato in via Corte d’Appello in un vecchio palazzo casalese che ha raccontato in alcuni suoi libri, a partire da “Ma l’amore no”. Senza dimenticare gli atleti, come i calciatori Umberto Caligaris, terzino del Casale, della Juventus dei cinque scudetti consecutivi e della Nazionale, ed Eraldo Monzeglio, due volte campione del mondo.
E, in questa terra di grandi vini, è nato e vissuto il “padre” della doc (la denominazione d’origine controllata) Paolo Desana, erede di una “scuola di alta enologia” di cui furono esponenti gli studiosi Giuseppe Antonio e Ottavio Ottavi, Arturo Marescalchi e Federico Martinotti di Villanova, uno degli inventori della spumantistica moderna.
Al giorno d’Ognissanti, di ritorno da messa grande e dal giro al cimitero tra ceri e crisantemi, tra chiacchiericci e sfregolio di ghiaietto sotto i piedi, si ripeteva il rito del pranzo della festa. Uno degli uomini, in maniche di camicia e col gilet, apriva la porticina del sottoscala, faceva luce con una torcia e si dirigeva, abbassando la schiena, verso la parte più bassa, dove erano allineate le bottiglie. Ne afferrava un paio, poi le “stusava”, le puliva, con uno straccio, per togliere la polvere che si era depositata e la stappava con il “tirabuson” fissato al muro.
La bambina, con i capelli castani raccolti a coda di cavallo, il golfino blu e i calzettoni bianchi di pizzo, aiutava ad apparecchiare il tavolo, a mettere le posate al posto giusto – “la forchetta a sinistra, coltello e cucchiaio a destra, ma sta’ attenta a non tagliarti, né!” – e i tovaglioli bianchi ripiegati a triangolo. Sul piatto ovale era ben disposta la “carne cruda” che profumava di aglio e di una spolverata di tartufo.
Poco dopo, la zuppiera fumava, al centro della tavola. La madre si faceva passare i piatti, a uno a uno, e versava i ceci immersi in un sugo denso e bruno, con qualche pezzo di “cuja”. E, poi, arrivava la carne arrosto con i funghi “cumudà”. “Sono quelli che ha raccolto lo zio”. Infine, una tazza di zabaione squisito al Marsala.
Il giorno di Natale, invece, le donne sfaccendavano in cucina dalla mattina “bun’ura”. Aprivano il tavolo a libro e ne raddoppiavano la dimensione. Su un lato, la più anziana rovesciava la farina e ne faceva una montagna; in un buco, al centro, spaccava le uova, insaporiva col sale e versava l’acqua. Poi, iniziava a impastare, rincorrendo i rivoli d’acqua che sfuggivano. Ora pigiava con una mano ora con l’altra, accompagnando i movimenti delle braccia con un dondolio del corpo a destra e a sinistra. Il giorno prima, era già stato preparato il ”pin” per gli agnolotti. Quando con il matterello lungo la più anziana tirava la sfoglia e ne faceva un cerchio grande così, si posava il ripieno di carne e si avvolgevano gli agnolotti, uno per uno. La bambina si arrampicava su una sedia e disponeva gli agnolotti su teli di lino posati su assi sottili e contava, bisbigliando: “Uno due tre… dodici”, e gridava “Una dozzina” e così, viandare, fino alla fine.
Sul tavolo allungato, “che così ci stiamo tutti”, i piatti del servizio bello si riempivano di salame d’oca, di fritto misto, di agnolotti col sugo d’arrosto, di cappone lesso, per finire con la torta di zucca o di castagne e una cucchiaiata di cioccolato fuso. E i grandi, nei bicchierini da “cichet” prelevati dalla cristalliera, versavano due dita di grappa. “E’ quella della distilleria di Rosignano o di Altavilla?”. E gli uomini fumavano, e le donne sparecchiavano, e la bambina ricciuta con la coda di cavallo stava incantata davanti al presepio, con il muschio vero, e il laghetto di carta stagnola, e la stella dorata sul tetto della capanna. Fuori, tutto era bianco e, nel giardino, sul lato contro il muro, erano spuntati i bucaneve.
Mi hanno chiesto di scrivere un articolo su Casale e il Monferrato. Mi pareva facile, ma non è stato così. Ho provato e riprovato, scritto e cancellato. Poi mi sono arresa: non lo so fare. Così, ho provato a scrivere una storia d’amore. La “mia” storia d’amore con “lei”, la mia terra. E le sue campane.
Bellissimo. Leggendo ho imparato a conoscere tantissimo su Casale e il Monferrato. Grazie