«Ma perché ca… spita parliamo così?» è un racconto demenziale scritto sotto forma di lettera a Babbo Natale. L’ho scritto divertendomi con rabbia. Sì, mi sono divertita ad assemblare quei tremendi «luoghi comuni» che mi fanno tanto arrabbiare e che, uno in fila all’altro, sono diventati la sequenza scontata e banale del più diffuso linguaggio contemporaneo. Ce ne riempiamo la bocca, sembra perfino che, mettendo insieme queste ovvietà, pensiamo di fare discorsi intelligenti. Li ho ascoltati nei bar, nei negozi, nella sala d’aspetto del medico, li ho letti sui giornali, li ho sentiti in tivù e, ahimé, li ho anche pronunciati alcuni di questi luoghi comuni. Mi sono comunque divertita ad annotarli, ho stuzzicato altri che me ne suggerissero. Poi ho provato a farne un concentrato tirandoci fuori una storiella non-sense. E alla fine mi sono domandata: «Ma perché ca… spita parliamo così?», per frasi fatte pronunciate in fotocopia, incastonate in modo complicato ed esagerato, tutti in modo uguale come se vedessimo la stessa cosa e provassimo identiche emozioni senza sfumature originali?
Ecco che cosa ne è venuto fuori.
LETTERA STRAMPALATA A BABBO NATALE
Caro Babbo Natale,
in questa splendida cornice piena di luci scintillanti
e dolci melodie scrivo a Te in quanto leader
carismatico della festività più celebrata, per culto e
per business, nel mondo intero.
Ti confesso che, nell’esporti le linee guida del mio
pensiero, ho la fronte madida di sudore. Ma è arrivato
il momento di tirare i remi in barca e parlarti con il
cuore in mano.
Sono molto depresso. Lo psicanalista dice che devo
guardarmi dentro e trovare in me la forza per uscire
dal buco nero in cui sono precipitato.
Ma io, invece di scrutare dentro di me, sono
assalito da ricorrenti incubi notturni nei quali mi vedo
riflesso in uno specchio con lo sguardo disperato. Per
che cosa? Nel brutto sogno, mi vedo afflitto da un
gravissimo problema esistenziale, causato da una
calvizie incipiente che mi impedisce di guardare al
futuro con serenità. Già mi immagino la scena
raccapricciante di quando anche l’ultimo capello
smetterà di pulsare sul mio cranio. Come potrò
sopportare questa immane sciagura? E’ allucinante.
Mi risveglio in un bagno di sudore, il cuore che
batte all’impazzata e con l’unica consolazione di aver
perso sì il sonno, ma non i capelli.
Ma la vera origine del tormento delle mie notti
insonni scaturisce dal fatto che la mia donna mi ha
lasciato. Si, se n’è andata con un tipo dalla chioma
fluente, folti baffi e barba, si occupa di import-export
e, per di più, ha una Ferrari della madonna. Insomma,
l’angelo del mio focolare non c’è più. Mi mancano le
sue labbra tumide e sensuali, il suo sguardo
penetrante, la sua voce suadente. Ed è così che mi si è
aperto quell’insanabile buco nero nell’anima. Mi
impegno a ripararlo, ma non so che attrezzi usare.
Non riesco proprio a dare una svolta alla mia vita.
Mi sono buttato a capofitto nel lavoro; mettendomi
a disposizione in prima persona con spirito di
servizio, ho aperto tavoli di concertazione sulla fame
nel mondo, sulla crisi finanziaria, sui pedofili,
sull’emancipazione degli zulù che non sono certo
cittadini di serie B, sullo sport come attività educativa
che fortifica corpo e spirito e allontana dalla droga, e
chi più ne ha più ne metta, ma non sono riuscito a
tirarmi su il morale.
Scruto l’orizzonte, ma, nel tramonto infuocato della
mia mente, vedo il nulla. Anzi, mi pare di avere
davanti la città deserta come ad agosto, di quegli
agosti di alcuni anni fa, quando le ferie si
concentravano in un mese e non come adesso che si
fanno le partenze intelligenti e l’esodo scaglionato,
così da non rimanere intrappolati per interminabili ore
su una striscia d’asfalto infuocata (poi, però, a fine
agosto, non si sa come, arriva sempre tutta insieme
l’ondata del controesodo e scoppiano le polemiche per
le strade intasate, e pure per le stragi del sabato sera
che, però, ci sono tutto l’anno).
Bene, anche se mi immergo nel bagno di folla di
una «notte bianca» (o di una «notte rosa», o
variopinta o, meglio ancora, full color), sento il vuoto
pneumatico dentro. E, pure se scoppia un caldo afoso
e torrido, io avverto un freddo pungente. Gli altri non
se ne accorgono, perché mostro una calma apparente,
ma dentro di me è l’inferno.
Ho deciso di scagliare una tremenda offensiva per
reagire al mio stato d’animo mobbizzato dallo stress.
Mi sono catapultato all’improvviso nella sala
congressuale dell’Ergife a un’assemblea plenaria di
manager, quadri, colletti bianchi, tute blu (e anche
calzini verdolini), veline, scribacchini, portavoceportaborse-
portacicche, uscieri, operatori ecologici,
personale adest, ata, oss, cocopro, e pure accattoni. In
quella splendida cornice davanti a uno splendido
pubblico – chi con il cellulare piantato nel lobo
auricolare, in collegamento diretto con le Borse di
Milano, di Londra, di New York e di Tokyo, che
crollano e si rialzano come yoyo, impantanati tra Mib
e Down Jones, chi a nettarsi unghia contro unghia e a
scaccolarsi – ho sentito il calore della folla. Una folla
immensa che mi pareva pendesse dalle mie labbra:
un’immagine, insomma, che mi rimarrà per sempre
scolpita nella memoria.
Così mi sono alzato per dire due parole. E ho
parlato a braccio per quarantasette minuti della
formula vincente per rimanere a galla nell’atomico
caos finanziario che rischia di inghiottirci e
disintegrarci come kamikaze. Ho spiegato il mio
punto di vista e ho fatto appello al senso civico di tutti
perché ciascuno si assuma le proprie responsabilità di
fronte a una situazione così complessa che non ha
precedenti. Bisogna fare uno sforzo collettivo per
trovare il minimo comune denominatore in una causa
corale che ponga l’uomo al centro e che venga gestita
da una cabina di regia attenta ai segnali puntuali che
arrivano dal mondo globalizzato. Ma, per fare ciò,
occorre partire dalla definizione di una precisa scala
delle priorità e puntare alla valorizzazione delle
professionalità. Tutto questo lo facciamo per i nostri
figli, che sono gli uomini di domani, altrimenti hanno
ragione a lamentare che non si fa niente per i giovani.
Con spirito costruttivo, ho lanciato seduta stante una
proposta innovativa e originale: proprio perché i
giovani rappresentano la nostra finestra sul futuro, è
indispensabile coinvolgere il mondo della scuola. E,
quindi, la prima cosa da fare, sempre, è bandire un
concorso per gli studenti di ogni ordine e grado: dalle
materne, alle primarie, alle medie alle superiori,
sensibilizzando il dirigente del Miur, il dirigente del
Csa, i dirigenti degli Istituti Superiori, degli Istituti
Comprensivi e, se ce ne sono rimasti, dei Circoli
Didattici, i docenti e il personale Ata tutto. Un tema
per il concorso lo si trova, tipo: «Droga, che fare?»,
«L’educazione stradale ieri e oggi», «Strage di
piccioni: analogie e differenze tra piazza del Duomo a
Milano e piazza San Marco a Venezia», «Scontri tra
ultras negli stadi: perché non accada mai più»,
«Sanità: priorità e progetti», «La guerra combattuta
dai nonni raccontata ai nipoti: per non dimenticare»,
«Giovani e sicurezza. Competenze trasversali per
comportamenti responsabili». In palio, per i vincitori,
un bel viaggio premio in un campo di
concentramento, o alle foibe o alle catacombe.
Contemporaneamente, però, un pool di esperti
(selezionati da un’apposita commissione, previa
presentazione di dettagliati curricula) procederà a fare
un accurato monitoraggio dell’esistente.
La folla mi ha ascoltato attonita, poi, appena ho
posato il microfono, si è lanciata, con spirito liberal e
bipartisan, indifferente a qualsiasi gerarchia socioculturale
political correct, sul buffet del coffee break:
una tavola imbandita strabordante di prodotti tipici
locali e di vini pregiati del nostro territorio. Sì, caro
Babbo, sta proprio nella valorizzazione dei prodotti
tipici di qualità la nostra salvezza e la forza del futuro
per richiamare un turismo soft che rilanci il territorio
garantendo ricchezza e benessere alle nostre città
costruite a misura d’uomo: bisogna partire dal
recupero delle radici e capire da dove veniamo per
sapere dove dobbiamo andare. Io sono assolutamente
convinto che la formula vincente consista non nel
promettere mari e monti, ma nel costante impegno
profuso a valorizzare le risorse turistiche riconducibili
al concetto di benessere nella sua accezione più ampia
di star bene, non solo sotto gli aspetti psicofisici, ma
anche mentali e sociali. Uau!
Bisogna dire che è stata proprio una toccante
cerimonia, in un luogo elegante e dotato di tutti i
comfort, pensato e realizzato di sicuro da una persona
dotata di innato senso dell’arte. Mi aggiravo nel
salone sbocconcellando qualcosa e osservando, dalle
ampie vetrate, le bellezze del paesaggio: scorci di
natura così belli che sembravano fotografie. Bisogna
dirlo e bisogna dircelo che non abbiamo niente da
invidiare alla Langhe, alla Toscana, alla foresta
dell’Amazzonia, alle cascate del Niagara e neppure al
deserto del Sahara. Mi sentivo in pace con me stesso,
a raccogliere i frutti maturi delle stagioni dell’anima.
A un certo punto, però, in mezzo a quella folla
affamata e vociante, ho intravisto lei, la mia donna,
cioè la mia ex donna, con lui, quello della chioma
fluente dell’import-export e della Ferrari. E allora ho
sentito il mondo crollarmi addosso.
Ero in bilico tra due sensazioni opposte. Da un lato
la volontà, dettata dal buon senso e dal mio innato
savoir faire, di avvicinarmi e intrattenermi con loro
per un colloquio cordiale, esordendo con «mi
consenta, dottore…» e passando subito affabilmente
al «tu», buttando lì qualche carineria del tipo «che
shampoo antiforfora usi, stai attento che il phon killer
non ti scivoli nella vasca quando fai il bagno, quanto
ti costa un treno di pneumatici per la tua macchinetta
sportiva, quanto fai con un litro, certo che una Ferrari
rossa ehe!… ma non sarebbe male neanche gialla con
quei begli occhioni, pardon: fanali a mandorla…»,
cose così che fanno sempre piacere e ti rendono
simpatico. Dall’altro la bestia in ebollizione dentro di
me mi istigava verso un bagno di sangue secondo un
preciso cronoprogramma: mettere a fuoco
l’obbiettivo, spingere il piede destro indietro, piegare
leggermente il busto in avanti, prendere la rincorsa e
piombare con la parte più puntuta del mio cranio
contro il petto villoso del ferrarista capellone e un po’
dandy.
Poi, però, la voce della mia coscienza con un urlo
diabolico mi ha scosso dal mondo onirico e virtuale e
mi ha riportato nel mondo reale con i piedi ben
piantati per terra. Ho avuto uno scatto d’orgoglio, ho
voltato le spalle e sono scappato via per non
commettere un tragico errore umano.
Riflettendo, nella calma dell’abitacolo della mia
Punto bianca, fermo al semaforo che cambiava
alternativamente colore da rosso a verde a giallo e
così via con la stessa sequenza, cullato dalla musica
soave dei clacson che suonavano solo per me,
intenerito dai gesti di solidarietà degli automobilisti
che mi sfrecciavano rombando a destra e a sinistra,
grato alla pioggia purificatrice che, arricchita di
scintillanti grani di tempesta, aveva cominciato a
spiaccicarsi contro il parabrezza, con l’umidità che mi
entrava nelle ossa (d’altronde siamo a dicembre e, se
non fa freddo adesso, quando vuoi che lo faccia,
benché le stagioni non siano più quelle di una volta),
ho capito il senso della vita.
Sì, di colpo, caro Babbo Natale, ho compreso
chiaramente che non desideravo più nessun rapporto
conflittuale. Avrei cercato rifugio nelle piccole cose,
nei dialoghi cordiali senza spaccature, nella
beneficenza ai bambini dell’India e dell’Africa, ai
cassintegrati, alla Croce Rossa, alla Bianca e alla
Verde (viva la Patria!), ai missionari, agli zoppi, ai
clochard (anche se puzzano un po’), alle associazioni
contro i pidocchi, le petecchie e le scollature volgari;
avrei cercato il significato delle cose vere: il Fernet
Branca, buone letture e buona musica, e cene soltanto
con gli amici che contano (anche se neri, gialli o rossi,
tanto, se non sono proprio la feccia, io mica sono
razzista) nel calore delle mie quattro mura
domestiche.
Ecco, caro Babbo Natale, è come se mi fosse
scattato un flash nella testa e ho capito che sono
cambiato, assolutamente sì, e mi trovo di fronte a una
svolta epocale: non sono più quello di una volta,
assolutamente no. Nel mio profondo è avvenuta una
sorta di radicale restyling, mi sto reinventando come
uomo e come cittadino/utente. Diciamo che mi sto
approcciando a un modo nuovo di concepire
l’esistenza. Mi sento più sicuro di me stesso e non ho
più paura della mia ombra perché ho capito che ciò
che conta non è avere i capelli fluenti o non averli per
niente, avere il ventre scolpito o la pancetta, le guance
ammorbidite o inamidate dal lifting, la Ferrari Gt
California o la Panda 2 Volumi alla quarta revisione.
No. No. No. Ciò che conta veramente è essere belli
dentro.
Improvvisamente, caro Babbo Natale, ho capito
che non me ne importa neppure più niente di lei, che
faccia pure la sua vita; e me ne infischio della
congiuntura sfavorevole sui mercati internazionali,
dei conflitti di interessi, dell’etica nella politica.
Parole, parole, parole.
Basta parole!
Passiamo ai fatti, caro Babbo Natale.
Io, quest’anno, per regalo, ti chiedo soltanto una
cosa: una Ferrari come la tua. E, se non riesci a farla
stare sotto l’abete finto illuminato e addobbato,
parcheggiamela pure sotto casa.
Lei, invece, puoi anche tenertela. A pensarci bene,
la nostra storia era già finita da un pezzo, non
avevamo più niente da dirci, anzi, praticamente
eravamo separati in casa.
Aspetto fiducioso.
P.S. Non lasciare le chiavi inserite nel cruscotto, di
questi tempi non si sa mai, con tutti ‘sti
extracomunitari che girano senza permesso di
soggiorno… meglio sotto lo zerbino. Mandami un
whatsapp o un sms ke vado subito a ritirarle.