SILVANA MOSSANO
L’8 marzo 1917, nella città di San Pietroburgo le donne russe scesero in piazza per protestare contro la guerra, la fame e la miseria che, in tre anni di conflitto mondiale, avevano piegato e ridotto allo stremo la popolazione.
A quell’evento di San Pietroburgo (che allora si chiamava Pietrogrado) si fa risalire la data di ricorrenza della Giornata internazionale della donna: 8 marzo.
C’è anche un’altra versione suggestiva, ma storicamente non fondata, con cui si fa coincidere simbolicamente la ricorrenza: l’evocazione di un rogo nella fabbrica di camicie Cotton di New York, nel 1908, in cui persero la vita molte operaie impossibilitate a fuggire perché erano tenute sotto chiave. In realtà, di questo evento non si trova traccia documentale. Ce ne fu invece un altro analogo, questo sì riportato dalle cronache, datato 25 marzo 1911: l’incendio nella fabbrica di camicette Triangle, sempre a New York, in cui morirono intrappolate dalle fiamme 146 persone, 123 donne e 23 uomini, per lo più italiani ed ebrei dell’Europa orientale.
Ma l’idea di istituire una Giornata dedicata alle donne era già stata manifestata nel 1909 a New York e riproposta l’anno successivo a Copenaghen. In vari Paesi si era iniziato a celebrarla, ciascuno però in date diverse.
Il primo 8 marzo dell’Italia libera fu organizzato dall’Udi (Unione Donne Italiane) nel 1946. E si scelse la mimosa come simbolo della celebrazione. Nel 1977 l’Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura) proclamò ufficialmente l’8 marzo Giornata internazionale della donna.
I temi di discussione, ai giorni nostri, vanno dalle discriminazioni nella società, nella famiglia e nel lavoro, alla invocata parità dei diritti, all’orrore per le violenze di genere.
Ma non basta.
Oggi, si torna indietro, a oltre un secolo fa, quando le donne, in Russia, scesero in piazza contro la guerra.
Guerra c’era e guerra c’è. Quanto mai è abitudinaria la storia, vero? Si ripete metodica, puntuale, circolare, prendendo ispirazione dall’animo umano vocato visceralmente alla contrapposizione a prescindere, fino alle sue espressioni più violente, feroci e distruttrici. Purtroppo, soltanto a parole la storia è «maestra di vita»; nella realtà, è come parlasse al vento e i suoi insegnamenti sono troppo spesso inascoltati o dimenticati.
La guerra c’è, è tornata, o forse non se n’è mai andata via.
E pensare che fino a meno di due settimane fa si sbraitava, si infuocavano le piazze, si animavano i social e i talk show con vicendevoli insulti tra veementi e aggressivi schieramenti sull’obbligo di vaccino, sulla libertà di green pass, sul numero di dosi… ahiahiahi che ci tocchi la quarta sia mai…, sull’apertura delle discoteche, sull’urgenza di un aeroporto per aggirare il «calvario» sulla via di Cortina, sulle concessioni degli stabilimenti balneari, sulla osteggiatissima prova scritta di italiano all’esame di maturità!
Solo due settimane fa.
In questi ultimi giorni, il mio amico Stefano Bagnera mi ha ricordato che, in due stagioni, nel 2008/2009, per la Canottieri di Casale Monferrato, (società di cui in quel periodo Bagnera era presidente), aveva giocato il tennista ucraino Sergiy Stakhovsky: era arrivato a essere 30° nel mondo e aveva pure battuto Federer a Wimbledon.
E adesso? Ha posato la racchetta e ha impugnato il fucile, ha salutato la moglie e due bambini piccoli ed è in Ucraina a fare il soldato per difendere il suo Paese sotto attacco. Djokovic gli ha scritto un whatsapp: «Stako, dimmi come posso mandare aiuti, finanziari o altro». La racchetta e il fucile, le stesse mani a impugnarli, gli stessi occhi a fissare l’avversario. Che pure l’avversario, prima, era un tennista, o un insegnante, o un commerciante, o uno studente, o un fabbro. Uno di fronte all’altro, non per conquistare il match point, ma per uccidere. Senza la stretta di mano finale.
Si potrebbe scriverci il tema per l’esame di maturità.
C’è la guerra di nuovo, su cui riflettere, e scrivere pagine e pagine di temi: per lasciare il proprio segno, la propria riflessione nella Storia, prima ancora che per inseguire il voto. Una prova e una sfida di vera maturità, ragazzi!
C’è la guerra di nuovo, che non è mai stata zitta, anche se in certi pezzi di mondo facevamo i sordi. Ci sono i bombardamenti, il fuoco, la fame, il gelo, le malattie.
E ci sono le donne che sono contro la guerra, come cento e più anni fa a San Pietroburgo, e come oggi in Ucraina e in Russia, e negli Stati di confine che temono, e nell’Occidente che trema, e come in Siria, in Afghanistan, in Libia, in Etiopia, in Mali, in Burkina Faso, in Niger, in Ciad, in Sudan, nel Corno d’Africa, nello Yemen, in Birmania…
Le donne: alcune scendono in piazza, altre imbracciano i fucili, altre si trascinano addosso e appresso i figli, se li caricano sulle braccia e sulla schiena per portarli in salvo: chilometri a piedi, o ammassati su un treno, o lanciati oltre un muro, o trascinati in un ospedale di fortuna. Il passaggio repertino, nel tempo di una notte, da un tran tran tranquillo a una pioggia di bombe e spari, e a una prospettiva da profughi, se si rimane vivi.
Ci sono le donne, a preparare pasti nelle cantine, a raccontare fiabe ai bambini, a confezionare bombe molotov insieme ai bambini.
E ci sono i loro uomini strappati via: mariti, fratelli o figli a fare il mestiere del soldato che non avrebbero mai pensato di fare, che non avrebbero mai voluto fare.
E c’è la paura, inguaribile, indelebile, temibile incubatrice di odio.
Le donne amano, le donne protestano, le donne resistono, le donne non cedono. Le donne combattono: sì, contro la guerra, da sempre.
Ma le donne e gli uomini, i giovani e i vecchi, i bianchi e i neri, quando amano e quando si amano, vogliono entrambi queste stesse cose, nella maniera più pratica e più naturale, dividendo fatiche, gioie e lenticchie, senza contrapposizioni e senza stereotipi troppo spesso costruiti ed esaltati. Senza farsi la guerra.
* * *
Post scriptum: in confidenza, le donne non sanno che farsene della mimosa.
Regalateci la pace, che è meglio.
Auguri a Tutte le Donne presenti e a quelle che non sono più con noi, alle nostre mamme . Grazie di esistere. Buona Festa anche se oltraggiata dalla guerra in atto. Sia Pace!
Bravissima Silvana!!!! Tutte verità, grandi verità!!!! Ma siamo sempre allo stesso punto? No, non credo, in particolare certo le donne non propongono la guerra, ma gli uomini la professano, anche in tempi di pace e in luoghi in cui non c’è guerra. Anche lì non tutti, però………
Brava Silvana, uno scritto meraviglioso come sempre, nella sua drammaticità. Ti abbraccio in questa nostra festa!
Bravissima Silvana! Un analisi storica e dell’attualità con grande sensibilità, profonda e con i piedi per terra. Sempre puntualissima!
È vero oggi l’8 Marzo (e dunque anche la mimosa) è stato assorbito dall’ inesorabile divoratrice
società dei consumi.
Posso a proposito ricordare che nei primi anni, anzi decenni, dopo la Liberazione, la mimosa era intesa non solo come omaggio alle donne, ma sopratutto quale simbolo di lotta di riscatto e di liberazione della donna e, ovviamente in base alle circostanze, simbolo anche di pace, quindi allora malvista dai conservatori benpensanti.(anch’io, con donne e ragazze, ne ho distribuita tanta, nelle fabbriche,per le strade….).
Ovviamente la guerra è il male supremo, e occorrerebbe … solo la pace.
Non si può aggiungere altro. Un affresco su questa ricorrenza da non dimenticare. Grazie.
Si le donne come mia nonna in fuga da Mariupol nel 38 con i suoi 5 meravigliosi figli.. paura freddo fame povertà che l’hanno marchiata per sempre ..il gelo nelle vene .. una sensazione che nessuna fiamma è mai più riuscita a sciogliere .. auguri a te grande vera !donna
Si potrebbe davvero scrivere l’esame di maturità così da far comprendere alle nuove generazioni, l’assurdità e l’inutilità della guerra, che crea solo distruzione dolore e povertà
Questo 8 marzo è doveroso dedicarlo alle Donne Ucraine con la speranza che i loro immensi sacrifici non siano vani. Sono sempre nei nostri pensieri e nei nostri cuori.